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CAV. DOTT. LUIGI MARIENI

   

 

   

"MEDICO PRIMARIO EMERITO DELLO SPEDALE MAGGIORE DI MILANO" - RICERCATORE

 

Note di medici italiani e francesi sulla pellagra in Valle Brembana

di metà Ottocento

di Anna Fusco

 

L'ottocento fu per la Valle Brembana un secolo di gravi carestie e di terribili epidemie che, oltre ad un alto tasso di mortalità, portò ad un’ondata migratoria senza eguali.
Numerosi furono inizialmente i casi di tifo petecchiale, ai quali si aggiunsero ben presto malattie infettive come il colera, il vaiolo, il morbillo, la varicella, la scarlattina e la difterite, detta anche
mal del grop. Vi era poi il gozzo, particolare ingrossamento della ghiandola tiroidea, a cui spesso si associava l’idiozia e il cretinismo.
Queste malattie, a parte il gozzo che era tipico dell’alta montagna, colpivano tuttavia anche le città e le aree di pianura, così come quella che si rivelò poi una vera e propria piaga e che fu oggetto di studi a livello internazionale: la pellagra.

Il
mal della rosa, così chiamata per le macchie rossastre che comparivano su tutto il corpo, si diffuse nell’Italia centro-settentrionale a partire dalla seconda metà del Settecento e la causa determinante fu l’alimentazione quasi esclusivamente basata sulla polenta.
Inizialmente non fu riconosciuta, essendo confusa con lo scorbuto e curata presso l’Ospedale Maggiore con un antiscorbutico, il succo di un’erba detta coclearia, la
cardamine asarifolia, assai frequente nei luoghi umidi delle nostre valli.
Poi, nel corso del XIX secolo, prevalse la tesi per cui si attribuiva la responsabilità dell’insorgenza del morbo al mais guasto, come sostennero Lodovico Balardini prima e Cesare Lombroso poi.
Dovuta ad un peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni rurali conseguente a quello dei patti agrari, che costrinsero i contadini e i poveri a nutrirsi sempre meno di pane bianco e sempre più con polenta di mais, la pellagra fu anche definita la malattia delle tre D, in base appunto ai suoi tre stadi di evoluzione.

La sintomatologia della pellagra presentava, infatti, una prima fase di dermatite ed eritema (screpolatura delle mani e squamatura della pelle esposta al sole), seguita da un secondo stadio caratterizzato da vertigini, debolezza fisica e disturbi gastrointestinali, il cui sintomo prevalente era la diarrea.
Senza alcun intervento volto a modificare la dieta alimentare,
(nota1) la malattia evolveva infine in demenza e veniva curata con il ricovero manicomiale, anche se nella maggior parte dei casi portava la morte.
Talmente elevato fu il numero di pazzi pellagrosi che intorno al 1830 si rese necessario adattare il convento di Astino, ceduto sul finire del ‘700 dal comune di Bergamo all’Ospedale Maggiore, a manicomio (e lo resterà fino al 1892).

All’epoca, come per molte altre gravi malattie, i medici si divisero riguardo all’individuazione delle cause della pellagra.
Il medico e fisiologo Filippo Lussana (1820-1897) si trovò impegnato “sul campo” ad affrontare la terribile epidemia e ne divenne il principale studioso. Da semplice medico condotto, si applicò inizialmente allo studio del morbo a San Pellegrino Terme, dove operò dal 1844 al 1848; studi che proseguì poi nelle altre valli bergamasche, a Mologno, frazione di Casazza, in Val Cavallina, e a Gandino, in Valle Seriana.
I risultati delle sue ricerche e delle sue osservazioni furono riportati in varie monografie, la prima delle quali fu pubblicata nel 1854 con
il titolo Su la pellagra. Studj pratici del dottore Filippo Lussana.
 

