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+ Italiani alla Campagna di Russia |
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COLONNELLO GIUSEPPE MARIENI |
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CAPO BATTAGLIONE DEL GENIO NAPOLEONICO |
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NELLA CAMPAGNA DI RUSSIA |
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MILITARI ITALIANI NELLA CAMPAGNA DI RUSSIA |
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Tratto da: L' Opera del Genio Italiano all'
Estero - Gli Uomini d'Arme nelle Campagne Napoleoniche Capo. VII
LA situazione POLITICA.
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All'inizio del 1812, l'alleanza conclusa a Tilsit cinque anni prima fra Francia
e Russia era ormai pressocchè sciolta: a ciò aveva poderosamente contribuito
l'Inghilterra, secolare nemica della Francia. |
Come è quindi naturale che fosse, alle peggiorate relazioni fra i due colossi
europei si venivano affiancando le rispettive previdenze politico-militari,
tendenti a procurarsi alleanze o ad eliminare altri possibili avversari. |
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Franz Kruger - Zar Alessandro I |
La penisola italiana nel
1812.
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A questo
punto è necessario ricordare come fosse a quei tempi ordinata la nostra terra.
Tranne le due maggiori isole, Sardegna e Sicilia, rimaste alle rispettive
dinastie esuli dal continente (Savoia e Borbone), la penisola era tutta
sottomessa a Napoleone, direttamente attraverso territori che erano parte
integrante dell'Impero, indirettamente attraverso Stati governati da
luogotenenti di Napoleone, sia pure con numerose limitazioni.
Il Regno
delle Due Sicilie (terre di qua dal Faro) dal Tronto in giù comprendeva Abruzzo,
Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria. Risentiva delle non buone
relazioni fra i due cognati; inoltre era diviso dalle fazioni politiche, molti dei suoi cittadini
essendo
ostili ai Francesi, non per amore della monarchia borbonica, ma per avversità
verso lo straniero.
La
Toscana, sempre pacifica, costituiva granducato retto da
Elisa Buonaparte,
sorella dell'Imperatore, maritata al Baciocchi.Il resto dell'Italia, ad
occidente del Ticino, sino al Mar Ligure (Piemonte e Liguria, con Parma e
Piacenza), era parte integrante dell'Impero; nelle prime due regioni governava
Camillo Borghese, cognato dell'
Imperatore, perché marito di sua sorella, la «bella Paolina», come era in quel
tempo chiamata. Le forze militari italiane. - Delle forze militari italiane, quelle del Regno Italico erano le più omogenee, le meglio organizzate in divisioni che avevano già gloriosamente combattuto nelle precedenti campagne. Erano di massima comandate da generali italiani ed avevano una solida tradizione militare. Comprendevano reggimenti di fanteria di linea e leggeri, e adeguate aliquote delle altri armi; singolarmente scelto il corpo della Guardia Reale.
Il
reclutamento si faceva con la coscrizione; per gli ufficiali ed i sottufficiali,
attraverso scuole ottimamente comandate. Pavia provvedeva per fanti e cavalieri,
Modena per artiglieria e genio, e dal collegio di Venezia uscivano eccellenti
ufficiali di quella marina. |
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Per
contro, nel 1812, l'esercito murattiano aveva vita e tradizioni meno gloriose,
solo per avere avuto minori occasioni di distinguersi. Comprendeva, nelle sue
varie armi, truppe della guardia e di linea; il Re disponeva anche di una
marina, piccola sì, ma fiera di avere più volte respinto tentativi inglesi
contro le coste nazionali. Sino dal 1809 era in atto la coscrizione, nel
rapporto di due uomini ogni mille cittadini; la
Scuola Reale Politecnica
Militare (antica Accademia Borbonica dell'Annunziatella) forniva ufficiali
distinti, di cui taluni saliti in grande fama. I colori nazionali di
quell'esercito, a cui Murat aveva impresso alto spirito, erano il bianco,
l'amaranto e l'azzurro. |
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Paulin - Gioacchino Murat |
Piemontesi, mentre il 113° di linea e il 28° Dragoni erano tutti formati di elementi toscani. |
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Abbondavano invece i Romani nel 137° fanteria, e Liguri e Parmensi fornivano reclute al 32° e 35° fanteria leggeri. L'Italia, dunque, sia pur fatalmente separata, si accingeva a fornire un poderoso contributo alla Grande Armata, a fianco di numerose altre nazionalità, agenti nel quadro più vasto dell' Impero napoleonico, che le aveva assorbite.
I preparativi militari in Italia. - In armonia con le numerose previdenze adottate dall' Imperatore sino dalla primavera del 1811 (rinforzo ai reggimenti dislocati in Prussia, costituzione di battaglioni scelti, acquisti numerosi di quadrupedi, preparativi dei contingenti germanici, richiamo di truppe dalla penisola iberica, anticipo di chiamata della classe, concentramento di vettovaglie a Danzica) anche l'esercito italico veniva mobilitandosi, e per la primavera del 1812 il governo del Viceré avrebbe dovuto fornire, come in effetti fornì, la divisione Pino (13.000 uomini ed un migliaio di cavalli), la divisione della Guardia Reale (generale Lechi: poco oltre 5000 uomini, 1600 cavalli), la brigata di cavalleria leggera (generale Villata), il reggimento Dragoni della Regina (colonnello Narboni), nonché parchi di artiglieria e del genio, equipaggi militari, reparti di marina, per un complesso di circa 27.000 uomini e 9000 cavalli: rispettabile contingente, se si riflette che altre divisioni italiche combattevano in Spagna. Dovevano queste truppe inquadrarsi nel IV corpo d'armata, comandato dal Viceré, e nel febbraio del 1812 venivano concentrandosi nella pianura veneta, tra Vicenza, Bassano e Cittadella. Inoltre una divisione doveva riunirsi tra Udine e Padova quale riserva, ed un'altra tra Bologna ed Ancona per agire eventualmente nell'Italia centrale; opportuni presidi dislocati nella valle atesina avrebbero costituito e protetto la linea di comunicazione tra i depositi del regno e le truppe operanti alla Grande Armata. Per effetto, poi dell'alleanza con l'Austria, Napoleone non aveva motivo di preoccupazioni da quest'ultima, ma non poteva disinteressarsi degli Inglesi, che, padroni nel Mediterraneo, continuamente molestavano le coste italiane. Le truppe italiche dovevano muovere alla metà di febbraio, risalendo la valle atesina, e, superato il Brennero, per Ratisbona sul Danubio, raggiungere Glogau.
Minute
previdenze avrebbero assicurato il perfetto funzionamento dei servizi nelle
lunghe marce dalla pianura padana a quella germanica. Il contingente imposto al Regno delle Due Sicilie venne limitato ad una divisione di poco più di 10.000 uomini con circa 2000 cavalli. Di più non era stato richiesto a Murat, per lasciargli mezzi e possibilità di difendere le sue coste continuamente minacciate dalla marina anglo-siciliana. La divisione, comandata dal francese D'Estrées, comprendeva reparti di linea, della guardia e di marina, tutti napoletani, e doveva essere adunata nei dintorni di Napoli ai primi dell'aprile 1812.
Lo stesso
re Gioacchino doveva partecipare, come in effetti partecipò, alla grande
impresa, quale comandante generale della cavalleria imperiale; egli aveva
combattuto in tutte le guerre dell'epoca tranne in quella del 1809 contro
l'Austria, nel quale anno
era
dovuto rimanere nel proprio territorio per ragioni di difesa. Le truppe
napoletane, per l'itinerario Roma-Firenze-Bologna-Mantova,
dovevano
riunirsi a Verona per raggiungere poi, per il corridoio atesino, gli stessi
obiettivi prescritti per le truppe italiche.
