3) CONTATTI UFFICIOSI A GINEVRA
PER NEGOZIARE LA PACE
Nei seguenti capitoli sono riportati brani dal volume RICORDI DI UN
DIPLOMATICO - Dal Fascio allo sfascio -, edito nel 1992 dalla casa Editrice S.
Marco di Trescore Balneario (BG). Allo scopo di chiarire ed
ampliare la conoscenza degli avvenimenti e dei personaggi citati al testo
originale sono stati
aggiunti links a siti web e fotografie, molte provenienti dall'archivio
personale.
3) A Ginevra (pag.118 - pag. 140)
Io ero in servizio da oltre sette anni al Ministero e stavo per sposarmi.
Cominciai a pensare all'inutilità di restare a Roma e che fosse meglio essere
inviato all'estero, possibilmente in un Paese neutrale ove cercare — al momento
opportuno — di fare qualche cosa per accelerare la pace e salvare il salvabile.
Fu così che una sera, essendo di turno alla Segreteria e dovendo fare il
rapporto al Ministro, potei avvicinarlo per cui gli espressi il mio desiderio di
andare all'estero. Ciano, molto gentilmente come sempre mi aveva trattato, mi
rispose che gli pareva fosse un desiderio più che legittimo e mi domandò dove
volessi andare. Gli risposi che dovevo ancora prestare il servizio consolare
(era allora obbligatorio per legge per la durata di almeno due anni prima di
poter essere smistato nella carriera diplomatica vera e propria) e che sarei
andato volentieri a Ginevra ove si era reso disponibile il posto di Console
aggiunto e dove ero stato richiesto dal Console Generale, Ministro Luigi
Cortese.
Ridendo mi disse: "Ma perché vuoi andare con quel tipo che puzza sempre di
pipa e di aglio? (ed era vero!). Dato il buon servizio che hai prestato ti
potrei mandare in una Ambasciata importante come Berlino o Parigi Vichy". Non
potevo dirgli che non volevo andare tra le braccia dei tedeschi ai quali ero
allergico e cadere dalla padella nella brace. Risposi pertanto che a Ginevra
c'erano dei parenti di mia moglie (era vero) e, poiché aspettava un figlio, vi
si sarebbe sentita più appoggiata. Non so se avesse mangiato la foglia, forse
sì, perché mi disse subito: "Allora sta bene senz'altro" e seduta stante
telefonò al Capo del Personale, Ministro Marcello Del Drago, il quale sollevò
delle difficoltà perché intendeva nominare a Ginevra il suo amico e compagno di
Golf, Grillo. Ciano però, come faceva quando si sentiva opporre difficoltà senza
ragione, gridò: "Marcellino, non mi rompere i ... e prepara subito il decreto".
Fu così che ai primi di agosto del 1942 sbarcai a Ginevra che, a causa della
guerra, era allora una città quasi morta; c'erano migliaia di appartamenti
sfitti! La Svizzera in quei tempi era, come forse lo è adesso, tutta un covo di
spie dei Paesi belligeranti. Il governo elvetico non rispettava molto le norme
della sua decantata neutralità permanente, ovvero le rispettava solo quando gli
faceva comodo. Pertanto era del tutto tollerante verso le spie inglesi,
americane o comuniste che lavoravano per l'URSS; unica condizione era che
passassero anche al servizio svizzero le notizie che riuscivano ad ottenere.
Operazione Barbarossa (Unternehmen Barbarossa),
che prese avvio nel mese di giugno 1941, era il nome in codice tedesco per
l'invasione dell'Unione Sovietica da parte della Germania nazista, durante la
seconda guerra mondiale. Si trattò della più grande operazione militare
terrestre di tutti i tempi e prese il nome da Federico Barbarossa.Il Fronte
Orientale, aperto dall'operazione Barbarossa, fu il più grande teatro di
operazioni della seconda guerra mondiale. Vi ebbero luogo alcune tra le più
grandi e brutali battaglie, con enormi perdite in termini di vite umane. Nel
corso delle operazioni belliche, decine di milioni di militari e civili patirono
enormi sofferenze a causa delle condizioni di vita miserevoli in cui vennero a
trovarsi. L'Operazione avrebbe dovuto costituire il punto di svolta delle fortune
naziste; il suo fallimento fu un elemento definitivo che determinò la
capitolazione della Germania nazista.
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Famosa doveva restare in seguito la
"Orchestra
rossa" composta da ebrei,
tedeschi, russi e ungheresi che, attraverso complici nelle alte sfere
germaniche, riuscì a informare tempestivamente Mosca dell'operazione Barbarossa,
dell'invasione della Russia e degli spostamenti dell'esercito del Reich. Stalin
tuttavia il più delle volte non credette alle notizie, pur molto precise, forse
perché date da ebrei e ne ripagò, a guerra finita, i responsabili... con la
fucilazione e la deportazione durante le celebri purghe!
Altro gruppo formato da fuorusciti antinazisti tedeschi che riceveva
notizie direttamente dal
Fùhrer Haupt Quartier, dava preziose notizie ad inglesi
e americani. Si trattava in questo caso non di soli antinazisti, ma di veri e
propri traditori che, stando al sicuro, provocarono la morte di decine e decine
di migliaia di soldati e di civili tedeschi innocenti.
Qualche cosa di simile avveniva purtroppo da parte di alcuni — pochi invero —
fuorusciti italiani, anche questi traditori perché prezzolati dagli alleati cui
fornivano le notizie. Noto fra questi un funzionario di una grande banca di
Milano, che si faceva passare per barone, mentre non lo era mai stato, e che si
era specializzato nel richiedere bombardamenti di città italiane!
Avvenne così, al tempo della Repubblica di Salò, che il barone fasullo venne
a sapere di un incontro a Tarvisio del
Gen. Graziani con il
Gen. Keitel e lo
comunicò agli alleati perché bombardassero quella località. Avvenne purtroppo,
sia perché il sedicente barone masticava male l'inglese, sia perché gli alleati
erano poco versati in geografia — che fu bombardata la innocente città di
Treviso il cui centro fu distrutto provocando centinaia e centinaia di morti!
Ovviamente il funzionario di banca si diede l'aria di un eroe della resistenza e
si iscrisse al partito d'Azione!
Piuttosto buono era il servizio informazioni elvetico composto per lo più da
ufficiali di complemento richiamati in servizio e che nella vita civile erano
impiegati di banche svizzere le quali, com'è noto, hanno propaggini in molti
Paesi e pertanto vengono a conoscenza di interessanti notizie, specie nel campo
economico e industriale.
Il nostro SIM si dedicava, più che allo spionaggio attivo, al
controspionaggio per proteggere il Paese da spie straniere nemiche e nostrane.
Ne facevano parte in Svizzera alcuni ufficiali e sottufficiali dei Carabinieri
mimetizzati in vari modi. I due più in gamba furono un
Maresciallo e il Magg. Eugenio Piccardo, oggi generale, lo stesso che aveva
fatto i colpi nelle Ambasciate sospette, a Roma, durante la guerra etiopica e
dopo. Stavano tutti e due a Lugano, ma non dovevano essere visti insieme. Per
scambiarsi notizie e istruzioni si incontravano, come per caso, una o due volte
alla settimana in un... vespasiano doppio, nella piazza principale. Il
maresciallo era entrato in Svizzera chiedendo asilo politico e dichiarandosi
comunista perseguitato dalla Polizia italiana e dal Tribunale speciale. Si era
presentato alla cellula comunista di Lugano che gli trovò lavoro e lo presentò
agli inglesi che si servivano sempre dei comunisti in ogni Paese.
Quando ci fu un gravissimo incidente ferroviario nella grande galleria
dell'Appennino, fra Bologna e Firenze, in cui un treno carico di carburante,
proveniente dalla Germania, prese fuoco, il maresciallo si vantò con gli Inglesi
dicendo che si trattava di un sabotaggio compiuto dai compagni della sua
organizzazione. Gli Inglesi gli credettero e cominciarono a consegnargli denaro
ed esplosivo plastico da inviare a detta organizzazione. Tutto ovviamente finiva
nelle mani dei CC.RR. di Como!
Dopo l'armistizio, quando venne l'ordine dal Governo di Brindisi di
collaborare con gli angloamericani, gli Inglesi andarono su tutte le furie e
sostituirono, in Svizzera, il capo della loro "Military Intelligence". Gli
americani più sportivi, anche perché tutto era accaduto a danno dei Britannici,
si fecero invece grosse risate e chiesero subito la collaborazione di Piccardo
che, però, essendo un buon italiano, continuò sempre ad essere perseguitato dal C.N.L. alta Italia, strumento dei comunisti e degli azionisti. I
carabinieri e il SIM, in verità, non si erano mai occupati degli
antifascisti italiani, a meno che fossero spie del nemico.