Filippo Lussana

Quando Cesare Lombroso, che all’epoca era un monumento rispetto a Lussana, sostenne che la pellagra era conseguenza di un’intossicazione provocata da un microrganismo nocivo contenuto nel granoturco, egli non ebbe timori a contraddire il celebre psichiatra e a dimostrargli che secondo la sua indagine le ragioni dell’insorgenza della grave malattia risiedevano nel tipo di alimentazione, ovvero nella dieta estremamente povera o priva di nutrimenti “plastici” in grado di garantire un apporto sostanzioso ad individui costretti a svolgere lavori faticosi.
Lo scontro tra i due studiosi fu molto duro e aspro, ma furono molti i medici e gli scienziati che si schierarono a favore di Filippo Lussana, il quale faceva della sua esperienza di medico condotto la materia prima dei suoi studi.

Sulla scia delle osservazioni redatte dal celebre studioso bergamasco, furono condotte negli stessi anni ulteriori indagini, sia da parte di medici italiani che stranieri, in merito al morbo della pellagra.
Riguardo alla situazione in Valle Brembana, intorno alla metà del XIX secolo il numero dei malati di pellagra era costantemente monitorato dai medici condotti dei vari distretti sanitari, i quali erano invitati, ogni fine anno, a redigere un rendiconto clinico da inoltrare al Consiglio provinciale sanitario.                                                                                 
A livello, poi, nazionale e internazionale, vi erano dei rapporti medico-scientifici che prendevano in considerazione diverse
 aree; per quanto riguarda la pellagra, la Valle Brembana risultò essere un campo d’indagine peculiare e dovizioso.
Così, per esempio, veniva riportato negli
Annali Universali di Medicina redatti e pubblicati nell’ultimo trimestre del 1859 dal Dottore Romolo Griffini, direttore del Brefotrofio di Milano
(nota 2):

“Volgasi il piede sull’opposto versante meridionale delle medesime Alpi Retiche, e si entri nella parte superiore delle Valli bergamasche del Brembo e del Serio, le cui alte montagne si compongono di graniti feldspatici, ardesie e gneis. E quivi si resta sorpresi di un disinganno inaspettato; più non vi si riscontra alcuno di quei cretini sì frequenti nella Valtellina ed Aosta; estremamente rari vi si osservano anche i gozzi...
Ma quanto alla pellagra, bisogna notar bene l’epoca del viaggio che vi si intraprende.
Chi avesse visitato l’alta Valle Brembana ai tempi in cui vi dimorava ancora nel suo nativo paese l’esimio dott. Marieni, il quale poi si utilmente studiava la pellagra negli spedali di Milano
(nota 3), ne sarebbe partito con quella medesima convinzione, colla quale il benemerito sunnominato medico assicurava il dott. Nardi che nessuno vi soffriva di pellagra.
Mio suocero, dot
t. Testa, il quale per molti anni esercitava la medicina intorno a quell’epoca medesima nella Valle Brembana superiore, altrettanto mi accertava non esistervi la pellagra.

Ma coi tempi si cambiarono le cose, quantunque non siensi cambiati i
terreni.
Nel 1829 l’egregio amico mio dott. Elia vedeva già sui paesi alpestri della Valle Serina (in Valle Brembana) più matti per pellagra che si veda oggi ubriachi per vino.

In fine del 1854, il mio condiscepolo dott. Regazzoni, che negli anni anteriori aveva esercitato medicina nell’alta Valle Brembana, mi assicurava e mi scriveva di avervi veduto molte famiglie pellagrose.
Io stesso, che per tre anni continui dimorai nella Valle Brembana e ne visitai molti luoghi e ne conversai con diversi medici condotti, vi conobbi non pochi pellagrosi ed alcuni ve n’ebbi a curare.
E nel medesimo tempo mi assicurai che non vi esisteva alcun
cretino, e che estremamente rari, più raridi quanto mai avessi veduto in ogni altra parte di Lombardia, vi erano i gozzi.
Ciò ripeto onde disingannare chiunque vi guardi e vi cerchi coi propri occhi il mal asserito cretinismo della Valle Brembana, e come fecero, anche tra i forestieri, un De La Lande
(nota 4) e un La Martinière (nota5), onde convincersi perfettamente di una verità di fatto che la patria nativa dei Tasso, di Mascheroni, di Tiraboschi, di Maffei, di Talpino, di Cariani, di Ceresa, dei Palma, ecc., non era la patria dei cretini e dei gozzuti”.


