4) IL DOPO GUERRA
Nei seguenti capitoli sono riportati brani dal volume
RICORDI DI UN
DIPLOMATICO - Dal Fascio allo sfascio, edito nel 1992 dalla casa Editrice S.
Marco di Trescore Balneario (BG), corredati da
fotografie personali e non, con collegamenti a siti web allo scopo di chiarire
ed ampliare la
conoscenza degli avvenimenti e dei personaggi citati.
4) Il rientro
in Italia
(pag 141 a pag. 146)
Si arrivò così al mese di Agosto e al rientro in Italia di tutti i
diplomatici italiani in Svizzera. Io mi rifiutai di rientrare col convoglio
ferroviario dei miei colleghi e con la mia macchina Ford e un lasciapassare
americano rientrai con la famiglia. La prima tappa fu Bergamo dove la casa di
campagna era stata requisita dal Prefetto del Governo di Salò e per questo a
guerra finita saccheggiata dai cosiddetti partigiani che sul posto erano
chiamati "grattigiani". Molta nostra roba fu salvata da una famiglia di onesti e
bravi contadini. Dopo aver sistemato la casa proseguimmo per Roma. Ci
accompagnava un tenente carrista della Divisione Legnano di Bergamo, armato di
tutto punto di mitra e di bombe a mano per difenderci da eventuali attacchi dei
"partigiani" comunisti trasformatisi in veri e propri briganti di strada.
Il mio cuore era stretto da una morsa nel vedere la distruzione subita dalle
nostre città ad opera degli "eroici" aviatori alleati che, come già detto,
preferivano gli attacchi alle città indifese piuttosto che attacchi ad obiettivi
militari e industriali per loro più pericolosi. Fatto sta che le industrie
italiane e tedesche alla fine della guerra erano ancora efficienti all'8o%,
mentre i morti nelle città distrutte si contavano a centinaia di migliaia.
Io temetti che il nostro Paese non si sarebbe più ripreso dalla immane
catastrofe.
Mussolini avrebbe veramente avuto poco da vantarsi per quello che aveva
provocato portando in guerra, contro le maggiori potenze mondiali, forze armate
prive assolutamente di ogni armamento moderno e con un popolo che non voleva
assolutamente la guerra.
L'unico vanto che avrebbe potuto menare era quello di aver notevolmente
contribuito alla fine dell'impero britannico, impero che era stato fondato da
mercanti di schiavi e mercanti di oppio.
Non si può infatti dimenticare che gli inglesi avevano riempito le Americhe
di negri schiavi da loro deportati e che avevano fatto una
guerra all'impero
cinese per imporre
l'importazione dell'oppio dall'India. Le maggiori famiglie
inglesi, compresa quella reale, dovevano le loro grandi ricchezze a questi turpi
traffici e allo sfruttamento spietato di una mano d'opera praticamente gratuita.
In minor grado la stessa cosa può dirsi degli imperi coloniali francese,
belga e olandese. Non tutti i colonizzatori erano come noi che pagavamo
debitamente i lavoratori di colore!
Gli inglesi poi avevano commesso vari errori, strani per una nazione che
aveva cinquecento anni di esperienza coloniale. Essi avevano arruolato nel loro
esercito, come carne da cannone per risparmiare il loro prezioso sangue, proprio
elementi dei popoli soggetti. Gli indigeni così avevano visto che in definitiva
essi erano combattenti migliori dei dominatori, con minori esigenze, maggior
resistenza e sprezzo della vita ed avevano così imparato a sentirsi forti e ad
esigere l'indipendenza. Con la sfida all'impero britannico da parte degli
italiani nella guerra etiopica e anche nella seconda guerra mondiale, avevano
inoltre notato che l'Inghilterra era anche vulnerabile e non invincibile.
Queste scoperte le dovevano in buona parte alla politica mussoliniana,
sennonché, impreparati, ne fecero cattivo uso dilaniandosi fra loro nelle lotte
tribali e di predominio, tanto che si può dire che i "popoli emergenti" stavano
forse meglio quando erano colonizzati!
Per l'Inghilterra, perduto l'impero e la mano d'opera a buon mercato,
cominciava la decadenza e una crisi economica oltre che morale che sembravano
perpetuarsi e divenire irreversibili nonostante i recenti sforzi dei governi
conservatori di raddrizzare le cose e la fortunata scoperta nel Mare del Nord di
ingenti depositi di petrolio che rendevano quel Paese autosufficiente in campo
energetico.
Tanto la Francia che l'Inghilterra erano cadute molto dall'alto e con più
gravi danni di noi e ridotte al rango di Potenze di secondo ordine. Sta di fatto
però che, nonostante fossero vincitori, dopo la guerra la loro arroganza e
sufficienza verso di noi (che facevano tanto andare in bestia Mussolini) erano
di molto calate. Forse la pazzia stessa da parte nostra di attaccare quasi
disarmati i più forti eserciti del mondo intero, aveva suscitato in loro qualche
rispetto!
Per fortuna comunque esisteva ancora la Monarchia che bene o male riuscì a
farci uscire dal conflitto in "articulo mortis", altrimenti Mussolini avrebbe
continuato la guerra come la Germania, sino alla distruzione completa.
Si è così avverato ancora una volta il fatto che l'Italia, pur se sconfitta,
finisce per distruggere e portare male ai suoi nemici, una specie di nemesi,
come era avvenuto con la distruzione del secolare impero Asburgico e dell'ultra
secolare dominio temporale dei Papi che avevano voluto opporsi alla nostra unità
e indipendenza.
Le immani distruzioni e la miseria che vedemmo al rientro in Italia ci
stringevano il cuore. Io non riuscivo a comprendere come Mussolini avesse
potuto distruggere l'opera svolta in circa vent'anni del suo governo, per
seguire una sciocca ideologia e un pazzo criminale che, da suo allievo, era
diventato suo maestro e che, oltretutto, era uno stupido.
Hitler aveva commesso tre fra i più grandi errori della storia:
1) l'aver condotto la guerra su due fronti, nonostante le insistenti
opposizioni dei suoi migliori generali e l'esperienza della Ia guerra
mondiale;
2) il criminale e immane massacro di milioni di ebrei.
Se li avesse espulsi in Bretagna o alla frontiera spagnola, se proprio non li
voleva, dicendo agli alleati occidentali di portarseli in Palestina o nel
Madagascar, avrebbe creato a questi ultimi un problema enorme e passato loro una
patata bollente che per ragioni umanitarie non avrebbero potuto evitare;
3) non avere istituito nei territori occupati un vero Stato libero di russi
bianchi, completamente autonomo e indipendente.
LA VICENDA DELLA "CORRIERA SCOMPARSA":
Nel maggio del 1945, il Vaticano mise a disposizione una
corriera della Pontificia commissione di assistenza per rendere possibile il rientro a casa di
una cinquantina di soldati grazie ad un lasciapassare del CLN. Il mezzo di
trasporto partì da Brescia ed era diretto in varie parti d'Italia, fino al Sud.
Si trattava in particolar modo di allievi della Scuola della GNR di Oderzo. Sul
mezzo fu issata la bandiera vaticana e così riuscì a raggiungere Mantova e,
attraverso il Po, giunse a San Benedetto Po. Il primo blocco ebbe luogo a
Bondanello, frazione di Moglia, da parte di un gruppo di partigiani della
polizia locale. Il secondo e ultimo blocco avvenne tra San Possidonio e
Concordia da parte di sette-otto partigiani armati. Questi scortarono
l'automezzo fino alla Villa Medici di Concordia, luogo in cui erano detenuti
alcuni prigionieri politici. Qualche passeggero fu lasciato andare, altri furono
arrestati. In seguito, la corriera scomparve e non si seppe più nulla dei
passeggeri poichè
la polizia partigiana eliminò decine e
decine di passeggeri, forse una sessantina, occultandone i cadaveri. Riaffiorati
casualmente a distanza di anni da terreni limitrofi provocarono un eloquente
intervento del quotidiano comunista "La Repubblica d'Italia" del 9 novembre '48:
«I cadaveri non ci sono, bisogna fabbricarli. Violate numerose tombe per trovare
salme da spacciare per quelle dei presunti giustiziati», insinuando piuttosto
che la chiave del mistero fosse nel Vaticano!
Solo dopo il processo tenuto presso la corte di Assise di Viterbo dal 15
dicembre 1950 al 15 gennaio 1951, si poté procedere ad una ricostruzione
dell'accaduto. Ai partigiani convenuti in veste di imputati furono contestati i
seguenti reati: concorso nel reato di sequestro continuato ed aggravato di
persona, concorso nel reato di omicidio aggravato continuato, concorso nel reato
di malversazione continuata. I capi della polizia partigiana riconosciuti
colpevoli furono condannati a 25 anni di reclusione ma ne scontarono solo 16.
Col passare degli anni furono ritrovate parecchie ossa appartenenti alle vittime
della strage della "Corriera fantasma" nelle campagne di San Possidonio. Fu
ritrovato anche il camion, seppellito in un podere di San Possidonio. Oggi, sul
punto del ritrovamento, vi sono un crocefisso e un piccolo monumento per
ricordare le vittime di questa discussa strage.
http://criminicomunisti.forumup.it/about1516-0-asc-15-criminicomunisti.html |
Continuando nel nostro viaggio verso Roma, dovemmo andare verso l'Adriatico
traversando il
triangolo della morte nella Romagna rossa dove quotidianamente
erano trucidati dei non comunisti, come ad esempio tutti i passeggeri di una
corriera della Pontificia Commissione di Assistenza. Su tutti gli altri
itinerari non esistevano più i ponti, mentre su quello che noi seguivamo fino
alla Via Flaminia erano stati sostituiti da ponti d'equipaggio militari.
Ma la fortuna maggiore per noi fu di incontrare in Romagna una colonna di
autocarri polacchi dell'esercito del
Gen. Anders che andava
verso Roma carica di soldati di quel disgraziato Paese straziato dai nazisti e
dai sovietici. Ci accodammo alla colonna, sicuri della loro protezione.
Dopo qualche chilometro incrociammo un corteo di comunisti con bandiere
rosse. I polacchi si fermarono e senza far motto
strapparono tutte le bandiere rosse e sputandoci sopra si misero con quelle a
pulire i vetri degli autocarri servendosene come stracci, senza che i comunisti
osassero reagire! Arrivammo così tranquillamente sino a Roma dopo aver trascorso
una notte in un albergo lasciato da poco dagli inglesi e pieno di cimici e di
pidocchi! I tedeschi — bisogna dirlo — nonostante tutto
erano più puliti!
Trovammo il nostro appartamento ancora occupato da un industriale a cui
l'avevamo affittato alla nostra partenza per la Svizzera con la "clausola
diplomatica": l'impegno cioè da parte sua di andarsene quando noi fossimo stati
richiamati a Roma. Egli però si rifiutava di sloggiare e noi fummo ospitati in
una casa di cari amici.
Roma era in uno stato spaventoso di disordine e di sporcizia, mancava
l'illuminazione pubblica e di notte ne accadevano di tutti i colori: rapine,
assassinii etc. Non c'era un ascensore che funzionasse. La Commissione alleata
di controllo, presieduta da una mezza figura, l'Ammiraglio americano Stone e da
un colonnello inglese che odiava l'Italia, lasciava mano libera ai comunisti e
non concludeva nulla. Il Governo, presieduto da Bonomi e poi da De Gasperi,
aveva problemi enormi ed era anche ostacolato dalla presenza dei comunisti:
l'Italia sembrava proprio allo sfascio con una situazione economica paurosa e
tutto da ricostruire.
MAURILIO
COPPINI. E’ nato a Firenze il 25 febbraio 1900 e si laurea in legge all’Università
di Roma nel luglio 1921. Entra in carriera diplomatica nel
1925. Viene destinato a Mosca nel 1926 e dal 1928 al 1931 è trasferito a
Charkoff. Nel 1931 è a Belgrado e nel 1933 rientra al Ministero nella Direzione
Generale Affari Politici. Nel 1935 viene destinato a Helsinki e nel 1940 è
Console aggiunto a Monaco di Baviera. Dal 1942 al 1944 è Console generale a
Odessa. Nel 1944 rientra in servizio al Ministero alla Direzione Generale
Affari Politici. Nel 1946 viene destinato a Vienna quale Rappresentante politico
e nel 1948 è trasferito a Zurigo con patenti di Console generale. Nel 1950 è in
servizio al Ministero quale Direttore Generale del Personale. Dal 1955 al 1958 è
Ambasciatore
a
Berna
e successivamente è ambasciatore a Tokio dove rimane dal 1958 al 1964. http://baldi.diplomacy.edu/ |
Soprattutto trionfava il mercato nero. Per fortuna
l'iniziativa privata, lasciata libera, resisteva e mirava alla ricostruzione del
Paese, cominciando dall'Industria. A Roma, senza autobus né filobus, si
circolava su delle scassate camionette private e così la vita riprendeva.
Al Ministero degli Esteri fui subito richiesto come collaboratore dell'allora
Consigliere d'Ambasciata e carissimo amico Maurilio Coppini che dirigeva
l'Ufficio II degli Affari Politici che si occupava dell'Europa orientale
comunista.
Imperversava però purtroppo il sottosegretario comunista
Eugenio Reale che
prima di darsi alla politica vendeva casse da morto a Capri. Era tuttavia il
Sottosegretario più intelligente e capace — per far danni — che avremmo mai
avuto. Reale era l'uomo cui si deve l'istituzione delle Società di comodo del
P.C.I. che ancora monopolizzano l'intermediazione per l'export-import fra
l'Italia e l'URSS e i Paesi comunisti; tutte le nostre industrie devono
ricorrere a queste Società di comodo se vogliono fare affari con quei Paesi e
che rendono centinaia di miliardi al nostro P.C.I. Sbagliano infatti coloro che
credono che l'URSS spenda soldi per aiutare i comunisti italiani: ha trovato,
invece, molto intelligentemente, il modo di farlo fare a tutti gli italiani,
sfruttando la dabbenaggine dei Governi democristiani che non sono mai stati
capaci di reagire!!
E poi gli italiani passano per dei furbi! Essi dovrebbero sapere ormai che
l'URSS non ha mai fornito aiuti o quattrini a nessuno. Regala solo armi ai vari
popoli perché si "scannino" fra di loro a maggior gloria del paradiso del
proletariato!
Il Sottosegretario Reale non mi prese certo in simpatia: ero rimasto reggente
dell'ufficio essendo stato Coppini destinato all'estero e avevo in consegna i
documenti riservati riguardanti le ricerche dei prigionieri italiani in Russia e
quelli riguardanti le foibe dove i Titini avevano massacrato migliaia di
italiani innocenti. L'On. Reale voleva avere copia dei documenti riservati, ma
io avevo l'ordine perentorio del Segretario Generale Franzoni di non
mostrarglieli assolutamente, perché troppi erano i suoi contatti con russi e
iugoslavi.
VITTORIO ZOPPI È nato a Novara il 23
febbraio 1898 e si laurea in giurisprudenza all’Università di Torino nel
dicembre 1921. Entra in carriera diplomatica nel 1923 e viene nominato Addetto
Consolare. Nello stesso anno è destinato a Monaco di Baviera. Nel 1925 viene
trasferito ad Algeri e nel 1927 a Bona. Nel 1928 è a Nairobi. Nel 1930 è ad
Addis Abeba con funzioni di Primo segretario. Nello stesso anno rientra al
Ministero. Nel 1939 è destinato a Madrid con funzioni di Consigliere. Nel 1942 è
trasferito a Parigi (distaccato a Vichy con funzioni di Console generale). Nello
stesso anno rientra nuovamente al Ministero. Nel 1943 è Vice Direttore generale
degli Affari d’Europa e del Mediterraneo e nel 1945 Direttore generale degli
Affari Politici. Nel 1948 è Segretario Generale del Ministero degli Esteri. Dal
1955 al 1961 è Ambasciatore a Londra. Dal 1961 al 1963 è Rappresentante
Permanente d’Italia presso le Nazioni Unite a New York.