Erano intanto cominciati in Italia i bombardamenti a tappeto, da altissima
quota, sui centri delle grandi città indifese, da parte degli "eroici" aviatori
britannici — veri bombardamenti terroristici e devastatori. Con essi gli inglesi
raggiungevano il doppio scopo di salvarsi la pelle e di abbattere il morale
delle popolazioni.
E pensare che mio Padre nella Ia guerra mondiale aveva rimandato per
punizione ai Corpi di provenienza (allora l'Aviazione non era un'Arma autonoma e
aveva personale volontario da tutti i Corpi dell'Esercito e della Marina) alcuni
piloti di Caproni CA 450 perché bombardando la stazione di Innsbruck erano
restati a quota troppo alta e invece di colpire il centro ferroviario avevano
colpito qualche casa circostante, accoppando dei civili. Ma allora la guerra era
ancora cavalleresca!
Al Consolato Generale avevamo organizzato un servizio di allarme e attraverso
amicizie con le capo-turno di notte, della centrale telefonica di Ginevra,
riuscivamo ad avere la comunicazione con il Comando difesa contraerea di Milano,
Torino e Genova in meno di un minuto. Poteva quindi essere dato l'allarme, in
quelle città, con notevole anticipo, e i cittadini avevano tempo di rifugiarsi
nei ricoveri quando gli aerei nemici passavano sulla Svizzera. Tutto questo
serviva a poco perché la difesa contraerea attiva praticamente non esisteva. Non
c'erano infatti caccia notturni e l'artiglieria antiaerea aveva mezzi
antidiluviani — soprattutto non esistevano radar, né centrali di tiro moderne:
le poche esistenti, essendo superate, servivano a poco, soprattutto di notte.
Per questo gli Alleati si accanivano contro le nostre città sapendo che le
incursioni andavano completamente impunite. Era molto più rischioso per loro
attaccare la Germania dove esisteva caccia notturna e artiglieria contraerea
moderna, mentre noi, solo intorno a Milano, avevamo un Reggimento di artiglieria
con pezzi moderni da 100 mm, antiaerei.
E' vero che, come mi aveva detto a Berlino il comandante della batteria
contraerea schierata intorno allo Schloss Bellevue, anche la loro artiglieria
combinava poco contro aeroplani che volavano oltre i tremila metri. Essi
calcolavano di abbattere una fortezza volante circa ogni diecimila colpi!
Cercavano di costituire infatti sbarramenti di fuoco intorno agli obiettivi
principali come "Leuna Werke", l'immensa fabbrica della benzina sintetica che
forniva carburante a tutte le forze armate tedesche e anche a noi. (Nella foto
la fabbrica nel 1924
Fonte:http://www.mdr.de/
Luftaufnahme der Leuna-Werke, 1924 Rechte:
Landesarchiv Merseburg)
Essa infatti non fu quasi mai colpita e funzionò più o meno quasi sino alla
fine della guerra, perché gli alleati preferivano colpire le popolazioni
civili indifese e persino — quando non esisteva alcuna reazione — abbassarsi a
mitragliare i civili che camminavano per le strade e i contadini nei campi! Ciò
avveniva molto spesso.
Se noi avessimo avuto una caccia diurna e soprattutto notturna dotata di
Macchi 205, con i nuovi motori da oltre mille cavalli tanto avversati, le cose
sarebbero andate molto diversamente, come dimostrò un solo caccia notturno
Macchi 205 dell'Aviazione della Repubblica di Salò (!!!) che durante una
incursione su Torino nel 1944 in pochi minuti abbattè varie Fortezze volanti (se
non erro ben sette)
Gli svizzeri tolleravano le violazioni del loro spazio aereo da parte degli
alleati occidentali senza protestare troppo: non sparavano mai una cannonata
contro gli aerei che sorvolavano la Svizzera. Solo quando qualche aviatore
inglese mollava bombe per errore sul lago di Ginevra scambiandolo per il lago
Maggiore essi avanzavano qualche protesta. Ci volle un nostro duro irrigidimento
perché accettassero di fare l'oscuramento su tutta la Svizzera che altrimenti
sarebbe stata un ottimo punto di riferimento agli incursori. Però ogni tanto
qualche bottegaio, amico o prezzolato dagli inglesi, teneva accese le sue
vetrine in punti strategici sul lago, che venivano metodicamente distrutte a
sassate da giovani italiani.
D'altronde la neutralità svizzera, come accennato, era piuttosto una burla.
Finché l'esito della guerra era ancora incerto, il Governo di Berna accoglieva
tutte le nostre richieste, ma quando le cose cominciarono ad andare sempre
peggio'per noi, divenne più intransigente e parziale. Eppure gli elvetici
avrebbero dovuto erigere un monumento a Mussolini che si era sempre opposto
all'idea di Hitler di invadere la Svizzera considerata da lui una roccaforte...
demopluto-judo-massonica! Fu forse l'unica volta che Mussolini riuscì a
persuadere Hitler a rispettare la neutralità svizzera, facendogli balenare
qualche vantaggio per l'Asse. Il fatto era che il Duce ne aveva già di troppo di
avere i nazisti in Austria e al Brennero, senza farli giungere sino ai Grigioni,
al Gottardo e al S. Bernardino! Gli svizzeri avrebbero dovuto anche essere
riconoscenti a Mussolini per avere permesso loro l'uso continuo del porto di
Genova per i loro rifornimenti, tanto che per la prima volta la Svizzera
costituì una propria flotta mercantile.
La neutralità, tra l'altro, provocava anche dei fatti tragicomici: le fabbriche
di orologi svizzere vendevano a noi e ai tedeschi una grande quantità di
spolette d'artiglieria a tempo... a condizione di poterne vendere un limitato
quantitativo agli inglesi! Così noi dovevamo verificare dei carri ferroviari che
da Ginevra, attraverso la Francia occupata, raggiungevano porti spagnoli e
portoghesi per imbarcare il loro carico bellico su navi inglesi!
Anche la guerra era un affare per gli svizzeri che potevano così continuare,
secondo la loro vocazione, a fare quattrini a spese delle due parti.
Le cose continuavano ad andare di male in peggio su tutti i fronti non solo
per noi ma pure per la Germania e ora, come ci si poteva attendere, anche per il
Giappone. Dopo i primi strepitosi successi sentiva il peso dei nuovi armamenti
americani prodotti a un ritmo inverosimile e soprattutto dei nuovi moderni aerei
che declassavano gli "Zero" Mitsubishi e praticamente paralizzavano e
sistematicamente distruggevano la potente flotta nipponica.
Mitsubishi A6M Zero
The Mitsubishi A6M Zero was one of the notorious
fighter aircraft of the Japanese Imperial Navy Air Service. The Zero was
imployed in almost every battle of the Pacific from the Japanese attack on Pearl
Harbor to the Battle of Midway. When it first came out, the Zero gained a
reputation as one of the best fighter planes. It had a long range and excellent
maneuverability. It could outclass all the Allied fighter aircrafts that it
first encountered such as the Grumman F4F Wildcat. As the war progessed, the
Zero became less and less effective. One of the biggest advantages that Allies
had over the Axis was production and resources. Japan itself has little
resources, so before the war brokeout they were able to produce quaity aircraft
and military weapons due to land that they had captured such as Korea and
Manchuria. When the war broke out, Japan started off strong because they had
stocked so many resources. As the war progressed and the Allies invaded more
land, the resources of Japan became more and more limited. It is because of
this, that the Zero had to then be produced using less powerful engines,
meanwhile the Allies were producing newer aircraft that could outclass the
Zero. The Zero finally met its match when it went up against the Grumman F6F
Hellcat. Although Japan lost the war, the A6M Zero is seen as one the most
significant aircraft of WWII.
Posted at
09:33PM Dec 06, 2008 by Robert Earle in General |
Era giunto il momento di trattare una pace con gli alleati occidentali prima
che il nostro Paese fosse interamente distrutto. Era una cosa che avevo sempre
pensato, ma ora non si poteva più tardare e cominciai a guardarmi intorno perché
la Svizzera poteva essere il luogo favorevole per un primo contatto.
Prima di partire per il mio posto di Ginevra ero andato al Quirinale a far
visita al Duca d'Aosta (già duca di Spoleto). Nel colloquio, durante il quale si
era parlato della situazione militare disastrosa, mi accorsi chiaramente che
anche lui era del parere di cercare un modo per uscire dal conflitto.
All'inizio dell'inverno 1942-43, di ritorno da un viaggio a Roma - ove dovevo
qualche volta recarmi per ragioni di servizio o personali - mi fermai a Firenze
ove risiedeva la famiglia del Duca. Da Ginevra avevo inviato corredini per il
figlio che stava per nascere e le farine lattee che non esistevano più in
Italia. Il duca Aimone, che si trovava al suo comando dei mezzi della Marina a
Lerici, mi mandò a prendere con un'automobile e mi trattenne suo ospite per una
notte che passammo quasi per intero insieme all'Ammiraglio, suo Capo di Stato
Maggiore, per pensare a come si poteva agire per uscire dalle ostilità.