Essendo
alcuni reparti dalla tappa di Siena dovuti rientrare nel Regno per ragioni di
sicurezza, il contingente napoletano si riduceva ad 8500 uomini. Particolari
accordi per le tappe ed i rifornimenti erano stati presi tra i ministri della
guerra di Napoli e di Milano, e i rappresentanti del governo a Roma e a Firenze. Infine contingenti piemontesi, liguri, toscani e romani, considerati quali francesi perché tali erano considerate le rispettive regioni, parteciparono alla spedizione di Russia inquadrati nei reggimenti imperiali, ai quali queste regioni fornivano reclute. I numerosi diari, ricordi, scritti vari di ufficiali, che furono attori nella grande impresa, precisano interessanti particolari della vita dei reparti durante il gigantesco movimento dall'Italia alla Polonia, narrando vicende di marcia, episodi diversi presso gli abitanti dei vari paesi, le accoglienze ricevute, talora entusiastiche, talora fredde, sempre però improntate a grande deferenza. Né mancano in quelle pubblicazioni racconti di avventure amorose, indice della spensieratezza di quella gente che se ne andava sicura e serena al cimento per il servizio dell'Imperatore, ma, più che altro, per la gloria dell'Italia.
dall' Italia al teatro della guerra.
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II 18 febbraio 1812, la Guardia Reale, dopo essere stata passata in rivista a
Milano dal
Viceré,
si avviava verso la sua destinazione, per Brescia e Ala; successivamente partiva
la divisione Pino. Per necessità logistiche,
nel lungo
corridoio atesino, le divisioni si dovettero snodare in diversi scaglioni, salvo
a riunirsi poi, superate le
Alpi. |
Il 30 maggio il contingente italiano raggiungeva la Vistola ed il 29 giugno si concentrava sul Niemen a Pilony: la guerra era già cominciata.
Il
contingente napoletano, passato in rivista il 24 aprile da re
Gioacchino nella grande piazza d'armi di Capodichino (Napoli), cominciava il suo
movimento a scaglioni il 2 maggio, ed alla fine di giugno aveva raggiunto
Verona, dove rimaneva a lungo. Proseguiva poi a scaglioni di brigata, sicché il
movimento risultava compiuto con l'arrivo a Danzica delle armi a cavallo alla
fine di agosto, della brigata Rossaroll il 9 settembre, del comando di divisione
il 15 ottobre e della brigata D'Ambrosio il 17. Danzica
era a quel tempo una formidabile fortezza, ed esercitò nell'inverno 1812-13
una importante funzione, trattenendo innanzi ai
propri
baluardi, per
oltre un anno,
un poderoso corpo degli alleati. |
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rivista la divisione napoletana, elogiandola per il suo contegno e per la salda disciplina tenuta nel lungo |
Principe Camillo Borghese |
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viaggio. Indice dell'elevatissimo spirito delle truppe fu la gioia da esse rivelata quando si divulgò la voce che la divisione dovesse muovere, al primo cenno, per operazioni campali. In effetti ciò non avvenne, come in seguito si dirà, tranne che per alcuni reparti; ma comunque nel lungo assedio di Danzica i Napoletani si comportarono magnificamente. Infine, ai primi di agosto, reparti delle Guardie d'Onore di Toscana e di Piemonte, salutati solennemente dalla granduchessa Elisa Baiocchi e dal principe Camillo Borghese, si mettevano in viaggio per raggiungere la Grande Armata, animati dal più alto entusiasmo. Nove veliti piemontesi che, non ancora montati, erano stati esclusa dalla partenza, tanto insistettero, che ottennero, pur di partire, di mantenersi ed equipaggiarsi a proprie spese. Così per la prima volta riuniti nella stessa impresa, vi si accingevano Italiani del settentrione, del centro, del mezzogiorno, mentre altri loro fratelli, componenti due divisioni italiche, nella lontana Spagna sulle coste mediterranee ed atlantiche, ancora una volta rivelavano le forti qualità di nostra stirpe.
Le prime operazioni. - La notte del 1° luglio fu dalle truppe italiche trascorsa nell'attesa; sul mezzogiorno la 1a brigata della divisione Pino cominciò a valicare il Niemen, e nel pomeriggio avanzato tutta la divisione lo aveva passato, tranne l'artiglieria che lo superava il giorno successivo. Nei giorni successivi gli Italiani raggiungevano Novi Troki, cominciando a risentire dello scarso ed insufficiente vettovagliamento. Il 19 di quel mese la divisione si riuniva a Dockchitsi, dove avvenne uno spiacevolissimo incidente, di quelli che lasciano un'orma profonda e separano le anime ed i cuori. Nella località di tappa raggiunta, la 14a divisione francese precedeva di poco quella italiana. Stavano i Francesi saccheggiando un magazzino di biscotto, quando sopraggiunsero gli Italiani a chiedere la propria parte. Inasprendosi la questione, il generale Pino invocava dal Viceré giustizia, al che questi,come sappiamo dal De Laugier, in tono sprezzante e che non gli era abituale, rispondeva:
«Ciò
che
volete non è possibile. Se non siete contenti tornate pure in Italia, che
non mi importa nulla di voi né di lei; sappiate che non temo le
vostre spade più che i vostri stiletti». L'oltraggio colpì crudelmente i
soldati italiani abituati a vedere nel capo uno dei loro: per la prima volta
dovettero persuadersi che egli era straniero. Furono cioè ritrovati numerosi proclami diffusi dai Russi, nei quali proclami gli Italiani erano invitati ad abbandonare il loro posto, affermandosi essere essi vittime della insaziabile ambizione di Napoleone. All'ignobile invito di diserzione, rispondevano degnamente i nostri, che pure erano stati così gravemente offesi dalle inconsulte parole del Viceré, con il seguente manifesto trascritto dal De Laugier:
«Soldati
russi. I soldati italiani, sorpresi che abbiate potuto
pensare
anche un momento che essi fossero suscettibili di cedere
al
vilissimo mezzo della seduzione, mentre si mostrarono sempre imperturbabili
nella via dell'onore, hanno perduto di voi quella stima che nutre, anche nemico,
un bravo soldato per l'altro. Essi non hanno
mai immaginato
che in mezzo alla carriera più dignitosa ed onorevole,
potesse emergere un compenso sì turpe per nascondere e salvare
la propria debolezza. Rivela ed afferma questo singolare documento il sentimento profondo di nazionalità, che nel volgere di sedici anni si era venuto svegliando nella nostra gente. In quanto all'ultimo periodo del documento in questione, esso fa cenno alla fiera risposta data da un granatiere francese all'invito rivolto anche ai Francesi di disertare. Della risposta del granatiere francese scrissero il Segur e lo Chuquet, il quale rileva esserne stato estensore lo stesso Napoleone. A noi invece preme di mettere in evidenza che le ultime parole del documento italiano «da un nostro collega granatiere francese», affermano e rivelano chiaramente, oltre il sentimento della lealtà italiana, quello della dignità, in quanto gli Italiani dimostrarono in ogni circostanza di considerarsi devoti soldati di Napoleone, ma niente affatto dipendenti dei Francesi, bensì alleati. Affermazione questa che più di una volta dette luogo a controversie personali anche gravi con soldati ed ufficiali francesi, e dalle quali gli Italiani uscirono sempre con molto onore.
I reggimenti italiani 85° e 111°.
- L' 8 di luglio, il
maresciallo Davout, che era a Minsk, riceveva dall'
Imperatore il comando superiore di più corpi d'armata, per proteggere la massa
centrale dagli attacchi del corpo russo
Bagration. Il Davout, conosciuta la
dislocazione dell'avversario, decideva di precederlo a Mogilev, che raggiungeva
il 20. Falliti invece gli attacchi a Saltanova, furono i Russi a retrocedere, ed a sua volta Davout lanciava all'inseguimento il 111° di linea, tutto piemontese, che inflisse al nemico formidabili perdite. La condotta dei nostri in quell'azione fu vivamente elogiata dal rigido ed austero maresciallo, non facile a tributare elogi. A sua volta il divisionario Compans esprimeva il suo vivo compiacimento per la condotta del 111°.