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L'Ambasciatore Francesco Franzoni era l'uomo che ho più rispettato e venerato
dopo mio Padre; un grande gentiluomo, patriota e diplomatico di vecchio stampo
che teneva moltissimo alla serietà e alla dignità del Ministero degli Esteri.
Egli e Vittorio Zoppi, suo successore, sono stati gli ultimi due Segretari
Generali degni di questo nome. Quelli che sono succeduti sono stati solo per lo
più dei passacarte e degli "yes man" succubi delle influenze dei partiti
politici.
Come detto sopra l'On. Reale mi detestava e quando venne il momento delle promozioni e lui
presiedeva la Commissione di avanzamento per delega del Ministro Sforza, voleva
farmela pagare! Quando nello scrutinio si arrivò al mio nome il Sottosegretario disse:
"Questo è impromovibile". I miei diretti superiori,
direttori generali tra cui il mio capo Direttore Generale Magistrati,
spaventati, non fiatarono per quanto mi conoscessero molto bene. Solo il
Ministro Prina Ricotti, feroce anticomunista così come fiero antifascista, osò
chiedere la ragione della impromovibilità, anche se non mi conosceva affatto,
insistendo perché detta ragione, come di dovere, fosse inserita nel verbale. Il
Ministro Ricotti, amico e rappresentante di Sforza, addetto alla Ambasciata a
Parigi si era dimesso dal grado e dall'impiego all'avvento del fascismo
nel 1922 dopo la "Marcia su Roma".
L'On. Reale, intimorito dalla richiesta inusitata per quanto giusta e logica,
lasciò cadere la cosa e io pertanto fui promosso Segretario di Legazione,
guadagnando anzi molti punti sui miei colleghi! Ciò dimostra come avvengono le
promozioni dei funzionari nella bella Italia Repubblicana!
Due giorni dopo vidi arrivare al 4° piano di Palazzo Chigi dopo aver fatto
zoppicando (aveva una gamba rigida) tutte le lunghe scale a piedi, perché gli
ascensori ancora non funzionavano, un anziano signore molto elegante che mi si
presentò dicendo che era il Ministro Ricotti. Gli domandai in cosa potevo
essergli utile e quello mi rispose dicendo che voleva solo guardare che faccia
avevo! Pensai che fosse matto e raccontai la cosa al mio vecchio amico e collega
che stava al "Personale" e gli chiesi una spiegazione. Si mise a ridere e mi
raccontò come fosse andata per me in "Consiglio di Amministrazione"
congratulandosi per la promozione che mi aveva fatto guadagnare molti posti.
Missione a Lipari
(pag 147 a pag. 149)
Nella mia funzione di reggente dell'Ufficio Politico dell'Europa orientale,
dovetti andare al campo di internamento di Lipari, ove erano raccolti quattro o
cinquecento russi bianchi e cosacchi
che avevano combattuto nell'esercito di
Vlasov contro l'URSS. Dovevo accompagnare una delegazione di ufficiali della
Ambasciata sovietica a Roma che volevano far rimpatriare i disgraziati per poi
massacrarli, come avevano fatto dei sei o settemila prigionieri consegnati loro
dagli inglesi per ordine di
Mac Millan, rappresentante del Governo britannico in
seno al Comando alleato.
Noi, per quanto avessimo perso la guerra, non volevamo certo seguire
l'esempio degli inglesi, perché sentivamo di appartenere ad un Paese civile.
Dovetti così partire per Lipari su una "Alfa" del Ministero — i treni ancora non
funzionavano perché mancavano molti ponti — con due ufficiali sovietici e un
interprete italiano — more solito — senza aver ricevuto alcuna istruzione dal
Ministero in quanto i miei superiori non volevano compromettersi e io dovevo
arrangiarmi e caricarmi eventualmente di tutte le responsabilità, dato che i
predetti superiori erano pronti a sconfessarmi se qualcosa fosse andato male.
Il viaggio sulle strade dissestate fu piuttosto movimentato e scomodo — tra
l'altro fummo sorpresi da una forte nevicata a Vallo di Lucania e dovemmo
fermarci in una casa di contadini mangiando pane raffermo e formaggi di pecora;
non c'erano infatti alberghi né ristoranti. Come Dio volle arrivammo a Lipari
dove fummo ricevuti dal Comandante del Campo profughi, un commissario di polizia
che soffriva terribilmente di foto allergia e pertanto doveva girare tutto
intabarrato con pastrano, sciarpa nera che gli copriva il volto, guanti,
occhiali e cappello nero — sembrava il bandito Giuliano — e così conciato
seminava il terrore fra gli ospiti del campo. Contrariamente all'apparenza era
una bravissima persona che salvò dai russi tutti gli internati più compromessi
ai loro occhi.
Feci subito radunare quegli uomini e tenni loro un discorsetto tradotto frase
per frase dall'interprete. Dissi semplicemente che le Autorità sovietiche
volevano rimpatriarli ma che la legge italiana vietava il rimpatrio forzato.
Pertanto chi voleva tornare in Russia doveva firmarmi una dichiarazione
attestante che lo faceva di sua spontanea volontà. Tutti tirarono un respiro di
sollievo: uno solo chiese di rimpatriare, forse era la spia che informava i
sovieti ci su chi era presente nel campo.
Nonostante le grandi misure prese, perché nei giorni precedenti in un campo
di Jugoslavi era stato ucciso a sassate il Console jugoslavo che voleva
rimpatriarli, ci fu un piccolo incidente: un ex capitano dell'
esercito di Vlasov
sputò addosso al generale sovietico dicendo che i comunisti erano tutti
assassini e che avevano ucciso suo padre che era un pope e anche sua madre e per
questo egli era passato all'opposizione. Il generale sovietico non si scompose e
disse minaccioso: "L'URSS sa raggiungere ovunque i suoi nemici"!
Feci un altro discorsetto dicendo che purtroppo in Italia non c'era lavoro
per tutti, ma potevano restare nel campo sino all'eventuale concessione, che
stavamo cercando di ottenere, di visti di immigrazione per USA, Canada,
Australia etc.
Il viaggio di ritorno con i sovietici, seccati dall'insuccesso della loro
missione, fu altrettanto movimentato, ma divertente. Il giorno della partenza il
capo della cellula comunista di Lipari venne ad invitare i compagni sovietici ad
un trattenimento in loro onore. Il suo cortese invito, con mia grande
soddisfazione, ricevette come risposta uno sgarbato "niet" del generale
sovietico che denotò la stima che egli aveva dei "compagni occidentali"!
Sulla via del ritorno dovemmo fermarci a far benzina all'unica pompa
disponibile in un paesino della Calabria. Fummo subito attorniati da una folla
di contadini curiosi, data la novità di un'auto che passava per il loro paese.
Cercarono di capire chi fossimo, vedendo degli ufficiali col "battle dress"
americano. Una donna più intelligente però notò la stella rossa sul berretto dei
sovietici e cominciò a urlare: "sono russi! Assassini, ridateci i nostri figli
che tenete prigionieri!" Fu subito un parapiglia ed io che certo non volevo
buscare delle legnate al posto dei "russi", rifeci salire rapidamente tutti in
auto e dissi ai sovietici: "Vedete come vi amano i proletari italiani?"
Intanto tutti noi funzionari avevamo dovuto passare all'esame della
Commissione di epurazione che doveva soppesare i nostri... trascorsi fascisti.
La Commissione, come d'altronde l'altra similare di inchiesta sui
"profitti di regime", non trovò assolutamente nulla o quasi: l'unico che pagò
per tutti fu l'onestissimo cassiere del Ministero perché era stato "Marcia su
Roma" e "sciarpa littorio"! Fu sostituito con un altro che era stato partigiano
e benemerito della "resistenza" il quale trovò subito modo di speculare. Egli
infatti riceveva dal Tesoro l'ammontare degli stipendi di tutti i funzionari e
MASSIMO MAGISTRATI.
È nato a Gallarate (Varese) il 5
luglio 1899. Si laurea in giurisprudenza all’ Università di Roma il 23 aprile
1921. Nel 1923 viene nominato Consigliere coloniale aggiunto. Entra in carriera
diplomatica nel 1925. Nello stesso anno viene destinato a Pechino e nel 1927
reggente il Consolato di Tientsin. Nel 1927 è trasferito a Rio de Janeiro dove
rimane fino al 1929 quando rientra al Ministero. Nel 1931 è Console Generale ad
Algeri. Dal 1933 al 1940 è a Berlino. Nel 1940 viene trasferito a Sofia, 1940 e
nel 1943 è a Berna. Nel 1950 è al Ministero come Capo del Servizio Cooperazione
Europea. Dal 1954 al 1961 è Direttore Generale degli Affari Politici. Dal 1961
al 1964 è Ambasciatore al Cairo.
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LEONARDO VITETTI.
È nato a Gerace Marina il 15 dicembre 1894 e si è laureato in Giurisprudenza nel
luglio del 1922. Entra in carriera diplomatica, in seguito a concorso, nel 1923.
Nel 1925 viene destinato all’Ambasciata a Washington dove rimane fino al 1930
quando rientra al Ministero. Nel 1932 viene trasferito all’Ambasciata a Londra.
Rientra al Ministero nel 1936 come Direttore generale degli Affari Generali e
nel 1942 diventa Direttore generale degli Affari Europa e Mediterraneo. Nel 1955
viene nominato Rappresentante permanente presso O.E.C.E. e nel 1956
Rappresentante Permanente presso l’ONU. Nel 1958 è Ambasciatore a Parigi dove
rimane fino al giugno del 1961, pur essendo stato collocato formalmente a riposo
nel gennaio 1960. Muore il 14 maggio 1973.
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doveva versare l'importo, per quelli che erano all'estero, sui rispettivi C/C
intestati agli Agenti diplomatici all'estero, presso la sede centrale della
Banca d'Italia. Il cassiere disonesto tratteneva il denaro per alcune settimane
e ci giocava in Borsa; se qualcuno si lamentava dei ritardi nei versamenti egli
ne accusava il Tesoro che invece era sempre puntualissimo. Tutto andò bene fino
a che la Borsa era in rialzo, quando invece ci fu un forte ribasso nelle
quotazioni egli non potè rifondere il denaro e fu scoperto. A me rubò quattro
mensilità di stipendio. Chiesi al Ministero di rifondarmele, accusandolo di
"culpa in eligendo et in vigilando". Non risposero nemmeno, né a me né agli
altri danneggiati!
I due funzionari più compromessi con la politica estera del passato
regime, Magistrati e
Vitetti, uomini di Ciano, temettero di essere colpiti dalla
Commissione di epurazione e si dimisero dal grado e dall'impiego. Quale fu pertanto la nostra sorpresa quando li vedemmo tornare al Ministero
qualche mese dopo con importantissimi incarichi! Infatti chi si dimette di sua
volontà da una carriera non vi può tornare in alcun modo. Si disse che erano
rientrati per opera della Massoneria. Infatti la setta già colpita dal Fascismo
era tornata pienamente in auge con la cosiddetta democrazia.
A Palazzo Chigi il Capo della Segreteria di
Sforza, un ebreo parente di un
camiciaio di Piazza Montecitorio, faceva opera di proselitismo fra i giovani
diplomatici, facendo loro balenare la possibilità di un'ottima carriera se si
iscrivevano alla Setta.
Il trasferimento presso l'Ufficio I
(pag 149 a pag. 150)
Ero stato intanto trasferito quale reggente dell'Ufficio I, il più importante
della Direzione Generale Affari Politici, perché si occupava dell'Europa
Occidentale e del Nord America. Qui ebbi subito due incidenti che mi riempirono
di soddisfazione.
Rientrando un giorno al mio ufficio dopo essere sceso al 1° piano per il
rapporto con il Direttore Generale, trovai due ufficiali inglesi della
Commissione alleata di controllo "spaparanzati" sul mio divano col
berretto in testa e la pipa in bocca. Non proferii una parola, ma chiamai
l'usciere e gli dissi di far uscire quei maleducati. A queste parole i due, che
capivano perfettamente l'italiano, scattarono in piedi, si tolsero il berretto e
la pipa e si scusarono dicendo che erano abituati a comportarsi così col mio
predecessore. Risposi che con me, invece, bisognava farsi annunciare e
presentarsi come si usa in tutti gli eserciti.
Ho sempre ritenuto che con gli Inglesi, con i Tedeschi e con i Russi quando
si ha ragione e loro hanno torto bisogna essere durissimi, altrimenti ci
considerano una razza inferiore. Infatti anche qui andò benissimo e dopo il
primo incidente diventammo molto amici e ci intendemmo perfettamente.
È il 1929 e Papa Pio XI su suggerimento di
padre Michel d’Herbigny, fonda il
Collegium Russicum volto alla preparazione
di giovani preti da inviare nell'URSS dove l'ideologia comunista aveva eliminato
tutte le gerarchie ecclesiastiche. |
Il secondo incidente occorse con un Monsignore francese del
"Russicum'' il
quale entrò nel mio ufficio e apostrofandomi in modo alquanto villano, incolpava
il Governo italiano di consegnare ai sovietici i profughi russi anticomunisti.
Lo misi senza complimenti alla porta dicendo che si rivolgesse ai suoi cari
amici Inglesi che avevano consegnato ai sovietici circa 30.000
cosacchi del Gen. Vlasov fatti prigionieri in Italia e, in particolar modo, al Ministro Mac Millan,
rappresentante del Governo britannico presso le F.F.A.A. alleate che aveva dato
l'ordine criminale, contrario alle leggi della umanità e del diritto
internazionale, in quanto tutti erano stati massacrati dalla polizia sovietica,
commettendo così un vero e proprio genocidio.
La ricostruzione del Paese procedeva da noi ad un ritmo veramente ammirevole
per merito soprattutto del Governo De Gasperi che aveva lasciato completamente
libera l'iniziativa privata la quale ebbe modo così di dare la misura della sua
grandissima capacità, e degli aiuti americani del Piano Marshall che fornirono
all'industria i mezzi per ripartire.
L'Italia, uno dei Paesi più devastati dalla guerra, era il primo a risorgere
in modo impensato, compiendo quello che fu chiamato il "miracolo economico
italiano". Solo nel Sud, ove l'iniziativa e la tenacia facevano più difetto in
quanto quelle popolazioni si aspettano che tutto sia sempre fatto dal Governo o
da altri, permasero più a lungo visibili le piaghe della guerra.
Funzionario di collegamento presso il Quirinale
(pag 151 a pag. 165)
Un giorno dell'inverno 1946 fui chiamato dal Capo del Personale, Ministro
Baldoni, il quale mi domandò se ero disposto ad andare al Quirinale quale
funzionario di collegamento col nostro Ministero, in quanto colui che copriva
quell'incarico, all'annunzio del prossimo infausto referendum istituzionale, si
era fatto trasferire all'estero.
Risposi subito di sì a condizione di non vestire l'uniforme militare come il
mio predecessore perché, dovendo lavorare nell'ufficio del Primo aiutante di
campo generale come semplice tenente, sarei stato messo sotto i piedi da tutti.
Mi disse che avevo ragione e così andai a presentarmi al Generale Infante il
quale aveva avuto un men che mediocre passato di guerra in Libia ed in Albania
ed era stato imposto dal Governo — in quanto repubblicaneggiante — al
Principe
Umberto, Luogotenente Generale del Regno, che non lo voleva.
La prima domanda che mi fece il Generale fu se sapevo adoperare le armi in
caso di sommossa e di assalto al palazzo e mi fece vedere dove teneva
Dal SITO ANPI: LA DIVISIONE PINEROLO
comandata dal generale Adolfo Infante, era dislocata in Tessaglia e
poteva contare su 23.000 uomini, con i reggimenti di supporto Lancieri di Aosta
e Milano. All'indomani dell'8 settembre rifiutò di consegnarsi ai tedeschi e
rispose con il fuoco all’intimazione di cedere l’aeroporto di Larissa. Resosi
però conto del disfacimento delle altre divisioni italiane, il generale Infante
si avviò con circa 8.000 uomini verso la regione montuosa del Pindo, dove
stipulò un patto di cooperazione con i partigiani greci su avallo della missione
inglese. Seguirono diversi cruenti scontri con i tedeschi, ma i rapporti con le
formazioni comuniste dell’Elas purtroppo si incrinarono presto. Fu così che le
truppe italiane della montagna vennero prima frazionate e poi disarmate dall’Elas
e, dopo un’inutile resistenza, internate in tre campi di concentramento: a
Grevenà, nella Macedonia greca, a Neraida in Tessaglia, a Karpenision nel Pindo.