L'Ammiraglio non approvava affatto i nostri discorsi, ma noi ritenevamo che
oramai bisognava parlar chiaro e decidersi.
A questo punto, comunque, ritengo preferibile lasciare la parola al Prof.
Mario Toscano, in seguito nominato Ambasciatore onorario e Capo dell'Ufficio
storico del Ministero degli Esteri e degli archivi riservati, il quale descrisse
il nostro tentativo.
(M. Toscano, Dal 25 luglio all'8 settembre, Le Monnier, Firenze, 1966,
pagg. 161-166.)
"Gli approcci compiuti da parte italiana prima del 25 luglio 1943
all'insaputa del governo fascista possono essere divisi alla loro volta in due
categorie: quelli effettuati da membri della Famiglia Reale e quelli tentati da
gruppi militari antifascisti. I sondaggi ad opera di
membri della Famiglia Reale di cui si ha notizia sono stati due. Il primo a
Ginevra per conto del Duca d'Aosta d'intesa con il principe di Piemonte e
verosimilmente anche con il consenso di Re Vittorio Emanuele ed il secondo a
Lisbona, promosso in via del tutto personale dalla principessa Maria Josè di
Piemonte.
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Cordell Hull
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Antony Eden |
Circa l'apertura di Ginevra, la già citata lettera di
Eden a
Cordell Hull del
18 dicembre 1942 conteneva (...) un certo numero di particolari.
Nel riferire intorno a questo documento, che per la prima volta ha dato
pubblica notizia di un episodio tanto interessante quanto fino a quel momento
del tutto sconosciuto, ho affermato che dell'iniziativa del Duca di Aosta era a
conoscenza anche il Re Vittorio Emanuele e che essa non è stata estranea alla
decisione del sovrano di compiere il colpo di Stato del 25 luglio senza altri
contatti con gli angloamericani.
Solo recentemente ho avuto altre indicazioni e nuovo materiale che mi
consentono di ampliare notevolmente il racconto e di precisare alcune
circostanze.
In primo luogo, va subito ribadito che a Ginevra agì l'allora console
aggiunto Alessandro Marieni e non il console generale Luigi Cortese, il quale
era solo sommariamente a conoscenza delle linee generali di quanto avveniva, ma
che rimase estraneo alla trattativa. Marieni era ben conosciuto dal Duca di
Spoleto (poi Duca d'Aosta). Era stato suo segretario nella missione dal principe
compiuta in Iran nella primavera del 1938, e l'aveva avuto quale testimonio al
suo matrimonio. Allorché, nella primavera del 1942, Marieni venne inviato a
Ginevra quale console aggiunto, egli andò a salutare il principe al Quirinale,
approfittando di una sua brevissima sosta a Roma. La conversazione fu intonata a
profondo pessimismo circa la situazione bellica italiana che il Duca ben
conosceva, specie dal lato navale ed aeronautico, in quanto comandante dei mezzi
d'assalto della Marina. Il Duca disse che l'Italia sarebbe dovuta uscire al più
presto dalla guerra, soprattutto per scindere le proprie responsabilità da
quelle dei tedeschi le cui atrocità venivano ogni giorno sempre più alla luce.
Si doveva trovare il modo di trattare con gli anglo-americani, sempreché si
fossero ottenute condizioni di armistizio e di pace non eccessivamente dure,
condizioni cioè che tenessero conto di una iniziativa italiana per abbreviare le
ostilità. Nel congedarsi Marieni promise di tenere informato il Duca delle
eventuali possibilità di contatto con gli anglo-americani che avrebbe
riscontrato a Ginevra.
Dopo qualche tempo di permanenza nella nuova sede, con l'aiuto del
giornalista dott. Giacomo Cicconardi, corrispondente da Ginevra di giornali
italiani ed oggi alto funzionario della C.E.E., Marieni potè incontrare il
colonnello di S.M. Victor Farrel, distaccato a Ginevra con la copertura di
console aggiunto di Gran Bretagna. Il Cicconardi lo conosceva bene, in quanto
Farrel aveva sposato la nipote dello scrittore Somerset-Maugham. Marieni ebbe
vari incontri con Farrel in casa di Cicconardi. Tali incontri vennero
intercalati da viaggi in Italia per riferire al Duca d'Aosta con il quale,
d'intesa con il suo Aiutante di campo comandante Mazzucchetti, era stato
stabilito un cifrario di frasi convenzionali per potere comunicare anche
telegraficamente.
Il Duca d'Aosta aveva allora il suo comando a Lerici e disse a Marieni
ch'egli agiva d'intesa con il principe di Piemonte, il quale conveniva
sull'urgenza di trovare una via d'uscita dalla critica situazione in cui il
Paese si era venuto a trovare e sulla necessità di sondare le intenzioni degli
anglo-americani. Al principe Umberto il Duca avrebbe regolarmente riferito circa
i suoi contatti con Marieni, il quale riteneva che anche il Sovrano ne fosse a
sua volta informato. Un commento a quanto da me esposto nel primo capitolo
pervenutomi oralmente da Cascais, sembra confermare pienamente tale ipotesi.
Secondo quanto lo stesso Marieni ebbe a dirmi, all'inizio delle conversazioni
gli inglesi richiesero come prima condizione — anche forse per garantirsi della
buona fede dei loro interlocutori — che un principe di Casa Savoia si
trasferisse in Sardegna e vi costituisse un governo libero, pronto a cooperare
con gli anglo-americani e contro i tedeschi. La cosa parve allora interessante
perché avrebbe forse potuto evitare condizioni di pace troppo dure, ma certo non
di facile esecuzione in quanto richiedeva l'adesione di notevoli forze militari
di guarnigione nell'isola oltre che l'appoggio armato alleato.
Sul seguito del negoziato di Ginevra, la raccolta dei documenti diplomatici
americani contiene soltanto la favorevole risposta data da Cordell Hull il 23
dicembre 1942 al suggerimento di Eden di continuare a mantenere aperto il canale
con il Duca d'Aosta, riserva relativa alla necessità di definire una politica
comune verso le personalità italiane disposte a passare nel campo delle Nazioni
Unite. La trattativa sulle rive del Lemano continuò praticamente inconclusiva
fino alla costituzione del governo Badoglio. Secondo la versione avutane
recentemente da Marieni, i sondaggi indiziali mostrarono:
1) che gli americani lasciavano agli inglesi l'esclusivo compito di trattare
con noi, in quanto l'Italia rientrava nella competenza e nella sfera di
influenza politica britannica;
2) che gli alleati auspicavano il rovesciamento del regime fascista ad opera
degli italiani stessi che avrebbero pertanto dovuto entrare in lotta al più
presto contro le forze germaniche nella penisola e, ove possibile, nei teatri di
guerra del Mediterraneo. Si sarebbe voluto, in una parola, la creazione di una
specie di movimento gollista italiano con l'istituzione di un Governo libero in
qualche parte d'Italia.
Fu così che, come si è già accennato sopra, si venne a parlare della
Sardegna, la quale, come isola, si sarebbe meglio prestata allo scopo e dove un
principe di Casa Savoia avrebbe potuto trasferirsi a nominare il nuovo Governo.
Marieni ricevette allora istruzioni di rispondere che tale progetto poteva
essere preso in esame, ma che per passare alla sua esecuzione era necessario
conoscere le conseguenze che un simile rovesciamento di fronti e di alleanze
avrebbe comportato per l'Italia. Il Duca d'Aosta fece cioè chiedere:
1) quale miglior trattamento ne sarebbe derivato all'Italia da parte degli
Alleati; alla fine della guerra sarebbe stato infatti estremamente arduo
persuadere delle unità militari a compiere un pronunciamento ed abbattere il
regime in piena guerra se non previa assicurazione che ciò avrebbe migliorato la
situazione del Paese al tavolo della pace;
2) quale appoggio le forze aeree e marittime alleate avrebbero potuto dare ad
una azione italiana del genere di quella progettata.
A questo punto le trattative entrarono in una fase delicata, nel corso della
quale Marieni constatò una notevole incomprensione circa la situazione italiana,
una grande confusione di idee e l'assoluta incapacità di modificare piani già
prestabiliti per sfruttare le nuove possibilità che si offrivano ai fini
dell'abbreviazione del conflitto.
Marieni attribuì questo atteggiamento alla
solita disparità di vedute fra le Autorità civili e quelle militari.
Sta di fatto che non si diede mai soddisfazione alle richieste italiane di
informazioni, ma si ebbero solo tergiversazioni, ritardi e risposte evasive.
Nulla di concreto soprattutto per quanto concerneva la richiesta di appoggio
navale ed aeronautico all'eventuale movimento di rivolta antifascista ed
antitedesca di una parte delle nostre Forze Armate.