IL iv corpo continua L'avanzata. - Il IV corpo, incaricato del collegamento tra la massa centrale ed il grosso raggruppamento del Davout, raggiunse il 24 Beshenkovichi, ove anche l'Imperatore arrivava quel giorno. Alla battaglia di Ostrovno (26 luglio), i Francesi, in avanguardia, avevano appena iniziata l'azione, che il Viceré, percorrendo la fronte della Guardia Reale, la salutava con le parole:«Oggi confido nella mia brava Guardia ». |
Un battaglione del 1° leggero e due della Guardia Reale,
guidati dal colonnello
Peraldi,
si precipitarono all' attacco, costringendo il nemico a incomposta
fuga, mentre era caricato sulla destra dalla cavalleria leggera del generale
Villata. In quella giornata tra i tanti
si segnalarono per la loro brillante condotta i capisquadrone di cavalleria
leggera Lorenzi,
Bucchia, Pizzola,
Giulini, e il
Maffei, capobattaglione dei veliti della Guardia; il colonnello
Millo, i capitani Conti
e
Fortis di artiglieria, il capitano
Allari dello Stato Maggiore del Viceré. |
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Albrecht - Battaglia di Ostrovno |
cariche di granaglie, fugandone la scorta. |
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Lo stesso giorno un distaccamento di 200 cacciatori a cavallo del 2° reggimento, comandato dal colonnello Banco, veniva spedito verso Velij sulla Dvina ad inseguire un altro convoglio nemico, scortato da quattro battaglioni di fanteria e 300 cavalieri. Giunti i nostri al ponte sul fiume predetto, si precipitavano sulla cavalleria russa, che sbarrava il passaggio, travolgendola; ma in seguito i cacciatori si trovavano di fronte alla fanteria nemica formata in quadrato. La situazione era tutt'altro che facile, ma il colonnello Banco, conoscendo la sua gente, non indugiava a lanciarsi sull'avversario, attraverso un ripido pendio riconosciuto dall'aiutante maggiore Viani. Cinque cariche andarono fallite. Fu allora che il colonnello Banco, rivolgendosi ai suoi, gridava: «Torneremo al Viceré senz'aver adempiuto al nostro incarico? A noi. Chi ha cuore italiano ci segua»; ed al sesto tentativo il quadrato nemico veniva sfondato. I Russi spaventati si sbandavano, lasciando nelle mani del vincitore 500 prigionieri e 150 vetture cariche di munizioni e viveri. I nostri ebbero 50 tra morti e feriti; tra quest'ultimi il caposquadrone Buccola, i sottotenenti Giovio e Tomba. La condotta dei cacciatori italiani fu portata all'ordine della Grande Armata; il Banco fu nominato commendatore della Corona Ferrea e numerose altre ricompense furono distribuite ai suoi prodi. Velij fu presidiata dalla brigata di cavalleria Villata e da tre compagnie di fanti della divisione Pino. Nei primi giorni di agosto il colonnello Banco, che capiva bene il russo, era venuto a conoscenza che una colonna nemica si accingeva ad attaccare la posizione di Velij. Il generale Villata prendeva opportune misure, facendo appiattare agli sbocchi dell'abitato fanti e cavalieri. Al presentarsi dei cosacchi all'alba del 7, i nostri posti avanzati, fingendosi sorpresi, ripiegavano. Il nemico li inseguiva fiducioso, ma, entrato in paese, veniva accolto da vivace fucileria e doveva ritirarsi in disordine. Un successivo tentativo falliva, procurandogli una sessantina di perdite. Continuando nella marcia, il Marcheselli andava annunciandosi quale avanguardia di una grossa colonna francese e saputosi inseguito, abilmente cambiando itinerario, ritornava a Suraj, con quasi tutto il bottino fatto. Finalmente reparti della Guardia Reale sventavano con la loro vigilanza ed arditezza un nuovo tentativo di attacco contro Suraj. Lo stesso giorno 7, il generale Pino segnalava al Viceré la condotta del capitano. Col. Antonio Banco
Il 9 di agosto, le truppe italiane si rimettevano in movimento (la divisione Pino rimaneva però a Suraj) e raggiungevano il 14 Rossasna, dove finivano di assolvere al delicato compito di protezione del fianco sinistro della Grande Armata.
Il 15 gli Italiani occupavano Siniaki, località da Napoleone ritenuta di
singolare importanza, per la protezione delle retrovie; serravano poi sotto, per
accorrere al cannone che rombava innanzi a
Smolensk.Nell'attacco, iniziatosi il 17 mattina, si segnalavano i reggimenti di fanteria
85°, 108° e 127°, composti nella massima parte da Italiani dei dipartimenti
uniti alla Francia; di quest'ultimo reggimento in modo speciale scriveva nel suo
rapporto, segnalandone la condotta, il
generale
Gerard.Le truppe italiane, rimaste a guardia delle retrovie, giungevano in Smolensk nel
pomeriggio del 19 ed entravano in città. Da ricordare in quei giorni l'audace
scorreria della brigata di cavalleria leggera Villata, rinforzata dal 2° di
linea, verso Vitebsk e la celere marcia, poi, su Smolensk. DA Smolensk alla Moscova. - Si è così giunti oltre la metà di agosto; nell'Imperatore, per la prima volta, è un senso di perplessità se continuare o no l'avanzata verso oriente, perplessità in breve superata: il suo fatale destino si veniva così compiendo.
Alla estrema sinistra francese, il 22 agosto, il generale
Gouvion Saint-Cyr, che aveva sostituito
Oudinot ferito, ed aveva già battuto
Wittgenstein respingendolo su Beli, lo aveva fatto seguire
dalla divisione Grenier, della quale faceva parte l' 11° reggimento fanteria
leggera, tutto piemontese, comandato dal giovanissimo e valoroso colonnello
Casabianca.
L'11° leggero, trascinato dal suo comandante con magnifico slancio attaccava
l'avversario e lo volgeva in rotta. In quella azione trovava eroica fine il
Casabianca, ufficiale dalle più belle
speranze, che per i suoi superbi
Il 21 agosto, alle due del mattino, la divisione italiana iniziava il movimento
su Inkovo, collegandosi col generale Charpentier a mezzo di un distaccamento di
cavalleria leggera, guidato dall'aiutante di campo
Ragani.
Saputo, poi, della ritirata dell'avversario, ripigliava la marcia verso Nord,
dirigendosi a Suraj e successivamente verso Mosca. |
nazionale: Guardia Reale. - Badalassi; capitano di Stato Maggiore.