In questi campi alcune migliaia di militari italiani persero la vita per
malattie, e stenti e in seguito ai rastrellamenti dei tedeschi, che non
risparmiarono neppure i malati e i feriti trovati nei loro giacigli. Anche Il 3°
reggimento granatieri, fu rapidamente disarmato ed i suoi uomini avviati ai
lager tedeschi. Alcuni, però, si ribellarono a quella sorte e tentarono di
unirsi ai partigiani greci o di raggiungere quelle poche unità italiane, facenti
capo alla divisione "Pinerolo", che resistevano in armi ai tedeschi. Tragico
destino anche per il battaglione Complementi che vide i suoi uomini divisi tra i
lager nazisti e le esecuzioni sommarie perpetrate dai partigiani comunisti di
Tito. |
due mitra con molti
caricatori e varie bombe a mano.
Risposi che ritenevo di non doverle
usare a Palazzo Reale, ma che comunque ero tenente dei Granatieri e come tale le
sapevo adoperare e abbastanza bene. La domanda mi diede subito l'impressione che
fosse un fifone e ne ebbi conferma in quanto non accompagnava mai il Principe
nelle sue visite ai posti ritenuti "caldi", ma lo faceva scortare sempre
dall'Aiutante di campo in IIa, Generale dell'Aviazione Cassiani Ingoni, il quale,
al contrario, proprio non sapeva cosa fosse il pericolo.
Il mio compito era quello di sottoporre al Luogotenente
le numerose richieste
di udienza e di fissarne la data e inoltre di portargli, ed eventualmente
illustrargli i telegrammi ed i rapporti dall'estero che il Ministero riteneva di
fargli vedere. Ebbi modo così di notare che il Principe era un uomo capace, di
pronta e vivace intelligenza e di notevole cultura che si teneva molto bene
informato di tutto. Sarebbe stato un ottimo Capo dello Stato anche come
Presidente della Repubblica — certo migliore di molti suoi successori!
La sola cosa che mi colpì e mi preoccupò fu la sua rassegnazione su ciò che
il futuro gli riservava. Era un vero Cireneo che portava la croce per peccati
non suoi.
Col tempo ebbi modo di vedere come le sole persone capaci ed efficienti della
Casa Militare, soprattutto dal punto di vista politico, erano il Contrammiraglio
Garofalo, che poi conobbi meglio divenendone buon amico in Argentina, e il Ten.
Col. d'Artiglieria, Giuseppe Margaritondo.
I compiti che allora svolgevo erano quelli che nella nostra Repubblica
spendacciona e inflazionata competono a colui che è pomposamente chiamato il
Consigliere diplomatico del Presidente della Repubblica, che ha il grado di
Ministro Plenipotenziario di I o II classe, coadiuvato da uno staff di due o tre
altri funzionari, da numerosi impiegati e con tre o quattro macchine di
servizio.
Io non ero ancora Segretario di Legazione e solo quando facevo tardi ero
riaccompagnato a casa da una motocarrozzetta militare. Avevo come unico
collaboratore un caporale dell'esercito, dattilografo!
Come si vede la Monarchia era molto più economa e seria! Oggi i funzionari
del Consigliere diplomatico, essendo numerosi e avendo poco da fare, sono spesso
portati ad occuparsi di pettegolezzi, intrighi ed intrallazzi politici.
Il Presidente
De Gasperi mentre era molto ossequiente in presenza del
Luogotenente, quand'era fuori dal Quirinale lavorava in favore della Repubblica,
fortemente coadiuvato in questa opera poco lungimirante, dal pro-Segretario di
Stato della Santa Sede
Mons. Montini che pare svolgesse tale attività di
nascosto dal
Santo Padre Pio
XII che era invece, e più
intelligentemente, a favore della Monarchia. La cosa continuò fino a quando
Mons. Montini inviò — pare senza informare il Papa — la famosa circolare ai
Vescovi invitandoli a far votare per la Repubblica.
La fissazione repubblicana era una manìa di molti democristiani di centro e
di sinistra ed infatti essi costituirono, con i comunisti, il maggior numero di
voti per la Repubblica al referendum costituzionale. In molti di loro c'era
ancora l'intenzione, invero poco cristiana, di una vendetta contro la breccia di
Porta Pia e la famiglia reale che l'aveva provocata!
Era questo un atteggiamento antirisorgimentale e addirittura antinazionale
che si ritrova in molti atti della D.C. che non riuscì mai a comprendere che con
un pizzico, non dico di nazionalismo ma di patriottismo nel suo programma,
avrebbe ottenuto una permanente maggioranza assoluta in Parlamento!
I democristiani non compresero nemmeno che, abbattuta la Monarchia, i
comunisti avrebbero allungato il tiro e colpito il Vaticano, come difatti
avvenne. Purtroppo di fronte a tale miopia non c'era nulla da fare.
Data la situazione, l'Ammiraglio Garofalo fece un estremo tentativo: prendere
per le corna
Nenni. Gli fece comprendere che la Repubblica in Italia avrebbe
potuto solo essere clericale o comunista, due cose che non potevano piacere ai
Socialisti; la Monarchia invece avrebbe potuto ben convivere con il Socialismo
moderato, come avveniva in Gran Bretagna e nei Paesi scandinavi e gli fece anche
comprendere che se non avesse lottato contro la Monarchia avrebbe potuto essere
nominato Presidente del Consiglio al posto di De Gasperi, cosa alla quale Nenni
ambiva moltissimo.
Il leader socialista che aveva capito la verità fondamentale del discorso,
aveva abboccato; in un secondo tempo poi, preso in giro dai giornalisti che
avevano notato la sua frequentazione del Quirinale, riprese a fare il demagogo.
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Alcide De Gasperi |
Papa
Pacelli -
Pio XII |
Papa
Montini -
Paolo VI
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Pietro Nenni |
Umberto di Savoia |
Intanto cercavamo tra mille difficoltà di ravvivare la propaganda monarchica,
nonostante la mancanza di mezzi. Io mi diedi da fare per ottenere quattrini da
amici dell'aristocrazia romana ma, data la spilorceria generale, ebbi
scarsissimo successo. Il massimo che riuscii ad ottenere da un principe romano
furono diecimila lire! Pochine anche per allora, se si pensa che un manifesto di
un metro quadrato, posto in opera, veniva a costare almeno mille lire!
Si andava così verso il referendum imposto al Luogotenente dal Governo De
Gasperi e dalle sinistre fortemente appoggiate dai Governi anglosassoni
vincitori, ancora succubi di Stalin e delle ideologie abilmente propagandate dai
marxisti. Il referendum era già invalidato perché non potevano votare un milione
e mezzo di prigionieri e le popolazioni di Trieste e della Venezia-Giulia, oltre
che per le intimidazioni di cui i monarchici venivano fatti continuamente
oggetto sotto gli occhi delle Autorità alleate che forse volevano indebolire
ancora più l'Italia o che erano assolutamente miopi per ciò che sarebbe potuto
avvenire.
Il ritardo di Vittorio Emanuele nell'abdicare aggravava ancora di più le
cose.
Soprattutto stupiva l'atteggiamento di un governo monarchico come quello
britannico che si serviva come ricatto del minaccioso atteggiamento di Tito e
sembrava voler riservare al nostro Paese un avvenire marxista a tutto vantaggio
dell'URSS.
Intanto il tempo passava e la ricostruzione del Paese e il miglioramento
generale — meriti maggiori del Governo De Gasperi — procedevano rapidissimi.
Purtroppo insieme procedeva anche la corruzione dei poteri pubblici e della
vita politica. De Gasperi personalmente onestissimo, come pochi altri, non
riusciva a scegliere bene i collaboratori e si stava anche scaldando in seno
alcuni uomini della sinistra D.C., tra i quali i due ex fascisti Fanfani e Moro,
che gli avrebbero dato il calcio dell'asino riuscendo alla fine ad escluderlo
dal Governo e facendolo quasi morire di crepacuore. I
politici democristiani e socialisti venivano da una piccola borghesia famelica
di potere e di denaro e ritenevano lo Stato la vacca da mungere che doveva
arricchire tutti: molti quindi dettero l'assalto alla diligenza del potere come
briganti della gran via!
Noi diplomatici di carriera, che eravamo già stati danneggiati dal Fascismo,
ci riunimmo in un Sindacato per la difesa dei nostri interessi. Anch'io facevo
parte dei dirigenti del Sindacato e chiedemmo di essere ricevuti dal Ministro
che allora era De Gasperi. Egli ci fece attendere vari mesi, poi ci ricevette
piuttosto sgarbatamente tenendoci in piedi.
Gli dicemmo che tra noi non c'era nessun Richelieu e nessun Talleyrand ma
che, modestamente ritenevamo di conoscere abbastanza bene il mestiere e
reputavamo di poter essere ancora utili a servire il Paese e quindi non
comprendevamo perché ci dovessero sempre essere anteposte delle persone meno
competenti. Ci rispose seccamente che egli, tra i competenti che avevano servito
il fascismo e gli incompetenti che non erano mai stati fascisti, preferiva
questi ultimi e ci salutò.
Fu certamente questo suo antifascismo viscerale che gli fece commettere
errori specie nella scelta degli uomini; alcuni di questi errori furono corretti
in parte dalla moderazione del suo braccio destro Sottosegretario alla
Presidenza, giovanissimo, ma molto intelligente, l'On. Giulio Andreotti.
Uno dei fatti importanti di quel tempo fu la conclusione a Parigi
dell' accordo De Gasperi-Grüber sull'Alto Adige. Non ascoltando i pareri del
Ministro degli Affari Esteri né del Consiglio di Stato, egli firmò un accordo,
scritto veramente con i piedi, che si prestava a interpretazioni contrastanti e
che non diceva nemmeno quale dei due testi — l'italiano o il tedesco — facesse
fede. De Gasperi si fidava della parola di
Grüber che effettivamente era
un'onestissima persona, ma che fu presto sostituito e i suoi successori
giocarono a loro vantaggio sulle varie interpretazioni cui si prestavano i due
testi.
Bisogna dire che l'accordo era assolutamente necessario e forse
provvidenziale perché altrimenti gli Inglesi avrebbero fatto di tutto per cedere
l'Alto Adige all'Austria che scioccamene prediligevano rispetto all'Italia
ex-nemica, trascurando il fatto che detto Paese era stato una delle roccaforti
di Hitler.
La dabbenaggine dei nostri successivi Ministri degli Esteri e dei Partiti al
potere fecero sì che le concessioni agli Alto Atesini si estendessero sempre
più, violando in pieno la Costituzione in quanto crearono dei supercittadini
privilegiati a scapito dei veri italiani del resto del Paese, questi ultimi,
addirittura, pagavano più imposte di quelli di lingua tedesca, favoriti in tutti
i modi.
Ma lo sbaglio maggiore dell'accordo fu quello di riammettere in Italia gli
Alto Atesini che da veri nazisti avevano optato, al momento dell'accordo
Mussolini-Hitler, per il "grande Reich" ottenendo larghi indennizzi per i beni
che lasciavano in Italia. Essi riottennero la cittadinanza italiana e la
restituzione delle loro proprietà senza riversare l'indennizzo che avevano
ottenuto, essendo così ripagati due volte. Invece di provare gratitudine per la
liberalità italiana si coalizzarono in un nido di serpi contro di noi, perché ci
considerarono dei deboli.
Tutto ciò era dovuto alle illusioni della Democrazia Cristiana maniaca di
disfare tutto quello (anche quel po' di bene) che aveva fatto il fascismo.
GIUSEPPE ROMITA
Ingegnere, fece vita politica attiva nelle file socialiste finché il
Fascismo lo costrinse al confino; tornato libero, entrò nel Comitato di
Liberazione Nazionale. Alla fine della guerra ebbe incarichi governativi: come
ministro degli Interni ebbe la responsabilità del regolare svolgimento del
referendum monarchia-repubblica il 2 giugno 1946. |
Si stava arrivando frattanto al referendum istituzionale con la vittoria di
stretta misura del voto repubblicano, aiutato dai brogli e intrallazzi dei
collaboratori del Ministro socialista degli Interni, Romita (uno dei suoi
segretari di Partito si vantava tra i fumi del vino al ristorante Libotte di
Roma, di aver fatto gettare nel Tevere interi pacchi di schede monarchiche).
I brogli erano tanto palesi che la Corte di Cassazione non si decideva
a ratificare l'esito della votazione e allora il governo De Gasperi, compiendo
una specie di larvato colpo di Stato, proclamò la Repubblica con De Gasperi
stesso capo provvisorio.
Umberto, che da un mese aveva assunto il titolo di Re per l'abdicazione del
padre e che non voleva conflitti e spargimento di sangue fra italiani, decise di
partire in esilio senza però rinunciare effettivamente al trono.
Io, che ho sempre ritenuto che un re qualunque sia da preferire a un ottimo
Presidente, perché non proviene da nessun Partito, ero molto preoccupato per il
nostro avvenire.
Il re diede un addio a noi suoi collaboratori con un nobilissimo discorso in
cui ci ringraziava del lavoro prestato, ci liberava dal giuramento di fedeltà
alla sua persona e alla Dinastia, invitandoci a restare al servizio dello Stato
in quanto i monarchici dovevano essere anche in avvenire i migliori cittadini e
i più fedeli servitori della Patria.
Io prevedevo giorni tristi per l'Italia a causa di tutti gli arrivisti e gli
uomini politici cialtroni che si facevano avanti e per colpa del complesso di
inferiorità dei democristiani che cedevano ad ogni richiesta dei comunisti.
I democristiani e i socialisti avevano voluto la Repubblica non tanto
per convinzioni politiche o filosofiche, ma soprattutto perché ognuno di loro,
senza eccezione alcuna, aveva l'ambizione di diventare un giorno Presidente
della Repubblica. Questa si affrettò a premiare i falsari della votazione
facendoli assurgere ad alti gradi. Forse voleva impedire che gli scontenti si
vendicassero, rivelando le origini di questa Repubblica.
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De Courten |
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Raffaele Cadorna |
Le mie ultime incombenze al Quirinale furono di tener lontani dal Re, con
vari pretesti, l'Ammiraglio De Courten, Ministro della Marina, il Generale
Raffaele Cadorna e l'Ambasciatore (politico) in Spagna
Tommaso Gallarati Scotti che volevano ossequiarlo e che lui non voleva assolutamente vedere in quanto
riteneva che avessero tenuto i piedi in due scarpe, atteggiandosi, prima ancora
dell'avvento della Repubblica, a repubblicani.
Accompagnai il Re sino all'aereo militare che da Ciampino lo portava in
esilio. Qui, dietro suo ordine, feci scaricare dal suo aereo da un aviere le
valigie dell'Ambasciatore Gallarati Scotti il quale, ritenendo che il Re andasse
in Spagna, voleva accompagnarlo; ma il Sovrano anche allora non volle vederlo né
stringergli la mano perché quale Ambasciatore del Re, si era atteggiato a
Repubblicano.
Dopo qualche giorno tornai al mio normale lavoro al Ministero, ma grande fu
la mia sorpresa quando, dopo qualche settimana, il Segretario Generale
Ambasciatore Franzoni mi chiamò per comunicarmi la nomina, nonostante il mio
grado ancora basso, a suo stretto collaboratore quale Capo Ufficio coordinamento
della Segreteria Generale.