La risposta invariabile fu: "fate qualche cosa e poi vedremo". Nessuna anche
minima assicurazione da parte britannica fu poi data per quanto concerneva il
trattamento futuro cui sarebbe stata sottoposta l'Italia anche se il Duca
d'Aosta fosse riuscito a rovesciare il regime fascista ed a sottrarsi
all'alleanza con i tedeschi.
Si ebbe quasi l'impressione che da parte britannica qualcuno preferisse
mandare a monte le trattative, perché l'Italia uscisse completamente distrutta
dalle ostilità, che sarebbero continuate, e fosse posta alla assoluta mercé dei
vincitori che avrebbero potuto così imporre le loro vedute. Si ebbe, in una
parola, l'impressione che la "resa senza condizioni" fosse inevitabile e già
decisa.
Ciò naturalmente non facilitava il compito del Duca d'Aosta e rendeva
estremamente difficile ottenere l'adesione di notevoli forze militari, al
progetto.
Si perse così molto tempo e si arrivò al 25 luglio 1943.
Quanto riferisce Marieni corrisponde sostanzialmente alla linea di condotta,
prescelta da Londra ed accettata da Washington nei confronti del governo
fascista prima della caduta di Mussolini, sulla quale abbiamo già avuto
l'occasione di riferire nel primo capitolo sulla scorta di documenti diplomatici
americani. La sorpresa e l'amarezza del negoziatore italiano a Ginevra e dei
suoi mandanti devono essere state allora notevoli, ma urtavano contro una realtà
politica e militare insuperabile, della quale non restava altro da fare se non
prenderne atto.
Anche se queste informazioni non mutano sostanzialmente l'impressione iniziale
circa il negoziato di Ginevra del Duca d'Aosta, esse hanno un valore non
trascurabile laddove confermano nell'idea secondo cui questo sondaggio dovette
influire notevolmente sul Sovrano nel "fare qualche cosa" da sé, salvo a
dovere
constare poi che, anche dopo il colpo di Stato, non vi era un'altra alternativa
immediata alla resa incondizionata."
Cliccare per ingrandire
Non feci mai un rapporto ufficiale né ai miei diretti superiori in Svizzera:
Ministro Magistrati a Berna e Console Gen. Luigi Cortese a Ginevra, perché non
mi fidavo di loro e temevo le loro chiacchiere.
Non feci nemmeno rapporto ai Governi di Brindisi e poi di Roma; ero infatti
certo che mi avrebbero chiesto perché avevo preso l'iniziativa senza
concertarmi... con i fuorusciti antifascisti i quali, secondo me, servivano più
i sovietici e gli inglesi che non il loro Paese.
Dopo i primi incontri con il vice Console inglese Farrel — Ufficiale della
I.S. — mi resi conto che non si sarebbe riusciti ad approdare a niente: gli
inglesi erano ultradiffidenti e non volevano modificare i piani prestabiliti;
quindi ponevano condizioni impossibili e non promettevano nulla.
Si seppe poi che l'ostacolo era stato costituito dal Ministro Eden che, oltre
ad essere male informato sulla situazione italiana, ci detestava e non voleva
permettere all'Italia una via d'uscita onorevole, mentre era disposto ad aprire
trattative con la Germania. Churchill e Roosevelt si erano mostrati invece più
tolleranti e propensi ad un compromesso, specie il Presidente americano che
doveva tener conto dei milioni di elettori di origine italiana che votavano per
il suo partito democratico. Infatti egli riteneva che, nei bombardamenti
sull'Italia che si era deciso di continuare, si dovesse cercare di non colpire
la popolazione civile, mentre gli inglesi erano più favorevoli ai bombardamenti
terroristici.
Fonte: Claus Nordbruch, «The allied plan for the annihilation of german people»,
The Revisionist, 2 febbraio 2004.
… Così scrisse nel suo diario il segretario al Tesoro di Roosevelt, il banchiere
Henry Morgenthau jr. «Dobbiamo essere duri con la Germania, e intendo con il
popolo tedesco, non solo coi nazisti», il giorno 19 agosto 1944: «Bisogna o
castrare i tedeschi, o trattarli in modo che non continuino a riprodursi come
hanno fatto in passato».
Era la proposta apparsa nel 1940, un anno prima che gli USA entrassero in
guerra, in un opuscolo intitolato «Germany must perish», la Germania deve
sparire. Era stato scritto da Theodore Nathan Kaufman, presidente di un ente
chiamato, orwellianamente, «American Federation for Peace». «La guerra attuale
non è contro Adolf Hitler», scriveva il pacifista, «nè contro i nazisti. E’ una
lotta tra la Germania e l’umanità (…). Di conseguenza, essa deve accettare di
pagare la pena totale: la Germania deve perire per sempre! E in realtà, non
nella fantasia». Kaufman passava subito a spiegare come: «La popolazione della
Germania, se si escludono i territori annessi e conquistati, è di circa 70
milioni di individui, quasi egualmente divisi tra maschi e femmine. A
raggiungere lo scopo della estinzione tedesca sarebbe necessario sterilizzare
solo 48 milioni di individui (…)». «Prendendo 20 mila chirurghi come numero
arbitrario, e assumendo che ciascuno esegua 25 operazioni al giorno, per
completare la sterilizzazione servirebbe non più di un mese al massimo. (…) La
sterilizzazione delle donne richiedendo più tempo, si può calcolare che l’intera
popolazione femminile tedesca potrà essere sterilizzata entro tre anni o meno.
La sterilizzazione completa di entrambi i sessi, non di uno solo, è da ritenersi
necessaria a causa dell’attuale dottrina tedesca secondo cui una sola goccia di
sangue germanico fa di un uomo un tedesco». «Naturalmente, dopo la
sterilizzazione completa, in Germania non ci sarà più natalità. Con il normale
tasso di mortalità del 2% annuo, la demografia tedesca diminuirà annualmente di
1,5 milioni di individui. Nel giro di un paio di generazioni l’eliminazione del
germanesimo e dei suoi portatori sarà un fatto compiuto». Gran parte delle
proposte del Piano Morgenthau furono inserite nella direttiva JSC 1067, emanata
nel 1947 dal Comando Supremo che costituiva il governo occupante militare. Il
Piano presentava però difficoltà pratiche che si rivelarono insormontabili. Non
era facile trovare 20 mila chirurghi disposti ad operare 25 castrazioni al
giorno; nè questa misura, nè l’allagamento delle miniere furono portati a
termine, per difficoltà logistiche. La deindustrializzazione totale dovette
essere rallentata perchè affamava la popolazione prigioniera, al punto da far
temere epidemie da fame e denutrizione, nonchè ribellioni. Più tardi, l’avvento
della guerra fredda e la minaccia sovietica sconsigliarono di perseguire
attivamente lo sradicamento dell’industria tedesca; la parte della Germania
sotto occupazione sovietica, diventata comunista, continuava ad avere industrie
operative. Tuttavia, fu applicato severamente il codicillo della direttiva JCS
1067 che diceva: «Nessuna azione deve essere intrapresa (…) che tenda al
sostentamento delle condizioni elementari di vita in Germania nella nostra zona
(d’occupazione)». Come sappiamo, Eisenhower praticò un principio di genocidio
per negligenza, lasciando morire di stenti almeno 800 mila tedeschi prigionieri
nei campi di internamento occidentali. Al Senato americano fu sollevata la
questione se la sparizione della potenza industriale germanica non avrebbe avuto
ripercussioni negative sui Paesi vicini e alleati, importatori di beni tedesci.
Il Segretario al Tesoro, nel memorandum datato 7 settembre 1944, rigettò
l’obiezione «perchè gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia e il Belgio
possono facilmente fornire ciò che la Germania produceva prima della guerra».
http://www.stampalibera.com/?p=4616
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Il rigido atteggiamento britannico — a parte i nostri interessi — è stato
intelligente e preveggente? Io direi di no. Molti sostengono che, con una
maggiore duttilità, la guerra con la Germania poteva forse finire un anno e
mezzo prima, con la conseguenza, per il Regno Unito, di non finire per
svenarsi completamente dal punto di vista finanziario, di essere ancora in tempo
per salvare gran parte dell'impero coloniale e di restare una grande potenza che
oggi non è certamente più. Bastava fare una diversa propaganda. All'inizio, e
anche prima delle ostilità, la propaganda inglese era stata molto brillante e
intelligente attirando per Londra le simpatie di tutto il mondo; verso l'ultima
parte del conflitto era invece molto scaduta.
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Henry Morgenthau jr. |
Fu controproducente parlare di
resa senza condizioni vantando il
piano Morgenthau che voleva ridurre la
Germania a un Paese di pastori, pretese sciocche e antistoriche, come i fatti
hanno dimostrato. Sarebbe bastato rivolgersi ai tedeschi, promettendo una pace
onorevole nei vecchi confini purché si liberassero di Hitler e del nazismo. Ci
avrebbe pensato l'Esercito a far fuori Hitler, meglio del tentativo dell'anno
seguente di von Stauffenberg e soci.