Guardia d' Onore. - Bordogni, tenente aiutante maggiore; Brisa,
1° tenente; Quelli, 2° tenente; Prina, maresciallo d'alloggio
capo; Persico, maresciallo d'alloggio capo. Granatieri. - Berettini, capitano; Casali, 1°tenente; Viscardi, 1°tenente; Stella, 1°tenente; Braglia, caporale; Robbiati, granatiere. Marina. - Tempié, capitano; Pavese, 1° capo timoniere. Coscritti della Guardia. - Schedoni, capitano; Agazzini, capitano; Gubernatis, capitano; Bonaccia, sergente; Melgara, caporale. Artiglieria. - Rezia, capitano; Corbetta, capitano; Brìvio, tenente; Acerbi,, maresciallo d'alloggio; Maso, cannoniere. Dragoni Reali. - Dumonti, capitano; Speroni, 1° tenente; Boccanera, 1° tenente; Priola, trombettiere; Ambrosetti, brigadiere; Gaspari, brigadiere; Pavuni, dragone; Periola, trombettiere; Ferretti, trombettiere. Dragoni della Regina. - Brasa, caposquadrone; Ratta, maresciallo di alloggio; Luigini, brigadiere; Boras, dragone. 2° Cacciatori a cavallo. - Banco, colonnello. Genio. - Belcredi, capitano. Le constatazioni fatte dall' Imperatore e il suo vivo compiacimento venivano dal Viceré comunicate a tutte le sue truppe, e così spiritualmente preparati gli Italiani si accingevano ai maggiori e più gravi futuri cimenti: la Grande Armata iniziava la marcia su Mosca, e in questa avanzata il IV corpo costituiva la retroguardia. Il lungo cammino percorso dai nostri fu soprattutto caratterizzato dalle sofferenze dovute allo scarso vitto, alle condizioni climatiche pessime e alla diminuita efficienza dei mezzi per la forte moria di quadrupedi. Nonostante tutto, il morale degli Italiani si manteneva altissimo; e ciò era ampiamente dimostrato nei vari scontri col nemico. Al calar di ogni sera, le retroguardie russe contendevano alle truppe napoleoniche le zone di sosta e, interrompendo strade e ponti, le sottoponevano a faticosi lavori di riattamento. In parecchie di queste circostanze ebbe occasione di emergere il colonnello di artiglieria Millo, instancabile per coraggio ed attività, sempre primo a gettarsi in acqua per riattare un ponte; superba figura di italiano e di soldato, che doveva eroicamente cadere, due anni dopo, nella grande battaglia del Mincio. Il 28 agosto a Rybki, il 1° settembre a Gjatsk, la cavalleria italiana fu ammirevole nel battersi con quella cosacca. Da questa ultima località i nostri erano appena ripartiti il giorno 2, che il Viceré col suo Stato Maggiore, precedendo le truppe per riconoscere il terreno, veniva assalito da alcuni squadroni di cosacchi. Il pronto intervento della piccola scorta di dragoni comandati dal tenente Boccanera liberava il comandante del IV corpo dal serio pericolo nel quale versava. Così pure il 4, la cavalleria leggera italiana, guidata dallo stesso Viceré, vittoriosamente respingeva il nemico. Verso la sera dello stesso giorno gli squadroni del 3° Cacciatori italiano, guidati dai rispettivi comandanti Giuliani e Ghizzola, sorpresi dall'avversario, benché inferiori di numero, brillantemente si disimpegnavano. Il 5 settembre gli Italiani raggiungevano le alture dominanti la Moscova. Nell'avanzata contro la posizione avversaria, alla sinistra dello schieramento francese il 111° (divisione Compans) agiva brillantemente contro la ridotta di Cherwardino. Marciava il reggimento, coi suoi cinque battaglioni, in terreno intensamente battuto dal cannone, fronteggiando reiterate cariche di cavalleria. I suoi volteggiatori entravano per i primi nell'opera nemica e, appena si impadronivano di un pezzo, subito lo rivolgevano contro l'avversario. Benché le tenebre fossero già calate, tuttavia si combatteva al chiarore degli incendi sviluppatisi nella ridotta e la lotta aveva assunto l'aspetto di una vera bolgia infernale. La cavalleria russa aveva più volte caricato il reggimento, che strenuamente si difendeva nei suoi quadrati di battaglione. Erano stati feriti nel conflitto i capitani Torelli e Sicco; successivamente il capitano Rubini era rimasto ucciso. Il reggimento aveva perduto oltre 200 uomini ed i pezzi reggimentali, ma mantenuto strenuamente le proprie posizioni. All'estrema destra, il Viceré, tenendo per tutta la giornata sino a tarda ora saldamente le alture di fronte a Borodino, aveva obbligato l'avversario a ripiegare. Il 6 settembre ambedue i belligeranti erano rimasti tranquilli, attendendo agli ultimi preparativi per la grande battaglia.
LA BATTAGLIA DELLA MOSCOVA O DI BORODINO.
All'alba del 7,dopo una notte di pioggia, lento e rossiccio si
levava
dietro le alture
della Moscova il sole, che Napoleone chiamò «il sole di Austerlitz»,
rievocando così la prima grande vittoria dell'epoca imperiale.
Tosto rullavano i tamburi, le truppe in grande uniforme, secondo
le usanze del tempo, si
riunivano in armi intorno ai rispettivi capitani, per la lettura del proclama
imperiale. Così Napoleone si rivolgeva all'esercito:«Soldats, voilà la bataille que vous avez tant desirée! Désormais la victorie depend de vous: elle nous est nécessaire. Elle nous donnera l'abondance, de bons quartiers d'hiver et un prompt retour dans la patrie! Conduisez-vous comme à Austerlitz, à Friedland, à Vitebsk, à Smolensk, et que la postérité la plus reculée cite avec orgueil votre conduite dans cette journée: que l'on dise de vous: Il était à cette grande bataille sous les murs de Moscou!».
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Nella avanzata della divisione Compans, il 111° fanteria italiano muoveva
impavido sotto il fuoco nemico, con le armi al braccio. In pochi momenti
cadevano mortalmente feriti il capitano Armandi, i
tenenti Morelli, Tuerti e Campana. Concorreva nel pari
all'azione il 61° fanteria italiano e i due reggimenti riuscivano a conquistare
un poderoso ridotto nemico.All'ala
sinistra francese nuovi allori conseguivano gli Italiani del Viceré. Il 28°
Cacciatori Toscani (colonnello Quinto) gareggiava in ardore con gli
squadroni del Murat. Il 111° fanteria progredendo nell'avanzata, incoraggiato
dal grido del generale Longchamp : «Avanti, avanti, bravi Piemontesi, date
nuova gloria al vostro nome», subiva nuove e più gravi perdite, sì che nel
volgere di poco tempo un terzo degli ufficiali era fuori combattimento. Alla
sinistra del principe Eugenio, un improvviso arretramento della fanteria aveva
scoperto le batterie del colonnello
Millo. Questi, voltati prontamente i
pezzi, subito riequilibrava la situazione.Il Principe, accorrendo alle batterie,
si salvava appena da una carica nemica, rifugiandosi nel quadrato dell' 84°
fanteria, quasi tutto italiano, reggimento cheper
la sua eroica condotta, come si è narrato, nella
campagna 1809 aveva acquistato il motto: «Uno contro dieci». Fu allora che il livornese Cosimo Del Fante, capobattaglione nella Guardia Reale, riusciva a far prigioniero il generale nemico Likatcheff, ricevendo dal Viceré la promozione sul campo al grado superiore. Doveva poi cadere nella ritirata, a |
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Antica stampa - L'entrata di Napoleone a Mosca 1812 |
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Krasnoe. |
Faber du Faur - Mosca 1812 - Porta di Kaluzhskaya |
Alle quattro pomeridiane, quasi tutte le posizionierano perdute dai soldati
dello Zar,che tentavano ancora disperati contrattacchi. |
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Cap. Cosimo del Fante |
Ten. de Laugier |
appunto per questo, alla restaurazione borbonica del 1815 il Tupputi fu messo in disparte. |
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Ebbe però, come lo Zucchi, la gioia di vedere, prima di morire, l'Italia unita sotto la gloriosa dinastia Sabauda. Il 10 settembre, gli Italiani continuavano ad avanzare, combattendo contro gli insorti e contro i cosacchi. Alla tappa di Ruza, il Viceré, compilando la relazione sulla battaglia di Borodino, così esprimevasi nei riguardi della divisione Pino, come riporta il De Laugier: «Questa divisione continuamente in marcia in terreni palustri o per mezzo a villaggi deserti e saccheggiati, ha dovuto bivaccare ogni notte, priva di viveri, guardandosi intorno con la massima circospezione, e facendo lunghe e penose corse per raggiungere un nemico, che spariva allorché essa si avvicinava. Pel corso di venti giorni essa non ha fatto se non percorrere i campi già resi sterili e deserti dal passaggio dei due eserciti; finalmente spossata e oppressa dai digiuni, dalle fatiche e dalle malattie, questa divisione, degna insieme col suo capo di migliore sorte, non potè giungere a Borodino che il giorno dopo la battaglia. La sua spossatezza e le gravi perdite sofferte costrinsero il Viceré a lasciarla in riserva. Era questo il maggiore contrassegno di stima che potesse esserle accordato dal Principe nel confonderla con i bravi della Guardia Reale, la maggior parte usciti dalle file di questa divisione ». Del pari da Ruza, il generale Teodoro Lechi, comandante la Guardia italiana, così riferiva al ministro della Guerra Fontanelli circa l'azione della propria grande unità. «Le lunghe e penose marce e i continui bivacchi in paesi dove niun comodo si presenta per la vita e spesse volte l'assoluta mancanza di tempo, sono le imperiose ragioni per cui non mi è stato possibile di inoltrare alla E. V. rapporti sullo stato dei corpi della guardia, così sovente come avrei desiderato. Profitto di un momento di sosta che le truppe hanno fatto quest'oggi, per rendere di ciò informato la E. V. per mio discarico e significarle anche che l'itinerario che il tenente topografico Frappoli sta con tutto l'impegno proseguendo, non può essere spedito fin tanto che l'armata non godrà di un necessario riposo; in quella circostanza il succitato ufficiale riordinerà e metterà al netto l'abbozzato lavoro, il quale appena terminato, mi farò sollecito di accompagnarglielo. «La guardia ha assistito ai combattimenti di Vitebsk e di Smolensk, come pure alla memoranda battaglia del 7 corrente nella quale, esposta al vivo fuoco delle artiglierie nemiche con l'armi al braccio senza potere scaricare un fucile, ha sofferto la perdita di cinquanta uomini tra morti e feriti. S. M. l'Imperatore, dopo averci passato in rivista al campo di Smolensk, ha generosamente accordato ai diversi corpi della guardia quarantasei decorazioni ed ho luogo di sperare che ulteriori ricompense la prelodata Maestà si degnerà conferire ai bravi ufficiali e soldati della sua guardia i quali nel succitato giorno 7 ardevano di desiderio di cagionare al nemico pari danno a quello apportatogli dalle valorose artiglierie a piedi della guardia stessa». |
L'avanzata intanto si faceva sempre più penosa, specie per la penuria di
vettovaglie e l'assenza di qualsiasi risorsa, giacché il nemico,
ritirandosi, bruciava tutto. Mercanti ebrei che seguivano le truppe vendevano
cibi a prezzi fantastici: un uovo era pagato un franco; una libbra di pane,
quindici.