Compito dell'Ufficio era quello di distribuire il lavoro, i telegrammi e i
rapporti che provenivano dall'estero, fra i vari uffici del Ministero secondo le
loro rispettive competenze e controllare che rispondessero tempestivamente alle
richieste delle nostre Rappresentanze, secondo le istruzioni del Segretario
Generale. L'attività era molto interessante perché si vedeva tutto il lavoro
della nostra diplomazia e si era al corrente di quello di tutti gli altri
Paesi.
Io poi dovevo filtrare le udienze del Segretario Generale e sorbirmi le
chiacchiere di tutti quelli che lui non voleva o non poteva ricevere.
Ma purtroppo Franzoni come Segretario Generale non durò più a lungo; era una
persona troppo onesta e seria per i tempi che volgevano. Venne presto in urto
con
Sforza, succeduto come Ministro a De Gasperi, per la nomina degli
Ambasciatori alle sedi vacanti; Franzoni, come voleva la prassi, presentava al
Ministro una terna di nomi, per ogni sede, di persone competenti e di ottimi
funzionari. Sforza, su istigazione del suo Segretario particolare, un politico
fazioso, sceglieva sempre qualcuno fuori della terna, di solito persone
incompetenti ed opportuniste. Quando ciò accadde per la terza volta, Franzoni
esplose e dopo una violenta scena col Ministro gli scrisse una lettera dando le
dimissioni dal grado e dall'impiego, cosa che forse non avveniva dai tempi di
Cavour! Sforza allora si spaventò e cercò di indorare la pillola al Segretario
Generale, dicendogli che si scegliesse il posto che preferiva all'estero:
Washington, Londra o Parigi, ma Franzoni insistè nelle dimissioni.
Castellani Pastoris, suo collaboratore affezionato ed io stesso insistemmo,
prevedendo che il suo sacrificio sarebbe stato inutile e insistendo perché egli
informasse dell'accaduto il suo conterraneo ed amico
Senatore F.S. Nitti. Ma
egli rifiutò dicendo che la sua dignità gli impediva di ricorrere a quei
mezzucci e se ne andò sbattendo la porta in faccia al Ministro. Il suo
sacrificio però, come previsto, non servì a nulla e le cose peggiorarono ancora.
Unica cosa a cui Sforza aderì su richiesta nostra fu di non nominare più
Ambasciatori non di carriera e di mantenere la promessa. Io restai col nuovo
Segretario Generale Ambasciatore Vittorio Zoppi, persona molto seria e capace ma
forse meno combattiva di Franzoni.
In quel torno di tempo avvenne alla nostra Ambasciata a Londra un fatto
piuttosto divertente.
Vi si trovavano riuniti in seduta tutti i soloni del Ministero degli Affari
Esteri e cioè il Ministro Sforza, il Segretario Generale Zoppi, il Direttore
Generale degli Affari Politici Guidotti, accompagnati da molti esperti. Si
trattava di preparare i nostri interventi nel tentativo di ottenere dagli
inglesi sempre contrari, la restituzione di tutte o parte delle nostre Colonie
prefasciste, nel presentare la richiesta di entrare all'O.N.U. e di prendere
parte ai colloqui che allora iniziavano per una alleanza che ponesse un freno
all'aggressività sovietica.
Alle lunghe sedute erano presenti l'Ambasciatore Tommasino Gallarati Scotti
e il Ministro Consigliere Blasco d'Ajeta noto per essersi dato all'alcool.
Questi, ad un certo punto, stanco di sentire ripetere sempre le stesse cose, si
rivolse a Sforza dicendo: "Signor Ministro, non creda a tutto quello che le
dicono questi signori in quanto gli inglesi non ci restituiranno alcuna delle
nostre antiche Colonie perché non vogliono un nostro ritorno in Africa; per
quanto riguarda l'ONU ci faranno fare una lunga anticamera e per l'alleanza
occidentale sono parimenti contrari al nostro intervento perché richiederebbe
il nostro riarmo. Poi, assumendo l'atteggiamento tenebroso e apocalittico che
spesso aveva, aggiunse: "Ma ci sarà presto un grave conflitto a base ideologica
fra Est e Ovest e allora gli ex nemici ci verranno a cercare per avere anche il
nostro appoggio. Pertanto ci conviene aspettare questo momento".
D'Ajeta fu subito inviato a cura della moglie in una clinica di
disintossicazione e poi richiamato a Roma dove rimase molti mesi senza incarico.
Ma gli avvenimenti dimostrarono che egli aveva perfettamente ragione e aveva
previsto correttamente. Tre volte, tra l'altro, Sforza chiese di entrare all'ONU
e la sua richiesta fu respinta; le Colonie ci furono tolte tutte, solo la
Somalia ci fu concessa in mandato per appena dieci anni, cosa che comportò per
noi spese di miliardi.
La Gran Bretagna non ci perdonava e, nonostante i 400 anni di esperienza
coloniale, non aveva ancora capito, per la sua arroganza, a differenza della
Francia, che se si vogliono mantenere le colonie, un minimo di solidarietà fra
Potenze colonizzatrici, anche se momentaneamente in conflitto, è assolutamente
necessario. Gli inglesi invece avevano dato l'indipendenza all'Indonesia, contro
la volontà dell'Olanda pur loro alleata, oltre che alla Siria e al Libano contro
la Francia che era la mandataria, profittando del fatto che in quel momento
erano amministrate dal Governo di Vichy. Ed ora dava l'indipendenza alla Libia
per vendetta contro di noi.
La Francia invece più intelligentemente era piuttosto favorevole al ritorno,
in tutto o in parte, della Libia al dominio italiano. Infatti giustamente temeva
che l'indipendenza di questo Paese molto arretrato, perché solo recentemente da
noi conquistato, scatenasse e rinforzasse la lotta per l'indipendenza nei suoi
territori nordafricani alquanto più progrediti perché da lei amministrati da più
tempo. E così infatti avvenne molto presto. La stessa Gran Bretagna, con questa
sua politica miope, perse in breve tempo tutto il suo vasto impero coloniale.
La sparata poco diplomatica di D'Ajeta non ebbe conseguenze troppo serie per
lui, però dovette stare senza incarico parecchi mesi. Ma egli era di madre
americana e imparentato con pezzi grossi negli Stati Uniti e Sforza era molto
sensibile a questi legami; inoltre, siccome tutto quello che Blasco aveva detto
si era avverato, cominciò a pensare che se questo funzionario pur tra i fumi
dell'alcool, aveva detto delle cose più sensate degli altri, non era poi da
buttare via.
Infatti un giorno lo chiamò e gli disse: "io vorrei riutilizzarla e darle un
posto da Ambasciatore, ma lei comprende che non posso portare il suo nome in
Consiglio dei Ministri senza causare un parapiglia; le offro quindi di andare in
Giappone senza speciale qualifica, solo come nostro funzionario di collegamento
con le Autorità americane che amministrano quel Paese: però siccome è già
bandita la conferenza per la pace a San Francisco, non appena tornerà a Tokyo un
governo regolare nipponico lei automaticamente diventerà Ambasciatore d'Italia
sul posto!". Blasco accettò e così avvenne.
Era quella l'epoca in cui era incominciato il lavorio diplomatico per la
cooperazione europea ed un eventuale Mercato Comune presso l'Organizzazione per
la cooperazione economica europea a Parigi. Merito dell'iniziativa e della
realizzazione di quest'ultimo risale esclusivamente ai tre Capi dei Governi dei
maggiori Paesi europei, tutti e tre democristiani:
Schuman,
Adenauer,
De
Gasperi.
La loro iniziativa più che a considerazioni economiche era dovuta a
considerazioni politiche che miravano a ricostruire una forte Europa che potesse
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Konrad Adenauer |
Robert Schuman |
Alcide De Gasperi |
bloccare l'espansionismo minaccioso dell'Urss molto forte al tempo di Stalin.
I cosiddetti tecnici "esperti" erano tutti contrari: gli industriali
dei tre Paesi erano avversi all'idea di una unificazione economica europea
perché temevano la reciproca concorrenza: in particolare i francesi temevano la
maggiore capacità di lavoro (di allora) della mano d'opera italiana. Era invece
per noi una fortuna che fosse fallita la balzana proposta di Sforza di una
unione doganale franco-italiana. Sarebbe stata una rovina per la nostra economia
a tutto vantaggio della Francia della quale saremmo diventati una colonia.
Quest'ultima infatti a quel tempo era molto più forte finanziariamente ed
economicamente — soprattutto in campo agricolo — ed aveva subito devastazioni
molto minori dalla guerra; aveva inoltre una classe dirigente ed una
amministrazione più efficienti.
Nel Mercato europeo sarebbe stato invece più facile per noi muoverci. Persino
il nostro rappresentante presso l'OECE, il Ministro, poi Ambasciatore, Cattani,
che si autoriteneva un grande esperto e che per questo ricoprì in seguito i
posti di Vice direttore e poi Direttore Generale degli Affari economici, era
molto scettico e i suoi rapporti erano pieni — a proposito dell'iniziativa di
unificazione europea — di frasi come "la magnifica illusione" e "la generosa
utopia"!
Certamente questi rapporti saranno stati fatti sparire dagli archivi
ministeriali ad opera degli interessati ed infatti la stessa persona tanto
scettica si era fatta segnalare in seguito da giornalisti compiacenti o servili
quale uno dei "padri dell'Europa"!
Intanto però — sia pure molto lentamente per le grandi difficoltà intrinseche
— l'iniziativa procedeva per la energica volontà dei tre Capi di Governo che non
si lasciavano paralizzare dallo scetticismo della burocrazia. Solo l'Inghilterra
si manteneva antieuropea e seguiva senza alcun entusiasmo i lavori.
Un forte catalizzatore furono invece gli Stati Uniti i quali, con gli aiuti
del
Piano Marshall, contribuivano potentemente a sanare le piaghe dell'Europa e
spingevano l'iniziativa di unificazione.
Della ripartizione degli aiuti erano state incaricate le Rappresentanze
presso l'OECE che furono rinforzate con un esercito di esperti. Correva voce che
in seno a queste speciali Commissioni ci fosse parecchia corruzione e che fra i
cosiddetti "Erpivori" — dalla sigla "European Recovery Program" — alcuni si
arricchissero favorendo certe industrie piuttosto che altre. Le industrie
favorite infatti riservarono in avvenire posti di rilievo nel loro seno ai
benefattori cui erano riconoscenti. Le donazioni americane di impianti e dollari
non bastavano ad accontentare tutti e c'era infatti una grande lotta per essere
serviti per primi.
I ripetuti sforzi dei tre Paesi riuscirono in un primo tempo a
costituire la
Comunità del Carbone e dell'Acciaio e poi la Comunità Economica
Europea (Mercato Comune) rinviando però l'unificazione del mercato agricolo per
l'opposizione del tutto giustificata degli agricoltori per le grandissime
difficoltà di abolire le dogane per i loro prodotti senza sacrificare
rovinosamente le agricolture più deboli.
Seguiva anche l'Organizzazione per l'energia atomica. Da tutte queste
Comunità restava esclusa la Gran Bretagna, nel suo insieme sempre fortemente
avversa ad ogni unificazione europea, nonostante l'attivismo di alcuni suoi
uomini politici più intelligenti.
Si era arrivati nel frattempo alle elezioni del 1948 che furono una gran
vittoria dell'anticomunismo. Non fu solo un merito del Governo il successo nella
ricostruzione e nemmeno della Democrazia Cristiana che non aveva gran fiducia
nel successo stesso e che non seppe mai fare una propaganda abile ed efficiente.
Il merito fu soprattutto del
Prof. Gedda, Presidente dell'Azione Cattolica e
creatore dei
Comitati civici che fecero una propaganda molto intelligente ed
assidua, sfruttando bene i timori diffusi fra gli elettori. Certo il Governo De
Gasperi, con la sua opera, aveva ridato fiducia agli Italiani persuadendoli a
votare per il partito dell'ordine: la Democrazia Cristiana.
Al Ministero degli Affari Esteri alcuni di noi collaborarono attivamente con
i Comitati Civici: tra di essi l'amico e compagno di concorso Pasquale Prunas,
Capo di Gabinetto di Sforza, e lo scrivente.
Io avevo visto in Svizzera durante la guerra il
film "Ninochka" in cui Greta
Garbo, metteva in ridicolo il regime comunista sovietico e pensai che bisognava
senz'altro proiettarlo da noi — dove invece era stato proibito dapprima da
Mussolini e poi non importato dai governi democratici per non urtare l'URSS —
ritenendo che in Italia il ridicolo e l'umorismo fosse un'arma ben più
formidabile dei lunghi discorsi filosofico-politici.
Ne parlammo all'Incaricato d'Affari degli USA, essendo allora assente
l'Ambasciatore ed egli in pochi giorni ci fece arrivare le copie del film con
l'autorizzazione di doppiarlo e di proiettarlo, il tutto gratuitamente.
Avevamo intanto preso accordi con una ditta di distribuzione dei films e a
Cine Città in pochi giorni ne prepararono molte copie in italiano e queste
furono subito diffuse in vari cinema di ogni città.
L'effetto fu enorme e le risate pure. In alcuni luoghi, come a Sesto S.
Giovanni, alcuni cinema furono incendiati e ci furono anche degli scontri con la
Forza Pubblica.
Grande merito va dato anche a
Guglielmo Giannini dell'
"Uomo Qualunque" e a
Padre Lombardi che, con grande coraggio, affrontarono a Milano e in tutte le
zone più rosse, per la prima volta, i social-comunisti, nonostante le minacce di
morte e le lettere anonime che ricevevano a migliaia.
  Particolarmente coraggiosi
e patriottici furono i discorsi di Padre Lombardi a Sesto S. Giovanni e di
Giannini al Teatro Lirico di Milano.
Si ruppe l'incantesimo del predominio comunista e tutti ripresero coraggio e
fu smorzato il "vento" bolscevico del Nord.
L'Italia deve molto a questi due uomini, che non ha abbastanza onorato, per
aver risvegliato lo spirito patriottico nazionale.
La vittoria fu grande ma non abbastanza sfruttata dal Governo. De Gasperi
fino al 1947 aveva continuato a tenersi i comunisti nel Gabinetto ritenendo che
la Democrazia Cristiana, da sola al potere, si sarebbe logorata rapidamente
mentre sperava che restando nel Ministero anche i comunisti, a loro volta, si
sarebbero logorati. Ma ormai i comunisti divenivano troppo arroganti e De
Gasperi, aiutato dalla prudente azione del Papa Pio XII, e convinto che gli
americani non avrebbero continuato l'amichevole atteggiamento verso di noi se i
comunisti restavano al Governo, riuscì a liberarsene abilmente. Pio XII riteneva
molto giustamente che una prolungata permanenza del Partito comunista al Governo
avrebbe enormemente accresciuto l'infiltrazione di elementi comunisti negli
Organi dello Stato, come già si notava nella Magistratura e nella Polizia, nelle
Forze Armate e soprattutto nella Scuola a tutti i livelli, dalle elementari alle
università, oltre che nella stessa Azione Cattolica e nella
Fuci e in parte nel
Clero.
È certo, tuttavia, che di fronte alla magnifica opera di ricostruzione, gravi
furono alcuni errori compiuti dal Governo e di cui si sente ancora il peso a
oltre quarant'anni di distanza.
Oltre a quello del pur necessario accordo per l'Alto Adige — purtroppo mal
stilato — vi fu quello, ad esempio, di aver nominato il leader comunista
Togliatti a Ministro della Giustizia, lasciandovelo a lungo. Egli ne approfittò
per inquinare la Magistratura che ancora oggi ne soffre. Visto che a causa della
guerra e degli avvenimenti successivi, da quasi dieci anni non si erano più
tenuti dei concorsi e i quadri della Giustizia erano semivuoti, egli bandì
quelli che i Romani memori di
Pasquino, chiamarono "concorsi per cani e porci".
Infatti fu diminuita la severità degli esami e vi si ammisero tutti, compresi
quelli che avevano avuto una media di voti universitari non superiore al 18.
Molti dei concorrenti non erano altro che agitatori comunisti. Ne uscì una massa
di Magistrati ignoranti che non conoscevano nemmeno i codici, alcuni dei quali
sono ormai Presidenti di Tribunali e Consiglieri di Cassazione politicamente
infeudati. 