Ormai i tedeschi non si facevano più molte illusioni e
combattevano più per la loro sopravvivenza che per Hitler.
Churchill, fra tutti i belligeranti, era stato certamente il più
intelligente, capace e tenace uomo di Stato, ma certo la Storia non potrà
considerarlo fra i più preveggenti, cioè uno statista completo, perché la guerra
ad oltranza portò allo sfascio dell'impero coloniale e alla fine della Gran
Bretagna come grande potenza.
Gli inglesi, in certo qual modo, sentirono istintivamente tutto questo e alla
fine della guerra lo sconfissero alle elezioni e si diedero ai laburisti che
finirono per seppellire del tutto la potenza inglese.
Ma si trattava dello spirito tutto anglosassone e protestante di punire e
vendicarsi nei riguardi del "cattivo", come nei films Western! Ciò si vide
chiaro quando gli inglesi, nella loro zona di occupazione della Germania,
continuarono per anni a far saltare con la dinamite industrie tedesche dopo
averle spogliate dei macchinari. Così facevano i sovietici e in parte i
francesi. Gli americani rinunciarono invece quasi subito a queste vendette
oltremodo sciocche. Infatti permisero ai tedeschi di ricostruire una industria
delle più moderne ed efficienti, battendo rovinosamente la concorrenza delle
industrie francesi e inglesi rimaste superate ed "obsolete".
Churchill, che aveva l'aureola di gloria per aver resistito da solo contro
l'Asse per oltre due anni vittoriosamente, avrebbe potuto imporsi anche ai più
potenti alleati per una politica maggiormente lungimirante, invece si adattò e
divenne succube di Roosevelt e di Stalin, pur debolmente protestando.
Così a Ginevra non riuscimmo a combinare nulla.
Nel frattempo avvenne la caduta del fascismo e la costituzione del Governo
Badoglio che avocò a sé le trattative con gli Alleati e combinò in tal modo
l'armistizio peggiore che si potesse mai immaginare, soprattutto quello
cosiddetto "lungo" firmato a Malta.
A onor del vero, alle attenuanti per il Governo che succedeva a Mussolini in
quella situazione, vanno annoverate le difficoltà enormi, prima fra tutte quella
del malvolere britannico. Gli Alleati perdettero così un'altra occasione —
l'ultima — di abbreviare notevolmente la guerra, attaccando la Germania da tergo
dell'Adriatico con l'appoggio della nostra flotta, attraverso Jugoslavia e
Austria. Ma i due generali comandanti supremi in Europa, Eisenhower e
Montgomery, erano strateghi piuttosto mediocri e non avevano l'elasticità né la
capacità e l'audacia di modificare di punto in bianco piani da lungo tempo
prestabiliti. Ci sarebbero voluti al comando supremo uomini in gamba come
Mac
Arthur che combatteva brillantissimamente sul Pacifico, o come
Bradley e
Patton
che erano invece in sottordine.
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Gen. Dwight D. Eisenhower |
Maresciallo Bernard Montgomery |
Gen. Douglas MacArthur |
Gen. Omar Nelson Bradley |
Gen. George Smith Patton |
Non riuscirò comunque mai a capire perché un grande uomo come
Churchill si
sia tenuto quale Ministro degli Esteri un bellimbusto vanesio come Eden il quale
può essere considerato con ragione il maggior affossatore dell'impero
britannico. L'avversare senza successo l'impresa etiopica italiana aveva infatti
dimostrato ai popoli colonizzati come fosse possibile sfidare impunemente il
leone britannico. Da allora iniziò un vero e proprio fermento nelle colonie
della Gran Bretagna ed è per questo forse che gli inglesi ancora oggi ci
detestano.
Churchill probabilmente, come quasi tutti gli Statisti, aveva bisogno di un
semplice esecutore delle sue istruzioni. Eden infatti era un perfetto burocrate
in sottordine, ma niente più. Lo si vide in seguito dopo la guerra quando
divenne Primo Ministro e si lanciò nella disastrosa impresa del Canale di Suez,
nazionalizzato da Nasser, che costituì la definitiva pietra tombale per l'impero
britannico. Parimenti egli si oppose sempre al processo di unificazione europea,
a differenza di Churchill, e anche per opera sua la Gran Bretagna non partecipò
alle trattative per la CECA e il CED e più tardi — pur non essendo egli più al
Governo — a quelle per la CEE.
Rimasi molto frustrato dell'insuccesso delle trattative e del susseguirsi di
eventi sempre più disastrosi. A nulla erano servite le astuzie per prendere
contatto con gli Alleati e i pericoli corsi. Infatti tutte le volte che avevo
attraversato la frontiera per entrare in Italia e mettermi a contatto con il
Duce avevo un certo ...batticuore!
Bastava infatti che un servizio di ascolto tedesco o italiano fosse riuscito
a decifrare qualche comunicazione inglese con Londra concernente le trattative,
perché io potessi essere arrestato da una delle due polizie fascista o nazista.
Pure gli inglesi avevano il difetto di chiacchierare troppo per radio anche con
gli americani e Eden informava il Parlamento di troppe cose.
L'attaccamento di Churchill per Eden fa riscontro a quello ancora più
disastroso del nostro Re e di Mussolini per
Badoglio. Infatti non si riesce a
capire, come ripeto, come due uomini che non possono essere considerati che
intelligenti nonostante i gravi errori compiuti, avessero scelto, per fare la
guerra prima e il sovrano poi per fare l'armistizio e liberarsi del Duce, un
uomo come Badoglio, rozzo e ignorante in tutto e particolarmente nelle cose
militari. Ultimo errore del Re fu quello di nominarlo Presidente del Consiglio
al posto di
Caviglia, suggerito da Grandi.
Gen. Caviglia
La notte fra l'8 e il 9 settembre fui svegliato da una telefonata che mi
chiamava alla frontiera di Annemasse dove si ritiravano verso la Svizzera alcuni
piccoli reparti alpini delle truppe di occupazione della Savoia.
Badoglio e il suo degno protetto e altrettanto sprovveduto Capo di Stato
Maggiore
Gen. Ambrosio si erano guardati bene di prevenire l'armistizio e di
dare istruzioni ai Comandi delle nostre truppe di occupazione, facendole
ripiegare, ad esempio, verso la frontiera italiana o i porti dell'Adriatico e
dello Jonio. Senza notizie e senza ordini i nostri presidi, che non disponevano
né di aviazione, né di carri di artiglieria, furono circondati da truppe
corazzate tedesche e, dopo breve resistenza, sopraffatti. Si disperdeva così
inutilmente un esercito che avrebbe potuto costituire una forza molto utile per
impedire ai tedeschi di impadronirsi dell'Italia.
I pochi alpini dell'Alta Savoia che entrarono in Svizzera, non volendo
consegnare le armi agli svizzeri, di nascosto riempirono la mia auto di
moschetti, bombe a mano e qualche mitra. Quando me ne accorsi dovetti andare in
un posto deserto e buttare tutto nel lago di Ginevra, non potendo fare
altrimenti.
Per fortuna il comandante della piazza di Ginevra era un nostro amico e si
comportò da gran signore quale era di fatto. Ci facilitò moltissimo le cose,
mentre le altre autorità svizzere, dopo la nostra sconfitta e ora che non
|
Antonio Meli Lupi di Soragna firma
il Trattato di pace Parigi 10.2.1947 |
contavamo più niente, erano diventate ostili e rendevano tutto difficile.
Con l'armistizio e la conseguente occupazione tedesca del Nord Italia
rimasero in Svizzera, senza denaro che non poteva più arrivare, alcuni
connazionali venuti per lo più per motivi di cura. Fra gli altri il
simpaticissimo
Conte di Torino che criticava il Re, suo cugino, per la fuga di
Pescara e per essersi affidato a Badoglio. Egli voleva assolutamente raggiungere
i partigiani e combattere con loro; dovemmo impedirglielo perché quasi
completamente cieco per distacco di retine e molto vecchio. C'era anche, per la
stessa ragione e per essere operato dal famoso oculista Franceschetti,
l'Ambasciatore Marchese Meli Lupi di Soragna.
Con l'occupazione tedesca arrivarono
poi migliaia di rifugiati civili e militari fra i quali
moltissimi ebrei che sfuggivano ai rastrellamenti delle
S.S.
Si aggravò così il compito delle Autorità diplomatico-consolari che avevano
ben pochi mezzi per una efficace opera di assistenza. I
pochi soldi della Legazione a Berna furono spesi per mantenere nei migliori
alberghi di Lugano i componenti del CLN Alta Italia che non facevano che
chiacchiere, atteggiandosi a "eroi" della resistenza in territorio svizzero! Il
Ministro Magistrati, che aveva la coda di paglia per i suoi precedenti
atteggiamenti a Berlino cedeva, per ingraziarselo, a tutte le pretese del CLNAI.