Alla sorpresa dell’assenza di forme di cretinismo (rivelazione per la quale si tenne nel 1859 una conferenza a Pavia dal titolo
Intorno al mal asserito cretinismo delle vallate bergamasche) e alla rarità di gozzi in Valle Brembana, vi fu tuttavia la conferma di numerosi casi di pellagra, già segnalati negli anni precedenti dai colleghi medici del Griffini.
Uno studio statistico dei casi di pellagra in Valle Brembana e, in generale, in Lombardia e nell’Italia settentrionale, fu condotto anche da alcuni studiosi francesi in due annate differenti, il 1848 e il 1859, pubblicando in seguito i risultati negli
Annales d’Hygiène Publique et de Médecine Légale del gennaio 1861. (nota 6)
A riportare le osservazioni sui viaggi-studio in Italia fu uno dei principali studiosi d’oltralpe sulla pellagra, il medico Jean Christian Marc Boudin, che nella sua relazione
Souvenirs de la campagne d’Italie, contenuta appunto negli annali menzionati, premette:


“Nos études sur la pellagre datent de 1848, époque à laquelle nous leur avons consacré un voyage en Piémont et en Lombardie. Pendant la champagne d’Italie de 1859, nous avons repris ces études, et nous avons visité dans ce but, les hôpitaux du Piémont, de la Lombardie et de la Vénétie. Non seulement nous avons vu des centaines de pellagreux, mais encore nous nous sommes trouvé pendant plusieurs mois en contact permanent avec les hommes les plus considérables de la haute Italie qui se sont occupés de la pellagre”.(nota7)


Da una sintesi numerica dei casi di pellagra in Lombardia del 1830, riportata fra le pagine della relazione di Boudin, risulta che Bergamo e la bergamasca, quasi a pari merito con la provincia di Brescia, sia con i suoi 6.071 casi una delle zone della regione maggiormente interessate dal morbo. Questo dato è riportato (e forse ne fu anche la fonte per Boudin) in un prospetto statistico pubblicato negli Annali universali di medicina del 1845 dal medico bresciano Lodovico Balardini all’interno di uno studio intitolato Della pellagra, del granoturco, quale causa precipua di quella malattia e dei mezzi per arrestarla.
Il francese Boudin affianca alle sue successive osservazioni, quelle in merito alla diffusione della pellagra, agli stadi di evoluzione della malattia e ai rapporti del più eminente fra gli studiosi italiani, Filippo Lussana, una serie di statistiche da lui raccolte durante un sopralluogo del 1844 (sua principale fonte fu l’Ospedale Maggiore di Milano) e che prendono in esame i distretti delle province di Milano, di Como, e delle valli Brembana e San Martino (si riporta di seguito la tabella, così come pubblicata nella relazione francese, dove il numero totale dei pellagrosi è di 263, e non 32 come erroneamente trascritto).