Le conseguenze si videro presto. Alcuni anni or sono, ad esempio, un semplice
vice pretore con tre soli anni di carriera osò far mettere le manette ad un
Ambasciatore e ad un Generale a tre stelle, accusandoli di gravi reati senza la
minima prova, tant'è vero che essi dovettero essere liberati dopo qualche
settimana perché contro di loro non sussisteva il minimo indizio se non
montature di giornalisti disonesti.
In confronto, persino durante la dittatura, la Magistratura era stata più
indipendente. Prova ne è che Mussolini non trovò magistrati disposti a far parte
del suo Tribunale speciale e dovette ricorrere alla nomina d'ufficiali della
Milizia, laureati in legge o avvocati, e che persino per arrestare il
Generale
d'Armata Capello, preso quasi in fragranza di reato per l'organizzazione,
insieme all'On. Zaniboni, del famoso attentato contro Mussolini, si dovette
disturbare un pari grado dell'accusato!
L'ORO DI DONGO, UN GRANDE MISTERO
ITALIANO.
I fascisti in fuga sul lago di Como avevano un tesoro: 60 anni dopo ancora ombre
sulla spartizione. La questione dell'oro di Dongo è uno degli argomenti più
spinosi che si possano immaginare perché su di esso sono sorti miti e leggende
ancora difficili da sfatare. Ma procediamo con ordine. Innanzitutto, un
chiarimento concettuale: per «oro di Dongo» si deve intendere esclusivamente il
carico di valori e di preziosi che viaggiava con la colonna dei fascisti e dei
nazisti in marcia lungo le rive del lago di Como, alla fine di aprile del 1945.
Tutto ciò che esula da questo ristretto perimetro spazio-temporale non è l'«oro
di Dongo», è qualcosa di diverso. Per intenderci, qualsiasi preda bellica
intercettata e recuperata in altro luogo e in altre circostanze (per esempio, il
«tesoro» di Farinacci) è altra cosa. Con il tempo però, è invalsa la cattiva
abitudine di associare all'oro di Dongo anche quanto venne ritrovato, per
esempio, a Como, a Villa Mantero dove soggiornò Donna Rachele nei giorni dell'epilogo. L'«oro
di Dongo», inoltre, non si riferisce soltanto a quanto venne sequestrato ai
gerarchi italiani e a Mussolini stesso, perché, come si diceva, la colonna degli
automezzi fermata dai partigiani tra Musso e Dongo, il 27 aprile 1945,
comprendeva anche reparti militari tedeschi, essi pure dotati di denaro e
preziosi. La parte del tesoro che viaggiava al seguito degli italiani era
costituita da due fonti diverse: i fondi erariali e i beni personali dei
gerarchi. Negli automezzi dei fascisti erano stati stivati, quindi, tanto i
denari pubblici quanto le fortune private. L'erario era stato ricostituito dal
governo fascista dopo la fondazione della Rsi. La dotazione finanziaria statale
era stata infatti azzerata dopo la razzia delle riserve auree della Banca
d'Italia compiuta dai tedeschi. Raffaele La Greca, ragioniere dello Stato e capo
cassiere della polizia durante la Repubblica Sociale Italiana, raccontò che per
ordine di Mussolini il fondo riservato del governo (400 milioni del 1944) venne
impiegato per rastrellare tutto l'oro in possesso di orefici e di gioiellieri.
L'operazione si era resa necessaria dopo che i tedeschi ebbero fatto incetta
dell'oro denunciato in Italia, pagandolo in lire: 3 miliardi dell'epoca. Nel
febbraio 1945, la dotazione finanziaria speciale dello Stato consisteva di 66
chili d'oro: questo spiega la ragione per la quale a Dongo fosse giunto metallo
giallo in così grande quantità. Bisogna anche aggiungere che non tutto l'erario
prese la via del lago di Como. Pochi giorni prima della fuga verso Nord, si era
verificato l'assalto alle casse statali: i ministri si erano spartiti tra loro
40 milioni di lire dell'epoca, mentre Pavolini, il segretario del Partito
fascista repubblicano, aveva reclamato 10 miliardi per le Brigate Nere:
Mussolini, tuttavia, gliene aveva concessi molti di meno. Ma le più grandi
leggende storiche costruite attorno a questa vicenda riguardano la destinazione
finale del tesoro sequestrato dai partigiani. «Che fine ha fatto l'oro di Dongo?»,
si sono domandati, e ancora si domandano, in molti. Ebbene, la verità è insieme
semplice e complessa: e a sbagliare sono tutti coloro che hanno impugnato questo
tema come un'arma contundente da usare per la lotta politica. Gli anticomunisti
hanno inteso dimostrare che tutto quanto l'oro di Dongo finì nelle casse del
Pci, mentre il partito di Togliatti e i suoi fiancheggiatori hanno respinto ogni
addebito pretendendo di essere creduti quando affermavano: «Noi non abbiamo
toccato un centesimo».In realtà, i comunisti hanno incamerato soltanto una
piccola parte di quell'immenso forziere semovente bloccato dai partigiani lungo
le sponde del Lario. Non perché si siano ritratti di fronte a quella che i
giornali americani, al tempo, definirono come «the great Dongo's robbery» , il
grande furto. Semplicemente, i comunisti, i quali controllavano le formazioni
partigiane che arrestarono il Duce e i suoi fedelissimi, non fecero in tempo a
impedire l'emorragia miliardaria che, in poche ore, aveva dissanguato l'intera
colonna. Quando, ormai quindici anni fa, chiesi al professor Gianfranco Bianchi
dove, a suo avviso, fosse finito l'oro di Dongo, il grande storico, che è stato
anche mio maestro, replicò con la sua consueta vivacità: «Se lo sono preso gli
abitanti del lago!». Le cose stanno effettivamente così: la popolazione locale
depredò letteralmente i fascisti e i tedeschi che, in cambio di protezione per
sé o per i propri famigliari, non esitarono a regalare valigie piene di
banconote. Durante il fermo della colonna, molti gerarchi avevano anche
provvisoriamente affidato carichi di preziosi alla gente del posto,
depositandoli nelle loro abitazioni nella speranza di passare poi a ritirarli.
Non immaginavano certo che sarebbero stati fucilati di lì a poco. Anche dal
municipio di Dongo, dove poi si svolse la contabilizzazione del tesoro
sequestrato, sparirono somme ingenti, sottratte da partigiani o da loro amici.
Insomma, se si vuole, si tratta di un capitolo non bello della nostra storia
patria: ma tra Musso, Dongo e i paesi vicini molte famiglie umili divennero
improvvisamente ricche. Vi fu chi si costruì la villa e chi, addirittura,
acquistò alberghi a Rimini. Tutto ciò, naturalmente, non toglie che il Partito
comunista si sia appropriato di valori e di documenti che, semmai, avrebbero
dovuto essere consegnati allo Stato. In particolare, sulla base della
testimonianza del tesoriere del Pci Alta Italia, Alfredo Bonelli, che agli inizi
degli anni Novanta rilasciò un'intervista a chi scrive, si sa per certo che il
partito di Togliatti incamerò 30 milioni di lire e circa 36 chilogrammi di oro.
Questo rilevante lotto recuperato a Dongo consentì poi al Pci di effettuare
redditizie operazioni di investimento immobiliare anche speculativo, che
sarebbero poi confluite nell'operazione di acquisto della sede della direzione
nazionale di via delle Botteghe Oscure, a Roma. Questo è già molto, ma non è
ancora tutto. I più esigenti, in genere, insistono nel voler sapere a quanto
ammontasse l'oro di Dongo. E qui bisogna essere estremamente onesti: perché
nessuno che non desideri pigliare in giro i lettori può fare serie asserzioni in
proposito. Ci si può avventurare soltanto nelle ipotesi, nelle stime. Le
testimonianze passate al vaglio degli storici consentono innanzitutto di
affermare che l'ammontare complessivo dell'oro era qualcosa di veramente
impressionante. Anche i valori che furono radunati nei locali del municipio di
Dongo, dopo l'immenso depauperamento del tesoro avvenuto durante il fermo della
colonna, costituivano una specie di faraonico deposito multimiliardario,
l'equivalente di una banca di Stato: fiumi di oro, sacchi di monete e di
banconote anche in divise straniere, eppoi enormi mucchi gioielli. A quanto
assommassero quei valori, non è dato saperlo, anche perché le tracce contabili
sono state accuratamente fatte sparire. Ma è sicuro che l'ordine di grandezza fu
quello dei miliardi (dell'epoca!). Si può comprendere perciò la ragione per la
quale molti avessero perso letteralmente la testa, al vedere quella montagna
sfavillante. Poche volte nella storia è capitato che l'assalto alla diligenza
abbia prodotto un così cospicuo bottino, anche se malamente distribuito tra i
beneficiari.
Roberto Festorazzi - L'Eco
di Bergamo 25 11 2003 |
Altro grave errore fu quello di introdurre il sistema elettorale
proporzionale che ha reso il Paese, e lo rende ancora oggi, quasi ingovernabile
con governi che hanno la durata di solo qualche mese.
Ma la cosa peggiore fu la legge che si rivelò infausta: quella che istituiva
le Regioni. Che fosse necessaria una maggior decentrazione amministrativa
si era tutti d'accordo, ma non era il caso di creare dei veri e propri Stati
nello Stato, come sono soprattutto le Regioni a regime speciale in un Paese con
così scarse tradizioni unitarie!
I democristiani, che hanno sempre nutrito diffidenze verso lo Stato
unitario, si erano scoperti giobertiani a 150 anni di distanza! Che
Gioberti
avesse ragione di programmare una Federazione italiana per espellere gli
stranieri dall'Italia senza guerre — che d'altronde non si sapeva nemmeno con
quali eserciti fare — era giustissimo, ma 150 anni dopo, quando ormai lo Stato
unitario esisteva ed era abbastanza compatto (tanto che ha resistito anche alla
disfatta e ai tentativi di certi alleati vincitori per attaccarne alcune parti),
ciò è semplicemente criminoso: è certo un atteggiamento antirisorgimentale e
antinazionale.
La Democrazia Cristiana non ha mai capito che con un pizzico in più di
patriottismo e di senso nazionale avrebbe ottenuto una maggioranza duratura in
Parlamento; invece è rimasta ancorata a degli schemi superati nella filosofia
abborracciata del suo partito. Parimenti è stata spesso succube e quasi
ammiratrice del Partito Comunista Italiano, forse invidiandone quella che era la
disciplina e la compattezza quasi religiose, cedendo qualche volta alle sue
richieste e alle sue pressioni.
Così, su proposta comunista, la D.C. accettò di cancellare, dal progetto di
Costituzione repubblicana, l'articolo che vietava ai diplomatici, agli ufficiali
delle Forze Armate e ai Magistrati di appartenere a partiti politici, cosa,
questa, come si vide in seguito, assai grave. Parimenti il primo governo
Fanfani, per compiacere i comunisti, abrogò la norma che conferiva
all'Amministrazione la discrezionalità nel respingere dai concorsi i candidati
per i quali i Carabinieri e la Polizia non avessero fornito buone informazioni.
Le varie carriere si riempirono così di figli di camorristi e di mafiosi.
Inoltre il Governo De Gasperi, per non urtarsi con gli occupanti, tralasciò
di perseguire gli intrallazzi che essi commettevano abbondantemente, iniziando
l'era delle pesanti bustarelle che ancora affligge la nostra Repubblica. Così il
Governo mise a riposo il Generale della Giustizia Militare che aveva iniziato un
procedimento contro i trafugatori dell'
"Oro di Dongo", cioè il tesoro della
Repubblica di Salò, che i gerarchi fascisti in ritirata intendevano portare nel
' 'ridotto della Valtellina". Detto "tesoro" era stato rubato dai partigiani
comunisti che se lo divisero con un Maggiore inglese che si arricchì
indebitamente.
In tal modo l'inchiesta fu insabbiata e non se ne parlò più.
Parimenti in alcune località i rappresentanti del Governo Militare alleato si
arrogarono il diritto di epurare cittadini che si ritenevano colpevoli di
"trascorsi fascisti", specie industriali che accettavano di essere "spremuti"
pur di essere "discriminati". Così pare avvenne a Bergamo ove si diceva che il "town
Major" un ufficiale della Guardia della Regina, si arricchì discriminando gli
industriali locali e facendosi cedere da loro sostanziosi pacchetti di azioni
delle loro industrie.
5) Primo Segretario alla Legazione di Atene
(pag 165 a pag. 168)
Inizio
Pagina
Ero ormai stanco di stare a Roma e volevo andare all'estero ove si svolge il
nostro vero mestiere e ove siamo trattati un po' meglio economicamente.
Ero stato destinato al Sud Africa, ma per una grave malattia di mia Madre
dovetti rinunciare. Non potevo lasciarla sola e andare così lontano. Approfittai
invece del fatto che il buon Ministro Prina Ricotti mi richiese come Primo
Segretario alla Legazione di Atene. Il Capo del Personale non mi ci voleva
mandare, ma il Segretario Generale Ambasciatore Zoppi mi appoggiò e così
partimmo per la Grecia.
Erano tempi brutti per quel povero Paese dilaniato dalla ribellione comunista
e dove Atene era praticamente assediata dagli
"andartes" di
Marcos, aiutati e
armati dall'URSS e particolarmente dalla Yugoslavia di Tito.
Imparai molte cose sui barbari metodi di lotta dei comunisti che sono uguali
ovunque, seguendo una specie di manuale stilato da Mosca.
Così quando i ribelli comunisti compivano un'avanzata di sorpresa,
sequestravano tutti i giovani in età militare ed anche i fanciulli e li
portavano in Yugoslavia per indottrinarli, obbligandoli a combattere per loro.
Se poi essi si davano prigionieri alle truppe nazionali, in una successiva
azione i loro parenti erano massacrati. Questo sistema vidi in seguito applicato
sempre e in ogni occasione dai comunisti: in Corea, poi in Vietnam, da Castro a
Cuba ed in Nicaragua dai Sandinisti.
Gli americani rifornivano in grande stile le forze nazionali greche nella
lotta contro gli "andartes", ma compiendo anche vari errori. Fra questi notai
che avevano dato all'esercito greco delle ottime e moderne artiglierie campali,
ma tutte con cannoni a tiro teso che servivano a poco sulle montagne dell'Epiro.
Un giorno che ebbi un colloquio con il
Generale Van Fleet, comandante la Missione militare americana, glielo dissi chiaramente. Egli mi domandò "Ma come
fa lei a sapere queste cose?". Gli risposi: "Sono un ufficiale di Fanteria anche
se di complemento e me le hanno insegnate: inoltre ho visto compiere questi
stessi errori dai Generali scelti da Badoglio durante l'aggressione alla Grecia.
Le nostre artiglierie non riuscivano a snidare i greci rintanati al riparo delle
rocce dell'Epiro, mentre essi, forniti dagli inglesi di moltissimi mortai da
trincea più trasportabili alle alte quote e a tiro curvo, potevano tenerci in
scacco ed infliggerci forti perdite".
La ribellione fu vinta solo quando Tito divorziò dall' "URSS"; allora, non
ricevendo più aiuti né potendo ritirarsi in Yugoslavia, dopo ogni azione Marcos
dovette cedere. La repressione dei nazionali fu feroce come erano state le
azioni comuniste. Molti bambini greci rapiti non furono restituiti, ma
trattenuti in Yugoslavia per essere indottrinati.
Ebbi modo, in varie occasioni, di conoscere l'umanità del popolo greco: esso
assomigliava in tutto, pregi e difetti, ai nostri meridionali.
Rimasto Incaricato d'Affari, poche settimane dopo il mio arrivo dovetti
presenziare al solenne Te Deum nella Cattedrale per la festa nazionale greca che
coincideva coll'anniversario del rifiuto ellenico all'ultimatum di Mussolini ad
Atene che portò alla guerra.
Mia moglie si era messa un abito nuovo.