Per fare fronte alle crescenti spese fu aperto un grosso prestito con il
Governo svizzero, il famoso "Conto Italia" che fu ripagato dopo la guerra con la
costruzione e cessione del "Centro svizzero" di Milano e di una grande colonia
marina in Romagna.
Noi funzionari diplomatici però non fummo più pagati e dovemmo contrarre dei
debiti e vendere auto, radio, argenteria e tappeti, salvo alcuni che "si
arrangiarono", come dirò in seguito. Solo in prosieguo di tempo ricevemmo,
tramite la missione americana, dei piccoli acconti — meno di un terzo di quello
che aspettava. Gli arretrati non ci furono più pagati.
Tra i profughi che vennero dall'Italia ci furono molte personalità, come la
Contessa Jolanda Calvi di Bergolo con i figli, molto simpatica e che, nonostante
le terribili preoccupazioni, seppe superare la difficile situazione con coraggio
e con spirito ammirevoli. Ci
fu anche la
Principessa di Piemonte con i figli.
Era una donna non molto simpatica, né intelligente, ultima e definitiva
disgrazia di casa Savoia, ma che si atteggiava ad intellettuale di sinistra e a
donna politica. Ella ci creò più grane di diecimila altri rifugiati. Non aveva
la giusta ambizione di diventare la futura Regina d'Italia e avrebbe voluto
essere la futura Reggente per il figlio Vittorio Emanuele, mettendo da parte il
marito che permetteva fosse calunniato e considerato come compromesso con il
Fascismo, cosa assolutamente falsa. I fascisti infatti lo
tolleravano a malapena e diffusero molte false malignità sul suo conto.
Maria Josè non capiva che non c'era da fidarsi dei politicanti del
CLNAI di
cui i peggiori (molto più dei comunisti i quali almeno sapevano quello che
volevano) erano i cosiddetti azionisti.
Per tentare di mettere le cose in chiaro scrissi, sotto uno pseudonimo perché
come diplomatico non potevo firmare, un articolo sul giornale di Ginevra "La
Suisse" in cui difendevo i diritti al trono del Principe di Piemonte. Aggiungevo
che, comunque, in caso di sua ingiustificata esclusione, si sarebbe dovuto far
ricorso ad un Consiglio di Reggenza per il Principe Vittorio Emanuele,
presieduto dal suo parente più prossimo, cioè il Duca Aimone d'Aosta, e che mai
avrebbe potuto essere reggente la Principessa di Piemonte. L'interessata, che
venne a sapere chi era l'autore dell'articolo, non me lo perdonò più!
La grana maggiore ce la riserbò quando il Governo svizzero, per ragioni di
sicurezza, decise che avrebbe dovuto trasferirsi con i figli in una villetta
nell' Oberland bernese, avendo avuto sentore che i tedeschi, che occupavano
l'altra sponda del lago, avevano intenzione di compiere un colpo di mano per
prendere i Savoia come ostaggi. Dovemmo quasi costringerla facendole presente
che, essendo lei ospite della Svizzera, responsabile della sua incolumità,
doveva attenersi alle decisioni di quel Governo. Lei infatti non voleva
allontanarsi troppo dal luogo dei suoi incontri con i politicanti.
Il raziocinio della Principessa potè d'altronde essere pienamente valutato
vari anni dopo quando, con la madre, ex Regina del Belgio, si recò a Mosca e
volle deporre una corona d'alloro sulla tomba di Stalin nel Mausoleo di Lenin.
Compiva così una doppia "gaffe": nei riguardi degli occidentali, onorando un
tiranno sanguinario e nei riguardi dei russi che, dopo il famoso congresso del
PCUS, avevano estromesso la salma del dittatore dal Mausoleo!
È proprio vero che il sangue dei
Wittelsback, suoi ascendenti, non si
smentiva!
Con la costituzione della Repubblica di Salò e le pressioni telefoniche da
Berlino perché vi si aderisse, fatte da Anfuso, divenuto Ambasciatore
neofascista, si poneva la necessità di riconfermare la nostra fedeltà al Governo
legale, quello del Re a Brindisi.
Il nostro Console Generale a Ginevra però tergiversava e prendeva tempo
accogliendo le sempre più pressanti telefonate di Anfuso. Allora il sottoscritto
e i tre vice-consoli Contarini, Perrone Capano e Verri, Capitano dei Carabinieri
del SIM (che era considerato Vice Console per "copertura"), organizzammo una
specie di rivolta del "Bounty", minacciando il Console Generale di cacciarlo dal
Consolato se non firmava una dichiarazione di fedeltà al Re. Lo fece, ma da
allora i nostri rapporti furono molto tesi e quindi io chiesi ed ottenni di
essere trasferito al Consolato di Coira, nei Grigioni, resosi vacante perché il
titolare aveva aderito alla Repubblica di Salò. Là io ero autonomo e
indipendente e più vicino all'Italia, potendo così lavorare secondo le
mie intenzioni.
Qualche mese dopo l'armistizio si sposò a Berna il Consigliere della
Legazione, Alessandrini, con la figlia di un Ministro di Spagna, Calderon.
Al
ricevimento era invitato il Corpo diplomatico e quindi anche il Ministro di Gran
Bretagna. Il cognato de "la main gauche" di Farinacci fece di tutto per essere
invitato e per essere presentato al Ministro inglese il quale però reagì
negandogli la stretta di mano e dicendo: "Troppo presto".
Mi domando se un diplomatico — anche se smanioso di rifarsi una specie di
verginità — può essere tanto ingenuo e avere una tale faccia tosta da non
evitare queste brutte figure.
Con il ristabilimento della "democrazia" e della libertà si scatenarono tra i
funzionari all'estero la corruzione, la speculazione e gli intrallazzi che, ad
onor del vero, durante il fascismo erano stati tenuti abbastanza a freno per la
maggior disciplina esistente.
Due furono gli scandali principali: quello dei francobolli di Campione e
quello dei due treni di acciai speciali e materiali strategici provenienti dalla
Germania e fermati in Svizzera per l'armistizio e che non sarebbero dovuti
tornare in mano ai tedeschi.
Per quanto riguarda la prima faccenda accadeva che a Campione c'era la fame
perché nulla più veniva dall'Italia e mancavano i mezzi per comprare in
Svizzera. A tale punto un italiano, che a Ginevra faceva l'agente di Borsa e
noto come filatelico, Giovanni Terrizzano, mi disse: "La Legazione a Berna si
perde proprio in un bicchiere d'acqua. Campione è l'unico comune dell'Italia del
Nord completamente libero e dove sventola ancora il tricolore; basta emettere
una serie speciale di francobolli che sottolinei questo fatto e che avrebbe un
grande successo e Campione ne ricaverà tutti i mezzi necessari. Se volete mi
occupo io della faccenda, d'accordo con le Poste Svizzere e l'Associazione
filatelica Svizzera che potrebbero assicurare la regolarità dell'emissione".
Scrissi subito, in proposito, alla Legazione che, come al solito, rispose
picche, dicendo che la cosa non si poteva fare. Sennonché, dopo qualche mese,
uscirono i francobolli di Campione.
La Legazione aveva affidato la cosa a due funzionari senza prendere nessun
contatto o intesa con le Autorità svizzere od altri e fu subito scandalo.
I campionesi, la stampa, l'Associazione filatelica e lo
stesso Terrizzano si scatenarono e giustamente, perché i francobolli dopo
qualche ora non esistevano più! A quanto risultava, moltissime serie erano state
accaparrate dai due funzionari che fecero l'affare in proprio, mandando alle
stelle sul mercato filatelico il prezzo delle serie stesse e guadagnando così
indebitamente molto denaro!
Dopo la guerra, tornati in Italia, ci fu un'inchiesta pro forma, poi presto
sepolta, "more italico" e i due responsabili salirono ugualmente ai massimi
vertici della carriera!
Qualcosa di simile accadde per i due treni di materiale strategico che furono
sottratti senza ragione alla competenza dell'Addetto militare Generale Bianchi,
su richiesta del CLNAI, e affidati alle cure di funzionari civili. Per farla
breve ne conseguì che il materiale strategico, attraverso una società svizzera,
come previsto, finì per tornare in Germania, cosa che si doveva assolutamente
evitare. Le cattive lingue dissero che i nostri funzionari che trattarono la
cosa ne ebbero notevoli benefici.
Non per nulla mentre noi tiravamo la cinghia e vendevamo le nostre cose per
mantenere la famiglia, alcuni ben noti nostri colleghi se ne andavano a
spassarsela a St. Moritz nei migliori alberghi a sciare e divertirsi!