Si evince, dal confronto tra le differenti aree, che le valli Brembana e San Martino detengono una percentuale di pellagrosi di poco inferiore a quella

Donna rovescia la polenta  incisione ottocentesca Raccolta Bertarell

 della provincia milanese, dato gravoso se si mette a paragone il numero degli abitanti delle due aree, che nelle valli risulta cinque volte inferiore rispetto a quello dell’area meneghina (sorprende invece il fatto che i paesi affacciati sul lago di Como non riscontrino casi di pellagra; la percentuale di seguito riportata si riferisce in particolar modo ai paesi di campagna distribuiti fra le province di Como, Varese e Milano): 
Provincia di Milano:               Popolazione: 412.154  Pellagrosi: 1.589  Perc.: 38,5%
Valli Brembana e San Martino: Popolazione:  80.493  Pellagrosi:    263  Perc.: 32,7%
Provincia di Como:                Popolazione: 399.744  Pellagrosi:    686  Perc.: 17,2%
Portando infine a confronto le due diverse testimonianze, quella italiana e quella francese, si può notare come entrambe riferiscano di un picco di casi di pellagra intorno al 1830 e come il morbo si mantenne su percentuali elevate anche a metà secolo.

Basti pensare che, secondo i censimenti provinciali, i pellagrosi bergamaschi nel 1856 salirono a 8.522 e non si ebbero miglioramenti neppure negli anni successivi, attestandosi la quota ancora a 8.504 casi nel 1881, risiedenti soprattutto nei circondari di Bergamo e della bassa bergamasca (in base alla medesima indagine, in Valle Brembana si contavano 393 casi).
Bisognerà aspettare i cambiamenti economici e sociali del primo Novecento per assistere alla scomparsa definitiva della malattia e, addirittura, al 1938, molti anni dopo la promulgazione della
Legge sulla pellagra (1902), basata sulla tesi di Cesare Lombroso, per attestare la fondatezza scientifica degli studi sostenuti da Filippo Lussana.

 

_______
 

 nota 1) La cura che l’ospedale riservava ai pellagrosi consisteva nel miglioramento della dieta alimentare, resa più varia e completa, nella somministrazione di alcuni medicinali e nell’obbligo a sostenere bagni o docce refrigeranti e igienici quotidianamente. Mediamente si curavano 500 malati all’anno, con turni di ricovero di quindici o venti giorni. Ritorna al testo>>>
 

nota 2) Annali Universali di Medicina, già compilati dai dottori Annibale Omodei e Carlo-Ampelio Calderini, continuati dal Dottore Romolo Griffini. Volume CLXX. Ottobre, Novembre e Dicembre 1859. Milano, presso la Società per la pubblicazione degli Annali Universali delle Scienze e dell’Industria, 1859.     Ritorna al testo>>>


nota 3)
 Carlo Nardi : Delle cause e della cura della pellagra. Milano, 1836, pag. 137 (nota dell’autore).    Ritorna al testo>>>
 

nota 4)  Voyage en Italie. Yverdon, 1788, tom. VII, pag. 266 (nota dell’autore).        Ritorna al testo>>>


nota 5) 
Dictionnaire géographique. Article Bergamasc (nota dell’autore).     Ritorna al testo>>>


nota 6) 
Annales d’Hygiène Publique et de Médecine Légale, autori vari, Deuxième Série, Tome XV, Baillière et fils Libraires de l’Académie Impériale de Médecine, Paris, Janvier 1861.      Ritorna al testo>>>


nota 7)  Trad.
“I nostri studi sulla pellagra datano dal 1848, epoca in cui vi avevamo dedicato un viaggio in Piemonte e Lombardia. Durante la campagna d’Italia del 1859 abbiamo ripreso questi studi e a tale scopo abbiamo visitato gli ospedali del Piemonte, della Lombardia e del Veneto. Non solo abbiamo visto centinaia di pellagrosi, ma ci siamo anche trovati per molti mesi in continuo contatto con le maggiori personalità dell’alta Italia che si sono occupate della pellagra”.      Ritorna al testo>>>

 

 

http://www.culturabrembana.com/quaderni/2007/QuaderniBrembani7.pdf  (vedere da pag. 7-Sommario e da pag 39 in poi l'articolo)
 

http://it.wikipedia.org/wiki/Cesare_Lombroso

 

http://it.wikipedia.org/wiki/Filippo_Lussana

 

 

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