ed i cosacchi del generale Wintzigerode, il 13 nuovamente combattevano
perdendo uomini.
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Ecco come la capitale vinta, la città santa degli Zar, |
Faber du Faur - Mosca 12 sett. 1812 |
appariva agli Italiani secondo quanto scriveva il De Laugier : «...un intatto corpo gigantesco inanimato o, poeticamente parlando, il favoloso asilo del silenzio: una città le cui mura, i di cui edifizi sorti come per incanto attendessero noi soli per abitarli. Quel sepolcrale silenzio produceva in noi anche un effetto maggiore di quello che suoi destarsi nel meditabondo viaggiatore, allorché scende nelle solinghe e scavate ruine di Pompei ed Ercolano». Attraverso l'incendio, appiccato dal nemico prima di ritirarsi, soldati di ogni nazione europea e cittadini russi fuggiti dalle prigioni invadevano gli abitati, derubando, saccheggiando; e spesso tra i bagliori delle fiamme attaccavano sanguinose risse per contendersi il bottino. A rimettere l'ordine, a frenare tanti orrori, la sera del 18 settembre fu chiamato un battaglione granatieri della Guardia Reale italiana, che venne a trovarsi avvolto dalle fiamme, nella impossibilità di retrocedere e di avanzare. Il colonnello Moroni, il capobattaglione Bastida, i capitani Rossi, Ferretti, i tenenti Guidotti, Monfrini, messisi alla testa delle truppe, facendo battere la carica, le trascinavano oltre la barriera di fuoco, conducendole a salvamento. Napoleone intanto, nella solitudine del suo comando, studiava un nuovo progetto per marciare su Pietroburgo, manovrando in guisa da avvicinarsi ai corpi della sua estrema ala sinistra. Ma quando l'Imperatore espose ai propri dipendenti tale idea, trovò tutti decisamente contrari, tranne il Viceré, date le condizioni di esaurimento nel quale le truppe versavano. Furono allora aperte trattative di pace, presto fallite. Per effetto di uno scacco subito dalla cavalleria del generale Sebastiani, i cosacchi ripresero ardire, ricominciando a minacciare intensamente la linea di comunicazione francese. Primo a subirne i danni fu un distaccamento italiano comandato dal maggiore Vives, da Smolensk in marcia su Mosca. Dopo avere degnamente fronteggiato attacchi nemici, nuovamente aggredito la notte del 23 settembre, era venuto a trovarsi in grave crisi, perché i nemici si erano gettati sui cassoni di artiglieria. Fu allora che il caporale Franchini, rinnovando l'epico gesto di Pietro Micca, dava fuoco alle polveri, distruggendo i cosacchi e permettendo al distaccamento di continuare indisturbato il proprio viaggio. Un altro nucleo del 28° Cacciatori a cavallo, dalla lontana Francia diretto al reggimento mobilitato, saputo che a tre giornate da Mosca un grosso convoglio di viveri era in pericolo, accelerando la marcia lo raggiungeva. I duecento cacciatori toscani, arditamente caricando i cosacchi, salvavano il convoglio. In quella azione si distinguevano i tenenti Darvillara, Godi, Pastoris; cadevano da valorosi i cacciatori Soldaini, Bargellini, Tesi. Il giorno successivo però l'avanguardia del tenente Pecori urtava in una massa assai superiore di cavalleria nemica e sarebbe stata travolta, ove non fosse accorso da Mosca un grosso nucleo di truppe comandato dal generale Saint-Sulpice. Il distaccamento del 28° fu in seguito rinforzato dal 3° Cacciatori italiano, che il 29 settembre, incontrato un drappello di cannonieri westfaliani sfuggiti ad un'imboscata, ricercava il nemico, lo attaccava e lo batteva, ricuperando i cannoni persi. Così attraverso continue fazioni, allarmi, disagi, passavano i giorni; la stagione veniva facendosi precocemente cattiva; alla metà di ottobre, alla prima neve, Napoleone decideva la ritirata; era la prima volta che il grande condottiero doveva ripiegare senza aver potuto imporre all'avversario la pace del trionfatore.
I corpi italiani all'Inizio della ritirata. — II 18 ottobre Murat, che era fuori Mosca nei dintorni di Vinkovo, veniva attaccato. Seguito dagli ufficiali italiani Borelli, Rossetti, Pignatelli, Cariati, si precipitava, alla testa di due reggimenti carabinieri, contro una colonna russa che minacciava la sua sinistra, rimanendo egli stesso ferito. I Polacchi intanto contenevano l'attacco frontalmente. Dimostrava quell'episodio la necessità per i Francesi di decidere, se non volevano rimanere tagliati fuori dalle loro basi. L'Imperatore emanava allora le disposizioni di partenza ed il movimento cominciava il successivo 19, nella direzione di Kaluga. All'avanguardia erano gli italiani, seguiva il grosso della Grande Armata, in retroguardia era Murat. Il 20 l'Imperatore, che aveva lasciato in Mosca il corpo Mortier, decideva che anche questo sgombrasse, dopo aver distrutto il Cremlino. Gli Italiani intanto proseguivano nella marcia, dirigendosi sulla città di Maloyaroslavets : precedeva la cavalleria, seguivano le divisioni Delzons, Broussier, Pino, Lechi.