Cliccare sulle foto piccole per ingrandire
Arrivato nei Grigioni mi attendeva un grosso lavoro, ma ero contento perché,
essendo autonomo, potevo farlo di testa mia senza impedimenti burocratici. Erano
arrivati, e continuavano ad arrivare, migliaia e migliaia di profughi molti dei
quali israeliti che sfuggivano le persecuzioni naziste. Gli altri erano quasi
tutti montanari valtellinesi che avevano lasciato le famiglie in preda alla
miseria.
I mezzi per aiutarli erano quasi inesistenti: i soldi della Legazione
d'Italia andavano tutti a mantenere i politicanti del CLNAI. Si fece quello che
si poteva: più buone parole, purtroppo, che aiuti effettivi! Si organizzò in
Svizzera una Università italiana per non far perdere anni di studio ai giovani
rifugiati. Fu una delle migliori Università mai esistite; infatti la Facoltà di
giurisprudenza era diretta da Carnelutti, quella di Economia da Einaudi e quella
di Medicina dal famoso chirurgo Donati del Mauriziano di Torino, coadiuvati da
molti bravi assistenti.
In omaggio alle direttive di massima del Governo regio di collaborare con gli
Alleati, mi feci presentare dalla comune amica Wally Toscanini ad
Allen Dulles,
capo dell'OSS per la Svizzera e competente anche per l'Italia e la Germania. Non
volli invece
|
Allen
Welsh Dulles |
collaborare con gli inglesi che ci consideravano tuttora come
nemici e cercavano di ritardare al massimo la nostra rinascita fra l'altro
armando a tutto spiano solo i partigiani comunisti, come avevano fatto in
Jugoslavia.
Dissi a Dulles che ero pronto a collaborare, secondo le direttive del mio
Governo, aggiungendo però che non avrei collaborato se si trattava di armare i
gruppi partigiani comunisti, perché essi spesso non lottavano contro i tedeschi
ma contro gli italiani anche non fascisti. Dulles mi fece una predica piuttosto
paterna dicendo che io ero ancora succube della propaganda fascista che
considerava nemici i comunisti, ma invece essi erano cambiati (!). Infatti i
sovietici erano ora alleati degli americani e l'esercito rosso aveva ormai dei cappellani militari e gli
ufficiali portavano di nuovo le spalline (sic).
Il bravo Dulles da buon ingenuo americano aveva allora ancora
un'ottica alla Roosevelt il quale si stava facendo turlupinare dal più abile
Stalin. Risposi solamente: "Ve ne accorgerete, comunque vedremo chi ha ragione".
Allen Dulles non tardò a
ricredersi quando vide le
bande comuniste di Moscatelli
in Val d'Ossola fuggire senza combattere di fronte ad un attacco tedesco in
forze, lasciando nei guai i reparti democristiani dei due fratelli di Dio che
morirono ambedue sul posto combattendo valorosamente, accerchiati per la fuga di
Moscatelli.
I fratelli Di Dio (Alfredo e Antonio)Nati
a Palermo, Alfredo il 4 luglio 1920, Antonio il 17 marzo 1922, si trasferiscono
con la famiglia a Cremona nel 1928. Dopo gli studi, ginnasio per Alfredo, liceo
classico per Antonio, entrambi intraprendono la carriera militare. Alfredo entra
all’Accademia militare di Modena nel 1939 e diviene sottotenente del 1°
Reggimento Carristi stanziato a Vercelli. Antonio arriva invece a Modena nel
1941 ed è nominato sottotenente del 114° fanteria dislocato in Calabria. L’8
settembre Alfredo, che si trova a Novara, si reca dal comandante della
piazzaforte e chiede di organizzare l’opposizione ai tedeschi. Dopo il rifiuto
di quest’ultimo, sfugge all’arresto e, allontanatosi dalla cittadina,
costituisce un primo nucleo resistenziale nei pressi di Cavaglio. Antonio, nel
frattempo, dopo tre giorni di prigionia riesce a fuggire dal carcere di Parma;
si nasconde alcuni giorni in una casa e poi decide di trasferirsi in Piemonte
dove riesce a ricongiungersi ad Alfredo. Il gruppo dei due fratelli si fonde a
fine dicembre con il nucleo capitanato da Filippo Feltrami dando vita alla
"Brigata Patrioti Valstrona". Il comando della Brigata è assunto da Feltrami
mentre ad Alfredo Di Dio spettano le competenze militari e le funzioni di
reclutamento; Antonio è ufficiale d’ordinanza. A gennaio la formazione si
trasferisce in Val d’Ossola e Alfredo, inviato in missione a Milano, è arrestato
e trasferito nel carcere di Novara. Qui, apprende dai genitori la morte del
fratello Antonio e del comandante Beltrami avvenuta il 13 febbraio negli scontri
a fuoco presso Megolo. Rilasciato il 6 marzo, Alfredo riprende la sua attività
in Val Strona e dà successivamente vita ad una nuova formazione nell’Ossola, la
Brigata alpina d’assalto "Filippo Beltrami". Sono giorni di attività incessante.
Aristide Marchetti, un membro della sua formazione, lo ha così ricordato: "
Sembra un padre, ed è più giovane di noi. Sembra un riflessivo comandante ed è
più ardito di noi. Sembra il più gracile e non si riposa mai. E’ primo, sempre,
davanti a tutti, in ogni azione di rischio". Nella libera Repubblica
dell’Ossola, Alfredo, che ha da poco assunto il nome di battaglia "Marco",
comanda la divisione Valtoce, posizionata sulla linea fra il lago d’Orta e il
lago Maggiore. Durante l’attacco condotto contro la Repubblica partigiana da
tedeschi e militi della Rsi cade ferito a morte, il 12 ottobre, in un’imboscata
sulla strada che da Firno conduce a Canobbio. Nei giorni della Liberazione la
divisione "Di Dio" inquadrerà 22 mila partigiani. (a cura di Massimiliano
Tenconi)
http://www.storiaxxisecolo.it/biografieitalia/biografieitd.htm |
In un Paese ben ordinato quest'ultimo avrebbe dovuto essere fucilato nella
schiena per abbandono del campo di fronte al nemico; invece dopo la guerra dal
Governo De Gasperi-Togliatti fu insignito di medaglia d'oro al Valor Militare,
prostituendo così anche la nostra massima ricompensa al valore!
Ma sarà meglio che, per l'attività svolta con gli americani, lasci la parola
agli autori dei due volumi de "La Resistenza più lunga", Marco Fini e Franco Giannantoni, i quali descrivono quei fatti secondo le dichiarazioni che ebbi
occasione di fare a loro.
(M. Fini - F. Giannantoni, La Resistenza più lunga, SugarCo Edizioni,
Milano, 1984, Voi. 11, pagg. 79-81 ristampa 2008).
"Il canale fondamentale della mia attività in favore della Resistenza fu
quello con la sede dell'OSS a Berna di Allen W. Dulles con il quale avevo un
cordiale rapporto per l'amicizia comune che ci legava a Wally Toscanini. Con
Dulles mi incontrai ogni mese, alla presenza del suo assistente,
Gero von
Gaevernitz: luogo degli appuntamenti un ufficio commerciale a Zurigo, in realtà
la succursale della loro centrale informativa. L'argomento principale dei nostri
colloqui divenne subito l'aiuto da dare alle formazioni partigiane che agivano
in media ed alta Valtellina e nell'alto bresciano legate a "Giustizia e Libertà"
e alle "Fiamme Verdi". A Coira, attraverso l'opera appassionata e continua di
alcuni rappresentanti in Svizzera dei partigiani, fra cui Arturo Panizza, mi
erano giunte molte pressioni affinchè gli alleati americani effettuassero lanci
di materiali, viveri, armi. Dinanzi al crescere delle richieste, avevo informato
la Legazione di Berna, il cui settore militare era diretto dal generale Tancredi
Bianchi, dal colonnello Denari e, a Lugano, dal capitano dei carabinieri
Eugenio Piccardo, in
|
Charles Tracy Barnes |
Svizzera per il SIM ma ufficialmente viceconsole. Ma fu con Dulles che cercai di trovare una soluzione al problema anche se gli americani
avevano una pregiudiziale da superare, quella rappresentata dalla presenza
comunista nelle formazioni partigiane.
Le perplessità, secondo Dulles, erano collegate anche al fatto che i
comunisti avevano mostrato di combattere duramente più i partigiani non
inquadrati nelle loro formazioni che gli invasori tedeschi,
arrivando a
segnalare in qualche caso a questi ultimi gli avversari da eliminare. Gli
americani comunque esaminarono a fondo il problema e, per accertarsi meglio
della "linea" dei partigiani da aiutare, decisero di inviare un loro emissario,
il capitano Barnes dell'OSS, giovane avvocato di Baltimora, proveniente dai
comandi USA in Francia. Una "missione" che era una conferma del giudizio di Dulles e degli americani verso il CLNAI da loro considerato un ambiente di
chiacchiere. Meta della "missione" fu Livigno, dove mi recai clandestinamente ai
primi di febbraio per preparare il viaggio di Barnes e per informarmi delle
necessità delle formazioni. Barnes doveva valutare l'assoluta dedizione dei
partigiani a combattere per la liberazione dell'Italia a fianco degli alleati
senza favorire i comunisti. Il suo trasferimento fu piuttosto complesso perché
non era assolutamente in grado di muoversi sugli sci.