Andando in macchina con tanto di bandiera io le dissi: "Addio abito perché i
pomodori e le uova marce si sprecheranno!". Invece, con nostra grande sorpresa,
passammo fra due ali di popolo che applaudivano al passaggio del rappresentante
dell'Italia!
Ne fummo commossi. I greci, rappresentanti
del popolo, non dimenticavano l'atteggiamento umano dei nostri soldati che
dividevano il rancio con i poveri bambini greci affamati che morivano
letteralmente per inedia. Essi ricordavano la differenza rispetto ai sistemi
inumani dei tedeschi occupanti e degli stessi inglesi che, sbarcati da alleati
dopo il crollo della Germania, li avevano trattati con sufficienza e disprezzo,
rifiutando agli affamati gli avanzi del loro rancio che preferivano
gettare in mare.
Notai anche, in seguito, che noi eravamo ancora i preferiti dal popolino, non
certo dai possidenti di "Kolonaki" che erano tutti anglofili, specie i ricchi
armatori che erano dei veri e propri negrieri!
KOLONAKI era un tempo il quartiere
residenziale della classe benestante di Atene.
Abbarbicato sui pendii del Licabetto,
oggi ha perso molti dei suoi abitanti fuggiti altrove alla ricerca di aria più
salubre ma conserva ancora l'aria "chic" grazie alle sue boutiques che espongono
oggetti e capi di abbigliamento firmati. E' anche il quartiere diplomatico, come
dimostrano gli edifici delle numerose ambasciate allineate lungo il viale Regina
Sofia. Moltissime le pasticcerie, i ristoranti e i locali dove si intrattiene la
gioventù "dorata" di Atene. Tra gli abitanti che ancora resistono c'è Jules
Dassin, anziano regista cinematografico vedovo di Melina Mercouri , la
pasionaria greca. |
La stessa impressione dell'atteggiamento dei greci che si sforzavano di
parlare un po' d'italiano ebbi in altra occasione e cioè quando venne in Grecia
in viaggio di nozze il cugino di mia moglie, Novello Cavazza Borghese.
Egli era stato in Grecia come Tenente dell'Artigliera alpina e vi era
arrivato... a piedi da Trieste con la sua batteria, facendo fuori, attraverso
tutti i Balcani, tre paia di scarponi!
Lo conducemmo con sua moglie a visitare il Peloponneso in auto su strade
quasi tutte costruite dal Genio Militare italiano. Eravamo in riva al mare a
Porto Germanos, già base dei nostri sommergibili, e ci apprestavamo a un pic-nic
sull'erba quando si avvicinò un vecchio pastore che da tempo ci osservava. Ad un
certo punto buttò le braccia al collo al nostro cugino e rivolto a noi disse:
"Questo alpino ha salvato i miei figli che morivano di fame". Ci invitò quindi
alla sua capanna e ci offrì il vino retzina e il formaggio di capra "feta" che
lui stesso faceva. Gli regalammo commossi una bottiglia di whisky e una stecca
di sigarette americane che egli gradì moltissimo.
Ma la maggior soddisfazione e uno dei più grandi successi della mia carriera
l'ebbi quando riuscii a liberare 12 nostri "criminali di guerra" condannati
subito dopo lo sbarco degli inglesi "ab irato" dai soliti tribunali del popolo,
ovviamente comunisti.
Tra di essi, certamente innocenti perché le nostre truppe a differenza di
quelle tedesche non avevano compiuto crimini di guerra né in Grecia né altrove,
c'era il Consigliere di Prefettura, Dr. Giovanni Ravalli, divenuto Prefetto di
Palermo e poi di Roma.
Il nostro Governo aveva spesso insistito per la liberazione di questi
disgraziati innocenti, ma quello greco non voleva con questa cortesia provocare
un successo per il Ministro Ricotti che non era amato. Il mio Capo, infatti, che
era un'ottima persona e in sostanza aveva quasi sempre ragione, spesso parlava
troppo liberamente e si creava gratuitamente molti nemici non solo in Grecia ma
anche al nostro Ministero. Egli, ad esempio, diceva agli stessi greci che il
loro Governo, con la sua corruzione, di fatto agevolava la propaganda comunista
ed era vero. Infatti mentre gli americani coi loro aiuti garantivano 2000
calorie ad ogni greco e allora la disoccupazione e la miseria erano enormi, in
pratica solo 800 in media ne arrivavano ai bisognosi; il resto si perdeva nei
meandri della Amministrazione ellenica. Se tutto questo era vero, non stava a
noi stranieri, e per di più aggressori della Grecia, sottolinearlo, tanto che io
una volta, scherzando, dissi a Ricotti: "Ma vuoi fare un'altra volta la guerra
alla Grecia?"
PANAGIOTIS
PIPINELIS (Παναγιώτης
Πιπινέλης) was a Greek politician and diplomat. He was born in 1899 in the
port city of Piraeus. He studied Law and Political science at the University of
Zurich and in 1920 at the Albert Ludwigs University of Freiburg in Germany. He
entered the Greek diplomatic core in 1922 and served in several posts. In 1953
he resigned and was appointed permanent representative of Greece to NATO. He
served briefly as Prime Minister of Greece from June 17, 1963 to September 29,
1963, and as Minister of Foreign affairs during the dictatorship.
http://www.mlahanas.de/Greece/Portraits/PersonP.html |
Appena Ricotti fu trasferito, perché nominato Ambasciatore in India e io
andai dal Segretario Generale Pipinelis per accreditare il nuovo Capo Missione
Alessandrini, notai il malanimo verso Ricotti e invece le buone disposizioni
verso Roma.
Considerando questa benevolenza nei nostri confronti, parlando un giorno con
il Segretario del Re Paolo, Metaxas, gli accennai degli italiani condannati come
criminali di guerra e che, per lo sviluppo dei nostri buoni rapporti, sarebbe
stato bene graziare. Egli mi rispose gentilmente: "Perché non lo chiede
direttamente al Re?" Dissi che, come Incaricato d'Affari, non ero autorizzato a
domandare udienza al Capo dello Stato, ma soltanto al Ministro degli Esteri.
Senonché il Signor Metaxas gentilmente replicò che non importava e che potevo
farlo. Lo pregai allora di inoltrare la mia domanda di udienza.
Re Paolo mi
ricevette immediatamente in modo molto cordiale, parlando un perfetto italiano
che aveva appreso durante il suo lungo esilio a Roma a Villa Sparta ai tempi
della prima Repubblica ellenica. Gli esposi la nostra richiesta ed egli rispose
che comprendeva perfettamente la cosa ed era pronto da parte sua a concedere a
tutti l'amnistia, ma che aveva bisogno di domandare il parere del suo Governo
essendo le condanne una conseguenza "ab irato" dei Tribunali popolari della
resistenza, come era avvenuto dappertutto; aggiunse che mi avrebbe fatto sapere
qualche cosa al più presto. Ed effettivamente meno di una settimana dopo mi
comunicò tramite il suo Segretario, che aveva firmato il decreto e che i
prigionieri liberati sarebbe stato bene partissero subito, ad evitare
ripensamenti di qualche partito di sinistra. Li feci imbarcare sul primo aereo
italiano e il caso ebbe un esito felice. Restavano in carcere solo quattro rodiotti che avevano combattuto per noi ma per i quali, essendo considerati
cittadini greci, io non potevo esercitare alcuna pressione; mi fu tuttavia
assicurato che sarebbero stati inclusi nella prossima amnistia generale.
Dal mio Ministero degli Esteri nemmeno una parola di compiacimento o
apprezzamento a mio riguardo! Ricevetti solo molti ringraziamenti dagli
interessati e in primo luogo dall'amico Ravalli.
Continuavo ad interessarmi in modo particolare dell'attività jugoslava nella
guerra civile greca per noi pericolosa perché gli iugoslavi ambivano ad
annettersi una parte dell'Epiro e dell'Albania.
In quel periodo, primavera del 1949, morì ad Atene mia Madre dopo una nuova e
violenta crisi cardiaca. Per me fu un colpo gravissimo e molto doloroso perché
era stata, nei miei riguardi, un sostegno ed una consigliera intelligente e
preziosissima. L'evento mi lasciò per lungo tempo molto triste e scoraggiato!
6) In Argentina
(pag 169 a pag. 175)
Inizio
Pagina
Dopo due anni di permanenza ad Atene fui destinato all'Ambasciata in
Argentina, inizialmente come Primo Segretario e poco dopo come Consigliere.
Fu un bellissimo viaggio verso il nuovo continente, potenzialmente molto più
ricco della vecchia e sfruttata Europa, sul transatlantico
"Conte Grande" bella
nave, ma vecchia: una delle poche superstiti dopo il conflitto mondiale. Il
viaggio fu interessante per tutti noi che per la prima volta uscivamo dal nostro
Continente. Io andavo a Buenos Aires piuttosto prevenuto, perché non vi era un
Ambasciatore di carriera, ma un politico che tra l'altro aveva un segretario di
partito. Si trattava di
Giustino Arpesani, milanese, che era stato
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con De Gasperi. Dovetti però
subito ricredermi perché si trattava di un vero liberale di vecchio stampo, cioè
direi rinascimentale e cavouriano e così da buoni lombardi tutti e due ci
intendemmo molto presto: fu il miglior Ambasciatore che io abbia avuto.
Aveva un compito molto difficile con la nostra collettività costituita per la
massima parte da "nostalgici" ex fascisti o da monarchici, ripiegatisi in
Argentina per timore di persecuzioni in Patria soprattutto da parte dei
comunisti di cui molti paventavano il ritorno al Governo.
I primi soprattutto lo accusavano di essere uno di quelli che avevano
condannato a morte Mussolini come membro del CLNAI in rappresentanza dei
liberali. Arpesani si comportò in modo molto abile e intelligente, a differenza
di molti altri Capi Missione anche di carriera, dichiarando di essere
l'Ambasciatore di tutti gli italiani e ricevendo e invitando a pranzo tutti,
indipendentemente dalla loro tendenza politica. Il suo atteggiamento veramente
liberale gli fece superare presto tutte le difficoltà. Gli fecero ancora qualche
scherzo più o meno di buon gusto come quando, all'inaugurazione di uno
stabilimento della Snia Viscosa, riuscirono a far trasmettere attraverso gli
altoparlanti l'inno ''Giovinezza" invece di quello di Mameli (il disco aveva
entrambi gli inni sulle due facce). Arpesani rimase imperturbabile sull'attenti
come se quello fosse ancora l'inno nazionale; i perturabatori quindi rimasero
scornati. Egli fece molto meglio del Presidente Gronchi che diede in
escandescenze e andò su tutte le furie tagliando la visita a Chicago quando, nel
suo viaggio ufficiale negli Stati Uniti, fu ricevuto a quell'aeroporto dalla
banda dell'Aviazione americana al suono della Marcia Reale!
Alcuni giornalisti del luogo giustificarono il fatto dicendo che non era colpa
loro se noi cambiavamo tutti i momenti gli inni!
Eravamo in piena èra peroniana e dovetti notare che mentre il
Presidente Peron
era una persona dopo tutto abbastanza moderata, la vera "passionaria" populista
arrabbiata era la
moglie Evita, di origine spagnola. In parte la colpa
dell'averla invelenita era dei cosiddetti "oligarcas" e cioè degli "estancieros"
latifondisti i quali non trovarono di meglio che diffondere dei volantini con
dei fotomontaggi di cattivo gusto che la facevano passare per una donna di
strada. Se l'avessero invece invitata in gran pompa a qualche pranzo, avrebbero
forse fatto meglio, riuscendo probabilmente ad addomesticarla.
La Principessa Colonna a Roma era stata più furba ed aveva potuto addolcire i
gerarchi fascisti sfruttandone lo snobismo.
Ebbi occasione di conoscere da vicino il Presidente Peron. Egli invitò
l'Ambasciatore e me ad un pranzo privato alla Casa Rosata e suonò personalmente
al pianoforte molte canzoni dei nostri Alpini di cui era grande ammiratore e
presso i quali ad Aosta aveva prestato servizio come ufficiale straniero. Sullo
stesso pianoforte teneva un cappello da alpino e si commuoveva mentre suonava e
canticchiava le canzoni delle nostre montagne. Era di origine italiana, del
Friuli, e stimava molto gli italiani che considerava grandi lavoratori.
Effettivamente tutto quello che c'era di buono in Argentina — dalle piantagioni
di viti, frutteti e oliveti, alla metropolitana, alle industrie e alle ferrovie
— erano stati costruiti da operai italiani; non aveva invece stima degli
immigrati spagnoli che considerava buoni a fare i portieri e i vigilanti
notturni, i "serenos".
L'Ambasciatore Arpesani era diventato suo amico e poteva telefonargli con un
numero segreto e diretto cui il Presidente rispondeva personalmente; poteva
essere anche immediatamente ricevuto con grande disdoro degli Ambasciatori di
America, Gran Bretagna e Francia che dovevano invece attendere dei mesi.
 |
L'ambasciatore Arpesani commemora Evita Peron |
Di questa intimità con Peron alcuni stupidi nostri funzionari e giornalisti, che
si atteggiavano a ultra democratici dopo essere stati ferventi fascisti, gliene
facevano una colpa!
Ma come avrebbe potuto un Ambasciatore ottenere qualche cosa per il suo Paese
senza divenire amico dell'onnipotente dittatore?
Il Governo peronista, nonostante molti errori e sperperi, era riuscito tuttavia
a modernizzare l'Argentina con la costruzione di strade e l'avvìo dell'industria
che doveva diversificare la produzione interna mantenuta dai precedenti Governi
degli "oligarcas" nella monocoltura. I latifondisti, i
più grossi dei quali di origine inglese ed ebrea, avevano pensato più ai propri
interessi e a quelli del loro principale cliente, la Gran Bretagna.
Ebbi modo di assistere alla caduta verticale e alla scomparsa in quegli anni
della egemonica posizione economica della Gran Bretagna in Argentina e in tutta
l'America latina a favore delle importazioni italiane e tedesche, migliori per
qualità e prezzo. Tutto avvenne in brevissimo tempo. Prima, assolutamente tutto
quello che si vendeva e si comprava era "made in England", poi qualunque
cosa era italiana o tedesca; in un secondo tempo, alla fine del mio soggiorno a
Buenos Aires, tutto divenne giapponese a scapito delle importazioni nostre e di
quelle germaniche. L'Agente delle case germaniche con cui dovevamo batterci era
il fratello di
Evita Peron,
Juancito Duarte che si valeva della sua posizione e
delle protezioni di cui godeva per farci una concorrenza sleale.
Dopo averne fatto di tutti i colori come corruttore delle pubbliche
amministrazioni morì misteriosamente; alcuni dissero che si era suicidato in
seguito agli scandali che aveva suscitato; altri dissero che era stato
"suicidato"!
Come in molti Paesi latino-americani, in mancanza di un ceto medio efficiente e
capace, il perno della situazione e dell'equilibrio politico era costituito
dalle Forze Armate, il cui ruolo non è solo negativo e tendente a creare dei
colpi di Stato per smania di potere, come spesso si ritiene in Europa. Se non ci
fosse l'esercito molti di questi Paesi andrebbero alla deriva o in bocca al
comunismo.
Quello che maggiormente colpiva l'osservatore politico europeo era l'assoluta
ignoranza e il disinteresse per i maggiori problemi mondiali e in particolare
per i pericoli del comunismo, e ciò non accadeva solo in Argentina ma in tutti i
Paesi del sub-continente, come anche nel Nord America. Tutto questo fu
ampiamente dimostrato, in seguito, dalla grande facilità con cui Fidel Castro
riuscì a costituire una centrale di Mosca, per la diffusione del comunismo a
poche miglia dalle spiagge degli Stati Uniti, servendosi anche di armi
fornitegli gratuitamente dagli stessi ingenui americani!