MALOYAROSLAVETS: BATTAGLIA DI ITALIANI. - La sera del 23, il generale Delzons, con due battaglioni, aveva occupato in parte l'abitato di Maloyaroslavets; all'alba successiva era stato improvvisamente attaccato dai Russi del generale Doktoroff subendo gravi danni. Informato, il Viceré, mentre con la cavalleria italiana era in marcia, accelerava l'andatura e spediva subito indietro il proprio aiutante La Bédoyère, a chiamare rinforzi. Egli, come racconta il De Laugier, incontrate le divisioni italiane, così le apostrofava: «Correte, bravi Italiani, il Viceré vi aspetta impazientemente; i vostri prodi compagni son compromessi se non giungete a tempo, e voi perdete l'opportunità d'illustrare il vostro valore». |
A tale appello rispondevano i nostri con grida di gioia, e a passo di carica si
lanciavano alla gloria ed al sacrificio. Giunti in prossimità della città, le batterie della Guardia Reale
italiana prendevano posizione nella pianura e con tiri bene aggiustati
riducevano al silenzio quelle avversarie, mentre la divisione Pino, guidata dal
proprio capo, si arrampicava sulle alture tenute dal nemico. |
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Peter von Hess - Battaglia di Maloyaroslavets |
cadevano, assieme a numerosi altri ufficiali. |
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Lo stesso Pino, già ferito ad una mano, di nuovo gravemente offeso ad una gamba, doveva cedere il comando al valorosissimo colonnello Galimberti. Intanto l'Imperatore inviava al Viceré l'ordine di mantenersi ad ogni costo in Maloyaroslavets, che i rinforzi erano in marcia. Mentre Eugenio di persona assisteva in alto alla sistemazione delle batterie della guardia, visto un artigliere impallidire, rudemente lo investiva, dicendogli: «Tu hai paura e sei della mia guardia»... Rispondeva l'interpellato di non aver paura e gli mostrava la gamba destra sfracellata dalla mitraglia. Il Viceré commosso gli offriva in premio la propria borsa, che il fiero italiano sdegnosamente respingeva. Intanto, ad equilibrare le sorti della 2a brigata, accorrevano i corpi della guardia. Guidava i granatieri il colonnello Crovi; i cacciatori erano condotti dal Peraldi, che così a voce alta li incitava: «Non tirate, cacciatori: la baionetta è l'arma della guardia; alla baionetta, bravi Italiani». Questi, elettrizzati dalle vibranti parole del capo, si precipitavano sul nemico che cedeva; ma superato l'abitato, cadevano sotto i tiri di altre artiglierie, che ne mietevano i ranghi. Mentre la zuffa procedeva disperata e gli Italiani ne sopportavano tutto il peso, cominciavano ad arrivare rinforzi ad ambo i belligeranti. Il colonnello Peraldi, uomo di singolare energia, riuniti gli avanzi del proprio reggimento e della 2a brigata, formatane una massa compatta, di nuovo la guidava al nemico; e ai suoi magnifici soldati veniva gridando: «Rammentatevi che è questa la battaglia degli Italiani e che bisogna o vincere o morire!...». Respinto il nemico, chiedeva il Peraldi nuove truppe al Viceré, che per altro questi non concedeva. |
Fu durante questo periodo della battaglia che cadeva ucciso il capobattaglione Maffei, mentre col suo contegno veramente ammirabile teneva i propri uomini impavidi e compatti sotto una tempesta di fuoco. Una carica di cosacchi, comandata dal giovane figlio dell'etmano Platoff, diretta sui carreggi, stava per riuscire, quando veniva stroncata da un distaccamento di dragoni guidato dal capitano Colleoni, con i tenenti Brambilla, Cavalli, Boccanera. Un ardito dragone italiano con una sciabolata spaccava la testa al giovane Platoff e, a sua volta colpito, cadeva gridando: «Muoio contento».
Mentre la divisione Compans operava a sinistra dello schieramento italiano, il
111° di essa, composto tutto di Piemontesi, andava dislocandosi ai piedi delle
alture, costituendo un solido argine e perdendo numerosi dei suoi, fra i quali
il capitano Vittonato. A tarda sera ancora si combatteva. Tra i feriti, i generali Pino e Gifflenga; i colonnelli Varese, Casella, Omodeo; i capibattaglione Boretti, Zampa, Bolognini, Maffei; gli ufficiali Fontana, Croci, Contri, Benago, Crotti, Prampolini, Contini, Gianorini, Casanova, Zannoni, Vittonato.
Trovarono morte gloriosa il caposquadrone
Giacomo Pino, il capobattaglione
Negrisoli, i gemelli anconitani
Radoani e molti altri. |
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Col. Francesco Boretti |
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Cap. Leopoldo Nobili |
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Ceneri, Sabaini, Jacoli, Luraschi, Zanellato, Bossi, Lampugnani, ed i sottufficiali e soldati Elli, Capitani e Morani. La magnifica condotta degli Italiani fu riconosciuta in seguito anche dagli scrittori nemici, quali il colonnello Buturlin e il generale Benningsen.
Per i superstiti, passati il giorno successivo in rivista dall'Imperatore,
questi ebbe parole di viva lode. |
«Mi
affretto a comunicarvi che il 24 corrente il IV corpo, che io comando, ha
sostenuto brillante combattimento contro il nemico.
I capi di Stato Maggiore vi faranno conoscere i particolari del fatto d'armi
e delle perdite che abbiamo avuto.
La Guardia Reale ha avuto occasione di distinguersi. |
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Il 17 dicembre da Gumbinnen, il francese Méjan scriveva che la divisione Pino e la Guardia Reale |
Andrea Appiani - Il Gen. Fontanelli |
Italiana si erano distinte per coraggio ed audacia e che la loro condotta era tanto più ammirevole, in quanto i nemici erano assai più del doppio delle truppe del Viceré. Infine il generale inglese Roberto Wilson, in Mantova nel 1814, alla presenza di ufficiali italiani ed austriaci così si esprimeva : «L'armata italiana a Maloyaroslavets mi sorprese per il suo eroismo:sedicimila di questi bravi ne batterono ottantamila dell'esercito di Kutusoff». La battaglia dunque del 24 ottobre 1812 fu battaglia degli Italiani, come ebbe a dire il valoroso colonnello Peraldi; fu quindi pura gloria nazionale e valse a salvare la Grande Armata.
Verso la Beresina. - Dopo l'azione del 24, Napoleone si proponeva il dilemma se affrontare o no altra battaglia; sconsigliato dal Re di Napoli e da altri suoi luogotenenti, che insistevano per la ritirata sul lontano Niemen, prima di decidere recavasi a visitare il campo di battaglia. Era scortato da tre plotoni di cavalleria (uno dei quali del 280 Dragoni toscani): improvvisamente attaccato da una forte massa di cosacchi, il pronto intervento della scorta, specie dei dragoni toscani, valeva a salvarlo. Il campo di battaglia di Maloyaroslavets appariva al grande condottiero in tutto il suo orrore, orrore del quale egli era buon conoscitore. Tra le rovine fumanti, i cannoni e carriaggi fracassati, le lunghe teorie di morti, v'erano numerosissimi feriti in attesa di aiuto, che pur trovavano la forza per acclamare il loro Capo. Questi nella visione di tanta rovina ancor meglio apprezzava lo sforzo compiuto dai reggimenti italiani e così si esprimeva rivolgendosi al Viceré suo figliastro: «L'onore di questa giornata appartiene totalmente a voi ed ai vostri bravi Italiani, i quali hanno deciso una così brillante vittoria». Nella cura e nell'assistenza di circa 2000 feriti si segnalava il chirurgo modenese Paolo Assalini, già reduce dalla spedizione di Egitto, e la cui opera fu altamente apprezzata dal capo del servizio sanitario della Grande Armata, barone Larrey. Il 26 dopo una nuova ricognizione, l' Imperatore decideva per la immediata ritirata su Borovsk. In testa marciava la Guardia Imperiale, seguita dai corpi di Murat, del Ney e del Viceré; ultimo, in retroguardia, quello di Davout. La grande tragedia incominciava. Il 30 ottobre, fermatisi i nostri sul campo di battaglia della Moscova, rievocavano le vicende gloriose, le perdite, le sofferenze, mai immaginando neppur lontanamente quello che il cattivo destino preparava ad essi. Le notizie che si venivano divulgando non erano certo acconcie a rasserenare gli spiriti; i corpi d'armata laterali, operanti più lontano, avevano anch'essi subito gravi perdite ed erano alle prese col nemico, oppure tenevano verso di esso contegno equivoco, come, all'estrema sinistra, si regolava il contingente alleato austriaco e più tardi il prussiano. Ai grigi albori del 1° novembre, i cosacchi assalivano impetuosamente i carreggi del IV corpo, gettando l'allarme in quelle turbe incomposte di civili, di donne, di feriti, che con i carriaggi appunto marciavano. Il generale Galimberti, comandante interinale della divisione italiana (il Pino essendo sempre sofferente per le sue ferite), avviava contro il nemico il 2° leggero formato in quadrato: i cosacchi non aspettavano l'urto e si davano a disordinata fuga. Ogni giorno intanto si allentavano sempre più i vincoli disciplinari, aumentavano le perdite e il rigore della stagione diminuiva la efficienza dei reggimenti. Il 3 novembre, nel movimento su Vyazma, concorrevano i nostri a disimpegnare la retroguardia: sottratti alla vista del nemico da altissime siepi, si slanciavano sulle batterie nemiche e stavano per prenderle, quando queste al galoppo si allontanavano. È in quell'azione che, guidando il proprio reggimento alla carica, trovava morte gloriosa Antonio Banco, comandante del 2° Cacciatori a cavallo. Riguardo al combattimento di Vyazma così esprimevasi nella sua storia il colonnello russo Buturlin: «Le truppe italiane resistevano con coraggio, ma quelle di Davout, già demoralizzate dalle fatiche e dalle privazioni di ogni specie, non conservavano più il bel contegno che le aveva distinte in tutto il corso della campagna».