Il 26 febbraio 1945
raggiunsi l'Ospizio
Bernina con mia moglie, Marina degli Albizzi, Barnes e la
baronessa Adele Traxler Camerana al seguito dell'inviato americano come
interprete. Barnes fu trainato su una slitta dalla staffetta partigiana: i due
raggiunsero Livigno dove compirono la missione senza ostacoli, ricavandone
giudizi positivi sulla qualità degli uomini. L'ufficiale americano, subito dopo,
si mise in contatto con Caserta dove aveva
sede il Comando militare,
informandolo circa l'esito del viaggio. Era la conferma di quanto io avevo già
riferito più volte a Dulles, che i partigiani valtellinesi erano moderati,
inquadrati con caratteristiche militari.
I lanci non tardarono ad arrivare anche se i primi non furono
perfetti, sbagliando bersaglio. Erano viveri e vestiario. Poi giunsero le armi,
nello stesso momento in cui nella zona delle dighe erano scese le prime
"missioni" americane che si erano unite ai gruppi partigiani, disseminati sulla
montagna. Contemporaneamente sorsero iniziative parallele come quella degli
inglesi di creare una "Brigata dell'Ordine" (di cui fu informato il generale
Bianchi), incaricata di bilanciare la guerra privata dei comunisti che secondo
alcuni giudizi sarebbe esplosa dopo la Liberazione.
A Coira seguivo, nello stesso tempo, gli interessi degli italiani, ex
ufficiali e soldati internati e civili, esuli per motivi in gran parte politici.
A molti riuscii anche a garantire un lavoro. I
collegamenti con il CLNAI di Lugano erano limitati a qualche isolato rapporto
con
Gigino Battisti preoccupato di non vedere allentati i contatti con le
formazioni "Giustizia e Libertà" dell'alta Valtellina.
Posso dire che evitai personalmente di avere rapporti con il CLNAI di Lugano
perché era facile assistere ad incredibili fughe di notizie e, in una Lugano
zeppa di spie, questo era intollerabile.
Il clima nella zona di Coira era emblematico dell'intera Svizzera: si
sviluppava intensa la vita clandestina, staffette partigiane passavano più volte
il confine, nei campi degli internati una minoranza avrebbe desiderato far
ritorno in Italia per combattere.
Vivevo in una villetta con mia moglie ed i tre figli, tutti nati in Svizzera.
Ma ormai, pur in un panorama grigio, la vita fatta di stenti, si intravvedeva la
soluzione.
Nelle grandi aziende del nord Italia la produzione bellica era proseguita
anche se i ritmi si erano ridotti nettamente. Il fenomeno preoccupava comunque
gli americani. Secondo il loro giudizio era indispensabile stroncare anche gli
ultimi tentativi. Allen Dulles mi convocò d'urgenza a Zurigo nel febbraio 1945
riferendomi che per interrompere la collaborazione in atto fra l'industria
italiana ed il terzo Reich sarebbe stato possibile sabotare le dighe
valtellinesi che alimentavano, con l'energia elettrica prodotta, la produzione
bellica. Allen Dulles era perfettamente convinto che quel piano potesse
funzionare. Dopo un attimo di sbigottimento, ricordo che reagii con forza
sottolineando che sarebbe stata una strage. L'incontro divenne molto teso.
Dulles sottovalutava i rischi insiti in un'operazione di quel tipo. Da parte mia
affermai che in nessun caso avrei potuto collaborare ad un tale progetto. Per
tutta risposta il responsabile americano confermò che avrebbe fatto arrivare
degli aerosiluranti per colpire dall'alto gli obiettivi. Al termine trovammo un
accordo compromissorio: proposi di distruggere solo qualche traliccio che
trasportava energia elettrica, ottenendo in quel modo, con danni infinitamente
minori, l'identico risultato.
Dulles acconsenti. Ma per realizzare questo programma occorreva
dell'esplosivo che a Coira e in alta Valtellina non esisteva. Gli americani si
prestarono a fornirne, mettendo a disposizione una trentina di chili di plastico
ad Annemasse, una cittadina dell'alta Savoia, vicina a Ginevra, che io raggiunsi
usando un lasciapassare datomi da Dulles.
Viaggiai, ricordo, su una "Ford", attraversando l'intera Svizzera. Giunto a
destinazione, ritirai l'esplosivo che consegnai ai partigiani valtellinesi."
Cliccare sulle foto piccole per ingrandire
L'unico modo di venire incontro alle necessità dei nostri rifugiati era
quello di farli diventare normali lavoratori. Sapendo che vi era grande
necessità di mano d'opera, perché molti uomini validi erano stati richiamati
alle armi nell'esercito svizzero per ragioni di sicurezza, riuscii a combinare
un accordo con le Autorità del Cantone per cui esse avrebbero considerato i
rifugiati, se io avessi fornito loro il regolare passaporto, come lavoratori
immigrati e sarebbero pertanto stati remunerati regolarmente e non più trattati
come rifugiati.
Ne venivano per noi due utili conseguenze: i rifugiati che lavoravano
avrebbero potuto aiutare con i loro risparmi la famiglia nell'indigenza — per la
massima parte in Valtellina — e non avrebbero più gravato sul famoso "Conto
Italia" in cui erano addebitate tutte le spese di mantenimento dei rifugiati.
La Legazione a Berna, mossa come sempre dai politicanti inconcludenti e
rissosi del CLNAI, criticò l'accordo dicendo che sarei stato responsabile se dei
"nazifascisti" si fossero infiltrati tra i lavoratori. Risposi piuttosto
sgarbatamente che mi infischiavo solennemente della cosa e che ad ogni modo non
ritenevo che i "nazifascisti" sarebbero ricorsi ad arruolarsi per tagliare
boschi di montagna in inverno, a 20 gradi sotto zero!
Non avendo più moduli di passaporto ne feci stampare di speciali, temporanei,
che davo ai rifugiati lavoratori a soli 5 franchi svizzeri. Il ricavato mi
serviva per aiutare i rifugiati anziani che rimanevano nei campi, ai quali
potevo così fornire qualche modesto sussidio. Erano tutte decisioni, a rigore,
non legali, ma a tempi eccezionali misure eccezionali, data la latitanza del
Governo di Brindisi e della Legazione di Berna che doveva rappresentarlo.
La maggiore difficoltà consisteva nel fatto di conoscere, per rilasciare il
passaporto, la vera identità del richiedente in quanto parecchi avevano in tasca
più carte d'identità a nomi diversi che si erano fatti fare in Italia ritenendo
così di sfuggire meglio alle ricerche dei renitenti alla leva, bandite dal
governo di Salò.
Io pertanto, nei casi dubbi, fui costretto a richiedere che portassero in
Consolato quattro loro conoscenti che sotto giuramento dovevano compilare atto
notorio che ne definisse l'identità: dal lato formale pertanto ero a posto.
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Col. Edoardo Alessi |
Per fortuna venne la resa dei tedeschi e la fine delle ostilità e così si
potè sospendere l'operazione richiesta dagli alleati di sabotare gli impianti
elettrici valtellinesi, ma il massacro purtroppo non era terminato.
I comunisti che non avevano combattuto i tedeschi
assassinarono centinaia di migliaia di italiani, la maggior parte non fascisti
ma ostili al comunismo; fra questi fu assassinato il Tenente Colonnello dei
Carabinieri che comandava le "Fiamme Verdi" in Valtellina.
Mussolini aveva ridotto a tal punto l'Italia con la guerra da lui voluta e
l'alleanza con i tedeschi! Buon per lui che fu ucciso da italiani, anche se
comunisti, in espiazione delle sue colpe e non sottoposto alla gogna e alla
forza di un Tribunale tipo Norimberga dagli inglesi vendicativi. Questi intanto
in Italia assistevano senza battere ciglio alla strage dei cosiddetti fascisti
da parte dei partigiani comunisti che eliminavano tutti coloro che avrebbero
potuto opporsi al loro predominio. Tutti i capi comunisti - ancora rispettati in
Italia -
hanno le mani sporche di sangue innocente. Basti pensare che nella sola
provincia di Bergamo un medico demente criminale fece fuori una cinquantina di
disgraziati innocenti! Poi, preso dai rimorsi, si recò in Cina come missionario!
Solo là, i sopraggiunti maoisti gli fecero purgare molti suoi peccati.
SEGUE:
4)
Il dopo-guerra
PRECEDE:
1)
La Carriera Diplomatica: L'Esordio
2)
Il Patto d'acciaio e lo scoppio della guerra
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