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Dalla rivista
Confidenze del Settembre 2009 - Articolo di Santi Urso
Da un articolo di Santi Urso per la rivista Confidenze Settembre 2009 Da un articolo di Santi Urso per la rivista Confidenze Settembre 2009 Da un articolo di Santi Urso per la rivista Confidenze Settembre 2009 Da un articolo di Santi Urso per la rivista Confidenze Settembre 2009
Da un articolo di Santi Urso per la rivista Confidenze Settembre 2009
Solo qualche ufficiale dell'Esercito argentino, più intelligente, cominciò a
volersi informare sui metodi e gli scopi dei dirigenti di Mosca; tutti gli altri
vivevano tranquilli nella beata ignoranza.
Un giorno in cui ero con amici argentini e cercavo di saperne di più sui loro
sentimenti e convinzioni, una ricchissima signora, proprietaria di migliaia
di ettari di terreno nel sud del Paese, mi disse: "Si viene el comunismo yo
me voy al campo", cioè "me ne vado in campagna", come se il comunismo fosse un
disordine passeggero e di nessun peso! E questo succedeva in paesi dove la
differenza di tenore di vita fra un gruppo ristretto di persone molto ricche e
la massa molto povera era ed è addirittura abissale!
La corruzione invece regnava sovrana. Un giorno dovetti andare con il mio
Ambasciatore a perorare la concessione a ditte italiane, che avevano come capo
commessa la "Pirelli", per la costruzione del cavo telefonico coassiale
Cordoba-Rosario-Buenos Aires. La concorrenza anglo-americana era molto temibile,
ma con nostra grande sorpresa il Ministro competente, dopo pochi minuti di
cordiale colloquio, ci disse: "De acuerdo, entonces un peso cada dollar para mi"
cioè un peso per ogni dollaro del contratto per me!
Arpesani restò folgorato dalla sfacciataggine del Ministro, io soddisfatto
perché avevamo vinto la causa!
Ma la cosa non era nuova in quel Paese; era avvenuto di peggio anche prima di
Peron. Era nota infatti la storia dei due incrociatori ordinati da quella Marina
(se non erro al tempo del Presidente Alvear, uno degli "oligarcas") all'Ansaldo
di Genova per cui il Parlamento di Buenos Aires aveva votato i fondi necessari e
la prima rata regolarmente pagata alla impostazione delle navi sullo scalo.
Senonché le ulteriori rate non erano state pagate e i due incrociatori, ormai
varati, restavano alla fonda a Genova. Per farli arrivare in Argentina il
Parlamento dovette stanziare nuovi fondi e tutto andò liscio senza che mai si
cercasse seriamente di sapere in quali tasche erano finite le rate non pagate!
Nel frattempo era stata bandita una gara per la fornitura alla città di Baires
di parecchi autobus diesel-elettrici. La gara fu vinta dalla Alfa Romeo, ma la
fornitura — auspice Juancito Duarte — fu concessa alla Mercedens Benz tedesca:
quale fu pertanto la mia soddisfazione quando nella calura dell'estate seguente
vidi gli autobus appena entrati in servizio fuori combattimento per fusione dei
motori!
Il nostro consigliere commerciale non poteva farlo, ma io che stavo per lasciare
l'Argentina mi presi lo sfizio di andare a sfottere i responsabili argentini,
dicendo loro che se l'ordinazione fosse stata fatta alla Alfa Romeo quello
sconcio non sarebbe accaduto, perché le ditte automobilistiche italiane sapevano
adattare radiatori e motori a tutti i climi, mentre quelle tedesche forse
ritenevano il clima di Baires simile a quello di Amburgo!
Mentre io ero incaricato di Affari essendo l'Ambasciatore in congedo, in Italia
scoppiò un'altra grana; come al solito, toccò a me risolverla!
Questa fu dovuta alla dabbenaggine del Tribunale di Genova che aveva posto sotto
sequestro due piroscafi argentini che si trovavano in quel porto, per obbligare
una ditta di quel Paese a pagare un debito notevole verso fornitori italiani.
Sennonché i piroscafi appartenevano allo Stato argentino che protestò
violentemente, minacciando di sequestrare per rappresaglia il transatlantico
italiano Augustus, allora l'ammiraglia della nostra Marina mercantile.
Dovetti telefonare a Roma ad Arpesani il quale si dette da fare per ottenere che
il Tribunale di Genova rimangiasse la sua decisione ed appianare la faccenda, ma
la nostra Magistratura fece un'ennesima brutta figura.
Durante il mio incarico d'Affari, nella Chiesa italiana dei Salesiani, ci fu la
traslazione della salma del Duca d'Aosta, già Duca di Spoleto, che io avevo
conosciuto molto bene e che era morto in seguito ad una operazione chirurgica
eseguita male.
Ritenni mio dovere presenziare alla cerimonia e telegrafai al Ministero allora
presieduto dal repubblicano Sforza "mangiamonarchici", dicendogli che avrei
deposto una corona sulla tomba, trattandosi di un Ammiraglio di Squadra della
nostra Marina.
Intanto si profilava una forte crisi economico-finanziaria per l'Argentina che
per due estati aveva sofferto una grande siccità, con gravi conseguenze per
l'agricoltura e l'allevamento, sue principali risorse. Inoltre la Gran Bretagna,
suo più forte acquirente per questi prodotti, aveva spostato i suoi acquisti
verso il Canada e l'Australia concedendo loro la cosiddetta preferenza
imperiale, in pratica l'esenzione dai dazi doganali per le importazioni nel
Regno Unito.
A tutto ciò si aggiungeva la forte spesa del Governo Peron per l'impianto di
industrie destinate a diversificare la produzione. Come conseguenza di tutti
questi fatti, il valore del peso argentino crollava: mentre alla fine della
guerra valeva come il franco svizzero, ormai era sceso al cambio di meno di 60
nostre lire e continuava a scendere, come del resto tutte le altre valute
sudamericane, eccettuata per allora quella uruguaiana.
L'Ambasciata disponeva di parecchi milioni di pesos, resto dei fondi accumulati
dal Governo fascista presso le Ambasciate nei Paesi neutrali per sopperire alle
nostre necessità durante la guerra. Purtroppo noi eravamo pagati con quei fondi,
percependo cosi sempre di meno, considerata la svalutazione del peso.
Io proposi ripetutamente a Roma di autorizzarci ad utilizzare quel denaro per
acquistare le sedi Consolari dove eravamo in affitto in modo da evitare il danno
della svalutazione, o altrimenti di autorizzare il cambio di quelle somme in
valuta pregiata o in oro. Il Ministero "competente", si fa per dire, del Tesoro
non si degnò nemmeno di rispondere alle ripetute sollecitazioni e così il
peculio andò praticamente in fumo.
A quei tempi compravamo ancora molto grano in quel Paese non essendo sufficiente
ai nostri fabbisogni, nell'immediato dopoguerra, la produzione interna. Sarebbe
stato necessario comprare al raccolto, soprattutto provvedendoci dei sacchi di
juta di cui c'era allora in Argentina estrema scarsità. Lo scrivemmo e lo
telegrafammo a Roma decine di volte, sennonché per il nostro farraginoso sistema
burocratico e la stupidità della nostra legislazione, era necessario mettere
d'accordo ben undici Enti statali, il che richiedeva dei mesi. Così si arrivava
all'acquisto del grano, sempre al momento dei prezzi più alti, alle volte quasi
il doppio rispetto a quello del momento del raccolto!
Tutto ciò confermava sempre più la mia idea che il nostro Paese potrebbe essere
anche ricco se non fosse amministrato pessimamente da politici ignoranti e
incapaci oltre che pelandroni!
Nel frattempo arrivavano a Baires centinaia e centinaia di miliardi che
fuggivano dall'Italia per timore di un avvento del comunismo al Governo o nella
speranza di far fortuna nella America Latina.
Non si riusciva a frenare questa emorragia di denaro che sarebbe stato tanto
utile da noi.
Io cercavo di persuadere i capitalisti che conoscevo affinchè reinvestissero
almeno in qualche cosa di solido, soprattutto in terreni, per
non restare con un pugno di mosche in mano, data la progressiva svalutazione
della moneta: molti non lo fecero e persero tutto!
In Argentina quello che mi mancava era la partecipazione alla politica
internazionale, allora molto attiva in Europa, ove si stava organizzando il
Mercato Comune e la
Alleanza atlantica: nell'America latina sembrava di
essere sulla luna; nessuno sapeva né si interessava di nulla, vivendo alla
giornata nella beata ignoranza!
Cercavo quindi di andarmene, dopo oltre 4 anni di permanenza, e fui fortunato
perché un bel giorno mi telefonarono dal Ministero per chiedermi se gradivo
andare come Consigliere all'Ambasciata di Tokio. Accettai subito dicendo però
che sarei andato per mare e non in aereo come chiedeva l'Ambasciatore a Tokyo,
d'Ajeta, che mi voleva al più presto per poter raggiungere il Brasile dove era
stato nominato Ambasciatore. Oltre ad amare molto le crociere per mare, mi
interessava vedere qualche cosa dell'Asia, date le lunghe fermate che il
piroscafo faceva nei vari porti, mentre in aereo non si vede nulla e si viaggia
come dei bauli.
7) In Giappone
(pag 175 a pag. 186)
Inizio
Pagina
Non conoscevo l'Estremo Oriente e pertanto durante i 46 giorni di
navigazione — 16 sull "Augustus" da Baires a Genova e 30 sulla motonave
"Victoria" del
Lloyd Triestino da Genova in Giappone — lessi vari libri che
descrivevano quei Paesi.
Fu un viaggio stupendo con mia moglie e i tre figli, in belle cabine molto
confortevoli e con un ottimo trattamento, come allora si usava ancora nella
Marineria italiana, cosa che ora purtroppo si è andata perdendo.
Durante le numerose tappe nei porti di Montevideo, Santos, Rio de Janeiro, Dakar
e poi di Porto Said, Suez, Aden, Karachi, Bombay, Colombo, Singapore e Hong
Kong, affittavamo un'auto e compivamo lunghe peregrinazioni all'interno delle
località, visitando tutto quello che c'era da vedere.
L'arrivo a Tokyo fu piuttosto desolante: la grande miseria provocata dalla
guerra e dalla sconfitta e il mare di casette di legno formicolanti di facce
gialle, che a noi sembravano tutte uguali, erano piuttosto rattristanti; il solo
spettacolo piacevole era quello del verde dei giardini ben tenuti che
circondavano tutte le case. Ma la guerra di Corea era in corso e con quella
guerra il Giappone risorgeva; infatti era stata riorganizzata l'industria che
lavorava in pieno per fornire di tutto il necessario l'esercito americano che
combatteva per le Nazioni Unite e trovava più conveniente rifornirsi in Giappone
che far giungere tutti i materiali di cui abbisognava dai lontani Stati Uniti.
JAMES ALWARD VAN FLEET,
a foot soldier through nearly four decades in the United States Army and a
commander who led major campaigns in WWII and the Korean War, died Wednesday,
September 23, 1992 at his ranch in Polk City, Florida. He was 100 years old and
died in his sleep, funeral home officials said. His career stretched from
serving as newly commissioned Second Lieutenant chasing Pancho Villa with The
Old Guard to General commanding the 8th US Army and the U.N. forces in Korea 38
years later, died in sleep September 23, 1992, and was buried at Arlington
National Cemetery Wednesday, September 29, 1992. Van Fleet was born in
Coytesville, New Jersey, March 19, 1892, but raised in Florida and adopted it as
his home. He led US troops under John J. "Black Jack" Pershing during the
Mexican Revolution against Francisco "Pancho" Villa. He commanded 17th Machine
Gun Battalion in France during WWI and in WWII moved up in command from regiment
to Division and Corps while fighting against the Germans. He led U.S. and U.N.
forces during the Korean War. President Truman called him America's "greatest
general."
His ancestry can be traced back to the Revolutionary War, where his grandfather,
Joshua Jan Van Fleet, joined New York Militia in 1779. The elder Van Fleet went
on to become a New York legislator and state judge, before retiring to serve as
a Colonel in the state militia. His father and mother, William and Mendora Van
Fleet, owned property in Chicago and were friends of Abraham Lincoln. William
Van Fleet subsequently served in Union Army during Civil War. William is
credited with being instrumental in establishing the first railroad in Florida.
He was proud to have had his son nominated in 1911 to West Point, after he
graduated from Summerlin Institute in Bartow, Florida.
In the class of 1915, he had as his classmates Dwight Eisenhower and Omar N.
Bradley, with whom he would serve in Europe in WWII. Standing more than 6 feet
tall and possessed with what was described as "an easy grace," Cadet Van Fleet
played fullback on Army's undefeated football team in his senior year. He
graduated 92nd in his class, and was commissioned an Infantry Second Lieutenant.
His first active-duty assignment was to Eagle Pass, Texas, from where he
accompanied Pershing and his 3rd Infantry Regiment in their pursuit of Villa. In
his time with "The Old Guard" he was promoted to First Lieutenant, then to
Captain as a company commander.
As the U.S. entered WWI, he went to France with the 6th Division in July 1918
and assumed command of the 17th Machine Gun Battalion. He was wounded in action
on November 4, 1918 near Sedan, France, but not before he had been decorated
twice for bravery with Silver Stars. At the end of the war, he remained on
occupation duty with his battalion until June 1919, when he was assigned to the
6th Division at Camp Grant, Illinois.
He held several ROTC assignments between the world wars. He was first assigned
to the ROTC at Kansas State Agricultural College then to South Dakota State
College. From 1921 to 1924 he was coach of the University of Florida football
team in addition to being in charge of ROTC program at the University. He would
return to the University for the 1932-33 year in a similar capacity. He further
honed his leadership skills as a battalion commander with the 42nd Infantry in
the Panama Canal Zone, before returning to the U.S. to instruct at the Infantry
School at Fort Benning, Georgia. While there he attended advanced course,
graduating in June 1929.
When WWII began, he was commander of the 8th Infantry Regiment of the 4th
Infantry Division, a unit he would train and lead on maneuvers and amphibious
exercises in more than four states before leading them into battle on D-Day,
June 6, 1944 – the Allied invasion of Europe. Colonel Van Fleet's regiment
spearheaded his Division’s landing on Utah Beach in France. Following the
landings, Supreme Allied Commander General Eisenhower told Army Chief of Staff
George C. Marshall that Van Fleet deserved credit for his leadership and
successes on the battlefield. During the conversation it was revealed that
although several commanders had recommended him for promotion, he had been
passed over because of unfavourable information in his records. Marshall
discovered that the unfavourable information really should have been attributed
to another officer with a similar name, and he was soon appointed the assistant
commander of the 2nd Infantry Division, wearing the stars of Brigadier General.
In that capacity, and later as commander of 4th and 90th Infantry Divisions in
George S. Patton's 3rd Army, he could be found in the thick of the fighting as
history was being made on the continent. His 90th Division spearheaded the
attack on Metz and the crossing of the Moselle and Saar Rivers. He also led
Patton's relief of Bastogne during the Battle of the Bulge. By March 1945 he
commanded his own Corps.
At the end of the war in Europe, Lieutenant General Van Fleet and his Corps were
deployed back to the U.S. for shipment to the Pacific, but the war there ended
while they were still at Camp Polk, Louisiana. He was returned to Europe in
1947. Within two months was transferred to the U.S. Army Group, part of the U.S.
Mission for Aid to Greece. He became commander of the Joint US Military Advisory
Group which provided operational advice to the Greek military in their battle
with the Communist insurgents. After the Greek victory, he was returned to U.S.
as commander of the Second Army at Fort Meade, Maryland, but his stay there was
short.
On April 11, 1951, he was sent to
Korea to command the 8th U.S. Army and U.N. forces, replacing Matthew B.
Ridgeway, who himself was replacing Supreme Commander Douglas MacArthur. With
the job came a fourth star. Under his leadership, U.N. troops drove North
Koreans and Chinese north until he was ordered to stop his push northward as the
communists had called for peace talks. His troops held for the next two years,
as armistice negotiations were conducted. He is credited with establishing
infantry, artillery and small-unit officer's courses and retraining the forces
in Korea. He also established the Korean military academy and sent some Korean
officers to military course in U.S.