Nel combattimento di Vyazma ancora una volta si distingueva il valorosissimo
111° di linea, che fra gli altri perdeva i capitani
Basterotti e Balegno, i tenenti Moizo e La Rocca.
Rimanevano feriti il maggiore Montiglio, i sottotenenti Billoni,
Follis, Giuliani,
Cardone, Bassano e Vajra. Il 4 novembre, alla ripresa del movimento, il IV corpo si era disposto in formazione quadrata, come già si era praticato in Egitto. Ai lati le divisioni 13a e 14a in retroguardia la 15a (Pino), in avanguardia la Guardia Reale. Il 6 novembre, l'Imperatore, sapendo quale profondo assegnamento potesse fare sugli Italiani, commetteva al Viceré l’ incarico di stabilire al più presto il collegamento con Smolensk. Peraltro, tre giorni dopo il IV corpo era ancora sulle rive del Vop, a causa anche della perdita di oltre 400 cavalli. Il fiume gonfio di acque costituiva serio ostacolo; zappatori del genio e marinai della guardia italiana, penosamente immersi nell'acqua gelida sino alla cintola, lavoravano alla costruzione di un ponte. Sicché, nella necessità di dover passare, il Pino, il Lechi, il Del Fante, entrati con le truppe nell'acqua, raggiungevano la opposta riva e subito si accingevano a salvare i pericolanti. Difficilissimo poi il transito delle artiglierie, perché la rampa di raccordo al ponte era coperta da un compatto strato di ghiaccio; sicché, nonostante l'attività del colonnello Millo, coadiuvato dal capitano Ferrari, il ponte cedeva sotto il peso dei pezzi, tanto che quelli non potuti traghettare venivano inchiodati ed abbandonati e le polveri disperse nel fiume. La sera del 10 novembre, avvicinandosi le truppe italiane a Dukhovshchina, gli sbandati civili si precipitavano avanti in cerca di viveri; ricevuti a fucilate dai Russi, disordinatamente ripiegavano sul fronte della Guardia Reale, che a sciabolate li obbligava a mettersi da parte per poter aprire il fuoco. Fu durante quella sosta che, la successiva sera dell’11, nuclei cosacchi sorprendevano i veliti ed un ufficiale russo prometteva salva la vita al caporale Guerrini, se egli avesse taciuto. All'ignobile proposta, rispondeva egli gridando : «Veliti, fuoco! o i compagni sono presi» ed a caro prezzo poi pagava il fiero compimento del proprio dovere. Numerosissimi negli Italiani gli atti di sacrificio, di abnegazione, di altruismo in quell' ambiente terribilmente tragico. |
Fra i tanti, ricordiamo un granatiere della guardia, che, caduto sfinito, stoicamente attendeva la morte. Intorno a lui i compagni tentavano prodigargli aiuti che egli rifiutava, come inutili; anzi al più vicino rimetteva la croce della Corona Ferrea guadagnata ad Austerlitz, perché la consegnasse al proprio capitano e quindi spirava. Atti che apparivano normali a chi li compiva e che erano invece opere degne di uomini superiori, di titani Nella lontanissima Milano, il generale Fontanelli, ministro della Guerra, ricevuti i rapporti sulla magnifica condotta dei marinai della guardia e degli zappatori del genio, a sua volta li trasmetteva al comando della Marina in Venezia ed al comando del Genio in Mantova per rispettiva soddisfazione e per insegnamento a coloro che ancora si trovavano in patria. Il 14 novembre mattina, i corpi italiani del Viceré entravano in Smolensk, dove tra orribili spasimi trovava fine il valorosissimo colonnello Gaetano Antonio Battaglia, comandante delle Guardie d'Onore milanesi. In quella città furono fatalmente abbandonati numerosi feriti e malati per la mancanza assoluta dei mezzi di trasporto necessari. |
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Gen. Achille Fontanelli |
Divenendo le unità ogni giorno più deboli, il Viceré riuniva in un unico blocco un
migliaio di uomini: ufficiali superiori e capitani
col compito di semplici soldati. A notte scura, cessata la lotta, non era però cessato il pericolo: occorreva, giocando d'astuzia, superare le linee nemiche. Così il Viceré si rivolgeva alla poca sua gente: «Non vi è altro scampo che farsi strada con la punta delle baionette. Silenzio, ordine, seguite l'esempio della guardia che io stesso conduco». La colonna, preceduta da un polacco che perfettamente conosceva il russo, da un nucleo di veliti (tenente De Laugier) e da tutti i tamburini della guardia (sergente Cortaldi), si metteva in moto, riuscendo ad ingannare l'avversario e ad uscire dalla terribile situazione. All'alba del 17, Napoleone, a piedi, cogli avanzi della Guardia Imperiale, procedeva contro il nemico che da tutte le parti minacciava. |
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Col. Gaetano Antonio Battaglia |
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Con le truppe del Davout si batteva eroicamente, come sempre, il 111° di fanteria, perdendo il capobattaglione Giusiana, il capitano Gazzalone, i tenenti Giachino e Fassi. Il 18 novembre, intorno a Krasnoe combatteva disperatamente la retroguardia del maresciallo Ney, da Napoleone ritenuta perduta, e con essa si battevano gli avanzi del 28° Cacciatori Toscani. Nella notte gli ultimi prodi della Grande Armata valicavano il Dnieper.
Il passaggio della Beresina. - Alla metà di novembre Napoleone riuniva la pochissima cavalleria rimastagli in un unico squadrone, su quattro compagnie di 150 uomini ciascuna, nella massima parte composte di ufficiali. Tra essi un rappresentante della illustre nostra casa regnante, Giuseppe Maria di Savoia, conte di Villafranca, cugino del futuro re Carlo Alberto e caposquadrone degli usseri. Quella formazione però, nella quale ben meritarono il colonnello Quinto, il caposquadrone Niccolini, il capitano Olivieri, i tenenti Darvillara, Marzighi, Godi, Pastoris, Vecori, Pieri, ebbe vita breve, perché in una notte più gelida delle altre, nella quale il termometro era sceso a trenta gradi sotto zero, tutti i cavalli morirono. Il 20 novembre Napoleone con la sua guardia abbandonava Orsha, ove rimanevano invece gli Italiani con i superstiti dei corpi Mortier e Davout per attendere la retroguardia del maresciallo Ney. Gli avanzi di quella che era stata la gloriosa Grande Armata erano continuamente molestati dai Russi, che con largo raggio tendevano alla Beresina per inibirne il valico. Zappatori e marinai, per restaurare i ponti sul fiume, precedevano i nuclei francesi, relativamente rassicurati dai successi riportati dal corpo Oudinot. Tra quei lavoratori, i pontieri italiani del capobattaglione Marieni, che, dopo essersi distinto alla Moscova ed essere sfuggito agli stenti ed alle miserie della ritirata, doveva morire il 23 febbraio 1813, per infezione tifica, a Kòpnik. Il 26 novembre, il Viceré, per ordine dell'Imperatore, accelerava la marcia su Borisov e superava la Beresina il 27 con la guardia ridotta a 500 uomini e seguito dalle altre divisioni del IV corpo, tra le quali la 15a del generale Pino. Il 28 i Russi, vedendo che il nemico stava per sfuggire, attaccavano in forza i ponti, tenendoli sotto il tiro delle proprie artiglierie. Le torme dei fuggiaschi e degli sbandati, per salvarsi, si gettavano nella gelida corrente del fiume, ugualmente incontrando la morte. Il 29 infine, passati gli ultimi nuclei del corpo di Victor, i ponti erano bruciati; ma migliaia di persone, rimaste sulla riva nemica, venivano catturate assieme a cannoni, vetture, carriaggi e casse militari. Il disastro era al colmo.
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Valicata la Beresina, ogni ordinanza militare si può dire fosse soppressa. I cosacchi continuavano quindi a mietere ampia preda su un avversario che solo occasionalmente reagiva, come poteva. Nonostante tutto, i nostri avevano magnifiche reazioni, che non sempre si verifica vano negli altri corpi. Al bivacco di Pleshchennitsi una sera si erano ricoverati, in una casa, il maresciallo Oudinot, il generale Pino, feriti, ed altri ufficiali.
Pochi carabinieri del 3° leggero facevano la guardia. |
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Faber du Faur - Passaggio del Niemen |
Il 2 dicembre i nostri raggiungevano e sostavano a |
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Molodeczno, dove si
riordinavano alla meglio. Degni di singolare ammirazione i superstiti del
valoroso reggimento Dragoni della Regina, che vivevano sempre riuniti attorno al
proprio capo, il colonnello
Narboni. A Vilna, intanto, il Duca di Bassano aveva concentrato truppe giunte dalla Prussia e dalle immediate retrovie: tra esse la cavalleria ed i veliti della divisione napoletana, che come si è detto erano di guarnigione a Danzica. Un grosso contingente di queste truppe, tra le quali i Napoletani, al comando del generale Gratien raggiungevano la sera del 5 dicembre Oszmiana. Il Gratien, di tutto ignaro, non aveva preso alcun dispositivo di sicurezza; solo sulla strada di Minsk era una compagnia del 113° Toscani, comandata dal capitano Cervini. Al cadere della notte, una colonna di cavalleria russa giungeva ad Oszmiana, ritenendola sgombra; reagivano invece i Toscani, accorrevano altri reparti del 113° e di Napoletani: così veniva evitato per merito dei nostri un altro disastro. Quella stessa sera, dopo questo episodio, giungeva in Oszmiana Napoleone, il quale, ragguagliato degli eventi, si faceva scortare dalla cavalleria napoletana comandata dal generale Florestano Pepe e da un battaglione toscano.
I reggimenti di cavalleria napoletani erano rispettivamente comandati dai colonnelli Campana e Caracciolo di Roccaromana, che, fieri dell'alto onore ad essi incombente, in alta uniforme, senza mantello, l'intera notte galoppavano intorno alla slitta imperiale. Al mattino, giungendo a Vilna, quella magnifica cavalleria era quasi tutta distrutta; laddove invece erano nella massima parte salvi i soldati del battaglione toscano del maggiore Bongini, che la marcia avevano superato, alternando il passo con la corsa. In quella tragica notte, essendo morto di freddo il cocchiere della slitta imperiale, le sue funzioni erano state assunte da Ottavio De Piccolellis, giovanissimo capitano del 2° Cacciatori a cavallo napoletani. Nel seguito di quel periglioso viaggio toccava poi ad un drappello della Guardia d'Onore italiana di scortare l'Imperatore sino a Breslavia. La notizia dell'allontanamento del capo supremo fu accolta con un senso di angoscia dalla Grande Armata, tanto più perché il nuovo comandante Murat si dimostrò subito impari al grave compito. Il malessere morale, diffusosi tra le truppe, si rivelava anche in imprecazioni contro l'Imperatore, nella stessa Guardia Reale. In quell'ora così grave, in quel momento così tragico, un'affermazione imperiosa di disciplina sarebbe stata impossibile; sicché il prode generale Lechi, che marciava a piedi in mezzo ai suoi, veniva svolgendo opera tranquilla e suadente, che ebbe il felice esito di riportare la calma in quelle povere anime inasprite da inenarrabili miserie. Nonostante tutto, la generosità innata della nostra gente non venne mai meno: il generale Pino e suo nipote, il capitano Fontana, non vennero mai abbandonati dai carabinieri del 3° leggero; il colonnello Moroni, il comandante Bastida, gravemente malati, e il comandante Maffei mortalmente ferito, vennero sempre trasportati e assistititi dai veliti della guardia. Giunte le truppe a Vilna, mentre vagavano per la città saccheggiando i magazzini di viveri, nuovamente rombava il cannone, indice di attacco nemico. Lo fronteggiava il maresciallo Ney con pochi granatieri francesi e con soldati di tutta la penisola, appartenenti ai reggimenti 111°, 135°, 152°, 156°. In quella circostanza si segnalavano il capitano Lapi ed il capobattaglione Casanova, che aveva raccolto circa 300 Toscani; il tenente dei veliti De Laugier riusciva a togliere ai cosacchi il cavallo dello stesso Viceré. Così la fiumana dei fuggiaschi poteva riprendere la sua disperata fuga verso occidente, mentre il Ney con quella poca gente teneva testa al nemico.
Tra gli Italiani comandanti di unità francesi, sono da ricordare Girolamo Buonaparte, re di Vestfalia, che tenne per qualche tempo il comando dell'ala destra della Grande Armata (più corpi d'armata), comando che lasciò per insofferenza disciplinare; i divisionari Cattaneo, Curial, d'Ornano, Orazio Sebastiani, ed il fratello colonnello Giovanni Sebastiani, sempre all'altezza del loro brillante passato. Dei tanti nostri, distribuiti negli stati maggiori e nei reggimenti della Grande Armata, i capibattaglione Berettini, Berizzi, Boretti, Bonfanti, Negrisoli, caduto a Maloyaroslavets, Braglia ufficiale di cavalleria, morto eroiamente ad Anatolico nel 1828, combattendo per la indipendenza della Grecia, il capitano d'artiglieria Bidasio, morto a Borisov, il Ferrero de Gubernatis, mutilato della gamba destra ad Ostrovno, gli aiutanti del Viceré Gifflenga e Nobili, e Pignatelli aiutante di Murat. Ed ancora il tenente Guidotti, morto generale di brigata a Cornuda nel 1848, ed il giovanissimo capitano di artiglieria Ramorino, decorato della Legion d'Onore, che nel brillantissimo inizio della carriera, e poi nei successi di Polonia del 1831, non poteva prevedere la infelicissima sua fine nel 1849, dopo la sconfitta di Novara, innanzi ad un plotone di esecuzione. Negli obiettivi assegnati da re Murat ai vari corpi quali centri di raccolta e di riordinamento, quello di Marienwerder toccò ai corpi italiani. Ivi l'esito dei controlli fu il seguente: dei 27.400 che avevano passato il Niemen nella precedente estate, ne ritornavano solamente un migliaio. Gli altri erano caduti in combattimento, o morti di malattia o di freddo nella ritirata, o prigionieri del nemico. Dei 9000 cavalli partiti, nessuno era ritornato; inoltre perdute tutte le artiglierie, tutti i cassoni di munizioni, tutti i carriaggi da trasporto. Quel migliaio di superstiti, non più pressato dal nemico che esaurito dallo sforzo si era arrestato alla frontiera prussiana, continuò a ripiegare. Parte rimpatriò, parte fu trasferita nelle nuove formazioni, che dall' Italia erano già in marcia per l'Europa settentrionale. In queste formazioni combattè, come vedremo in seguito, durante tutto l'anno 1813. Gli Italiani che, in corpi nazionali od inquadrati in quelli francesi, "avevano già da quindici anni lealmente combattuto per la Francia, al termine della campagna del 1812 avevano acquistato presso la Francia stessa nuovi titoli di alta considerazione e benemerenza, in circostanze terribilmente tragiche e in modo superiore ad ogni elogio.
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