His only son, Captain James A. Van Fleet, Jr, also fought in the war as a Air
Force B-26 pilot. During a night bombing mission in April 1952, the Captain was
reported missing in action. His status was changed to presumed dead two years
later.
The General retired from the Army on March 31, 1953, with the accolade from
former President Harry Truman of being "the greatest general we have ever had. I
sent him to Greece and he won the war. I sent him to Korea and he won the war."
Eight years later in 1961, President John F. Kennedy called him to active duty
to survey the National Guard and Special Service Forces units. During his
career, he earned more than twenty U.S. medals, including Distinguished Service
Cross with two Oak Leaf Clusters, the Distinguished Service Medal with three Oak
Leaf Clusters, the Silver Star with two Oak Leaf Clusters, the Bronze Star Medal
with two Oak Leaf Clusters, and the Purple Heart with two Oak Leaf Clusters. He
also was authorized to wear the Combat Infantryman's Badge. His last public
appearance came in March 1992, during his 100th birthday celebration here. "Thank
you very much; I hope I deserve some of it," he said from a wheelchair in a
barely audible voice. He was buried on Wednesday, September 30, 1992. Survivors
include two daughters, Helen McConnell and Dempsie McChristian; eight
grandchildren; and twelve great-grand-children.
http://warandgame.blogspot.com/2008/10/james-alward-van-fleet.html |
Ritrovai a Tokyo il
Gen. Van Fleet che avevo conosciuto in Grecia e che ora
comandava l'esercito del Far East. Il poveretto aveva perduto in Corea l'unico
figlio maschio, ufficiale aviatore combattente.
Gli americani avevano patito in quella guerra un paio di rovesci ritirandosi
fino al mare, salvati solo dalle Artiglierie delle loro navi e dagli aeroplani
delle portaerei, essendo stati perduti tutti gli aeroporti in terraferma sotto
la spinta offensiva dei cinesi. Questi ultimi erano venuti a piedi dal loro
Paese, marciando di notte o quando nevicava, per non essere scorti
dall'Aviazione americana e dormendo d'inverno all'addiaccio con 30 gradi sotto
zero, coperti dalle loro uniformi di trapunta imbottita e impermeabilizzata.
Attaccavano all'improvviso in massa senza curarsi delle perdite atroci che
subivano. La fanteria americana, abituata ad essere trasportata in autocarro e
in jeep, non aveva resistito alla faticosa marcia in combattimento. Avevano
resistito solo i "marines" che si erano sottoposti a un duro addestramento e
allenamento, come quelli di una volta dei nostri alpini. Anche un reggimento
turco aveva combattuto molto bene, finendo quasi completamente distrutto. Noi
avevamo contribuito con un
ospedale da campo della Croce Rossa in cui lavorava
un bravo medico bergamasco che ebbi occasione di conoscere, il
dr. Bosetti.
Nell'Ambasciata non c'era né Ambasciatore né Consigliere Commerciale; il
Ministero infatti non aveva trovato chi volesse venire così lontano e parlasse
l'inglese, unica lingua d'uso nell'Estremo Oriente. Si era trovato chi parlava
un po' di francese, ma era inutile dato che in Giappone nessuno parla questa
lingua. In Italia si doveva ancora capire che la vera lingua diplomatica ormai
non è il francese come nel '700 ma l'inglese, non in funzione della Gran
Bretagna, ma in funzione dell'America la cui influenza è dominante! Dovevo
quindi dedicarmi a tutto, ma ero contento perché non avevo superiori!Per quanto
riguardava l'Ufficio commerciale, potei risolvere il problema assumendo come
impiegato locale — c'erano molti posti vacanti — un generale di divisione
giapponese, a riposo, il quale sapeva anche l'italiano, perché era stato per
tutta la guerra Addetto Militare a Roma. Il poveretto si arrabattava facendo il
rappresentante di qualche ditta perché, con la sola misera pensione, moriva di
fame. Era un tipo in gamba e per opera sua l'intercambio con l'Italia raddoppiò
presto di valore.
Un giorno però mi fece uno scherzo tutto giapponese che io non gradii molto.
C'era una nostra fabbrica di macchine da cucire che ci tempestava di proteste,
perché le fabbriche analoghe nipponiche copiavano i suoi modelli, io lo dissi al
generale, in quanto tutti gli interventi presso il Governo di Tokyo erano
rimasti senza effetto perché il Giappone non aveva firmato la convenzione
industriale. Il Generale mi disse che se ne sarebbe occupato. Infatti una bella
mattina trovai sul mio tavolo di lavoro una magnifica macchina da cucire
elettrica, ultimo modello ancora non in vendita ma che era stata esposta alla
Fiera di Osaka.
Il Generale l'aveva fatta sottrarre dai suoi scagnozzi ex-barbe finte
dell'esercito e mi diceva che bisognava inviarla alla ditta italiana che
protestava. Mi arrabbiai con lui e gliene dissi di tutti i colori rifiutandomi
di inviare per corriere diplomatico un oggetto rubato. Imperturbabile mi rispose
che ci avrebbe pensato lui. Ed infatti con un piroscafo nipponico la mandò alla
nostra ditta che non protestò più!
E' comunque certo che se i giapponesi copiano le nostre idee ed i nostri
prodotti, tuttavia li perfezionano e li migliorano sempre, come hanno fatto per
l'elettronica, per le navi, le motociclette etc.
L'industria nipponica, che era in pieno sviluppo, si era specializzata in
particolare nella costruzione delle grandi navi-cisterna fino a un milione di
tonnellate, che fabbricava a prezzo fisso e a data fissa di consegna; per questi
motivi fu vinta in pieno la concorrenza dei cantieri occidentali che non
potevano accettare le stesse condizioni per i continui scioperi ed aumenti di
salari e di costi. Non fu quindi, come si crede, il minor prezzo — che non
esisteva — ma il fatto che gli armatori potevano andare sul sicuro conoscendo
esattamente, in anticipo, la spesa da affrontare.
I giapponesi poi, sempre furbi, costruivano tutto, specie i motori e le
tubazioni delle navi, di misure alquanto differenti da quelle occidentali in
modo che per i pezzi di ricambio e le riparazioni era sempre necessario
ricorrere ai loro cantieri.
Noi avevamo difficoltà nell'alimentare le nostre esportazioni verso il Giappone
perché le nostre economie erano molto similari e non permettevano un
interscambio. Riuscivamo a vendere soprattutto riso che noi producevamo in
abbondanza mentre la produzione locale era sempre insufficiente, trattandosi del
principale nutrimento del Paese.
Veniva in Giappone un certo signor Bianchi, grosso produttore risiero del
Piemonte, per vendere il suo prodotto e quello di molti suoi colleghi.
Era una simpatica persona; alloggiava all'Imperial Hotel e spesso passava il suo
tempo nella cucina del grande albergo per insegnare ai cuochi giapponesi i
nostri piatti migliori. Nel menu di quel ristorante si legge infatti ancora
"risotto alla Bianchi", "cotolette alla Bianchi" etc.
Purtroppo per vendere il nostro prodotto bisognava però fare i conti con l'Ente
risi e col nostro Ministero del Commercio estero, due Enti inutili che si
dovevano abolire immediatamente per migliorare e aumentare le esportazioni
italiane e la stessa cosa valeva per altri dicasteri nostrani in grado di
creare solo posti per politicanti incompetenti e non sempre onesti!
Basti pensare che per ogni contratto con l'estero, secondo i nostri sistemi,
bisognava interessare e mettere d'accordo una dozzina di Enti competenti, sempre
l'uno contro l'altro armati, secondo la nostra prassi burocratica che a tutte le
altre contese preferisce la guerra "italo-italiana"!
Intanto — come al solito — il tempo passava e qualcun altro ci soffiava
l'affare!
Per quanto poi concerneva il riso, uno sprovveduto Ministro siciliano del
Commercio estero col quale litigai e che per questo voleva farmi mettere a
riposo (!), pretendeva il pagamento in dollari. Ora il riso è una merce povera
che i giapponesi potevano ottenere da diversi Paesi come Egitto, Siam, Cina
comunista e persino Brasile e Argentina: essi preferivano il nostro, quando non
era muffito, come alle volte lo spediva l'Ente risi, ma chiedevano di pagare con
navi cisterna o elettrodi di grafite di cui avevamo molto bisogno e persino con
migliaia di tonnellate del loro rame, merce pregiata e strategica che noi
dovevamo assolutamente comperare all'estero, ma niente andava bene allo
sprovveduto Ministro.
Effettivamente in principio il Giappone ci aveva pagato in dollari, quando ne
aveva in quantità durante la guerra di Corea, ma ormai ne aveva veramente meno e
pertanto non era disposto a sprecarli!
Un giorno vidi come si deve lavorare e come si fanno gli affari nei Paesi seri.
Ero in visita dal collega tedesco che era anche suocero del nostro Direttore
Generale degli Affari politici; secondo le usanze diplomatiche, io, che ero
l'ultimo arrivato, dovevo fare visita a tutti i rappresentanti dei Paesi amici
che erano arrivati in luogo prima di me. Mentre parlavamo, suonò il suo telefono
e si scusò per andare a rispondere dicendo che aveva chiamato a Bonn il Ministro
dell'Economia. Io feci cenno di andarmene per non ascoltare, ma egli mi disse di
restare. Così, con quel poco di tedesco che conoscevo, capii che in meno di
dieci minuti di conversazione direttamente con il Vice Ministro dell'Economia
aveva ottenuto l'autorizzazione a stringere un contratto di centinaia di milioni
di dollari per la fornitura di un impianto ad una grossa industria nipponica:
gli era bastato assicurare che il prezzo era congruo e che l'acquirente era
solvibile!
Così si fanno gli affari, non con la miriade di nostri Enti burocratici.
D'altronde in Germania esisteva un solo dicastero, quello dell'Economia
competente per tutti i problemi economici e finanziari e non la dozzina di
nostre organizzazioni o, meglio, disorganizzazioni.
La cosa più complicata per me, come per tutti, era di comprendere la mentalità
degli isolani con cui avevo a che fare. La stessa cosa accadeva a dei missionari
gesuiti, fra cui vari italiani, da oltre cinquant'anni in loco e che conoscevano
perfettamente la lingua tanto da essere stati incaricati dal Governo di Tokyo
della traduzione, nella lingua moderna parlata e in inglese, di antichi
documenti giapponesi di valore storico, (questi missionari infatti erano gli
unici in grado di farlo). Essi mi avevano assicurato di non aver ancora potuto
approfondire la mentalità e l'animo dei giapponesi tanto erano lontani da quelli
occidentali!
Solo l' Ambasciatore di Francia, Berard,
che poi fu nominato Ambasciatore a Roma,
con presunzione tutta francese, dopo poche settimane dal suo arrivo e dopo la
lettura di qualche "bouquin" ovviamente francese, riteneva di sapere tutto e
sputava sentenze sull'avvenire del Paese che dichiarava essere destinato a
diventare preda del comunismo.
A trent'anni da allora il Governo di Tokyo è ancora formato dai
liberal-conservatori con una maggioranza assoluta nella
Dieta!
Come è noto parecchi diplomatici francesi hanno l'ambizione di scrivere rapporti
letterari che possano rivaleggiare con quelli famosi di alcuni loro predecessori
e qualcuno ci riesce, mentre altri scrivono anche delle fesserie!
Io vidi molti di questi rapporti, perché la mia segretaria e stenodattilografa
abitava, per la deficienza di alloggi, in un appartamentino del Masonic Building
con una sua amica, segretaria dell'Ambasciatore francese. Era una bravissima
piemontese che conosceva perfettamente il francese e pertanto aiutava la sua
amica a battere a macchina i rapporti stenografati che non so come quest'ultima
potesse portare fuori ufficio. Da noi era una cosa proibitissima, sulla quale
allora si vigilava: oggi, col rilassamento della disciplina, non so cosa accada!
Aggiungendo di nascosto una velina al dattiloscritto, la mia segretaria mi
faceva leggere i rapporti di quell'Ambasciatore che, comunque, non avevano gran
che di riservato.
Ai tempi del mio arrivo in Giappone, era ancora vivo il ricordo del
processo per
crimini di guerra e della condanna a morte dell'ex Primo Ministro
Generale Tojo
che aveva dichiarato guerra all'America e ordinato l'attacco di Pearl Harbor.
Egli al processo si era comportato da vero samurai, prendendosi tutte le colpe,
le responsabilità e salvando l'Imperatore che molti americani — quelli che erano
stati al caldo a Washington e non i militari — avrebbero voluto processare. Tojo
infatti dichiarò che
l'Imperatore non voleva la guerra mentre lui, venendo meno
al rispetto dovuto alla sua persona, gli aveva forzato la mano, il che dopo
tutto era anche vero. Così prese su di sé le colpe dei generali che avevano
compiuto delle atrocità, asserendo che in proposito avevano ricevuto gli ordini
da lui.
Egli mori con grande dignità lasciando alla moglie e ai figli una
lettera-testamento che è stata inserita nei libri di testo delle scuole ed è
come un monumento di grandezza giapponese che lo ha trasformato in un eroe della
patria...
Tale e quale Badoglio che voleva far credere di non essere mai stato fascista, o
come i gerarchi nazisti che al processo di Norimberga avevano dato tutte le
colpe a Hitler — già morto — tentando di salvarsi!!
Certo qualche fermento di propaganda comunista serpeggiava fra i giovani
soprattutto fra gli studenti, ma si trattava di comunismo alla cinese, non certo
alla russa.
I cinesi infatti erano abbastanza rispettati e la loro civiltà antica
ammirata; i russi invece erano i più odiati fra i bianchi perché nemici da
sempre e soprattutto perché avevano aggredito a tradimento l'armata giapponese
in Manciuria, quando il Giappone aveva già chiesto l'armistizio all'America
proprio tramite Mosca, molto ingenuamente, piuttosto che tramite Svizzera o
Vaticano.
I Sovietici non avevano trasmesso la richiesta e avevano attaccato il
Giappone già prostrato e bombardato atomicamente. Questo era il grande errore di
comprensione nei rapporti dell'Ambasciatore francese Berard, il quale non si era
nemmeno accorto che gli stessi studenti, che parevano comunisti, dopo aver
ottenuto un impiego e dopo il matrimonio votavano per il partito conservatore!
Fra i bianchi, i nipponici disprezzavano anche gli inglesi e i francesi perché,
durante il conflitto con loro, avevano sempre perduto senza combinare niente:
gli americani invece erano odiati, ma non disprezzati, perché li avevano vinti.
Gli unici che trovavano grazia presso di loro eravamo noi e i tedeschi, in
guerra eravamo stati loro alleati.
Il più rispettato comunque tra gli americani era il
Generale Mac Arthur, il vero
vincitore che, dopo aver punito e umiliato il Giappone, ne permise la
ricostruzione mantenendo al suo posto l'Imperatore contro le intenzioni dei
politicanti di Washington. Egli si atteggiò a una specie di
"shogun" straniero,
uno cioè di quei ministri nipponici che avevano usurpato i poteri imperiali similmente a quanto era avvenuto nell'alto Medio Evo in Francia con i "prefetti
di palazzo".
Con l'aiuto del Presidente della
N.H.K. — la radiotelevisione giapponese che si
assunse tutte le spese dato che il Governo italiano non dette nemmeno una lira —
potemmo organizzare una stagione lirica italiana, con quattro opere e la Messa
da Requiem di Verdi, con il concorso del Direttore d'orchestra della Scala,
Vittorio Gui, e i cantanti di quel teatro. I cori e
l'orchestra erano giapponesi. Il Maestro Gui sudò le classiche sette camicie per
armonizzare l'orchestra, cori e cantanti, provando e riprovando per vari giorni
fino a tarda notte, tuttavia era entusiasta degli orchestrali giapponesi che
pazientemente e senza nulla chiedere si erano assoggettati a quell'aumento di
lavoro. "Quelli della 'Scala' — mi diceva — avrebbero fatto dieci ricorsi ai
Sindacati e chiesto vari aumenti di stipendio!" L'avvenimento culturale italiano
che aveva luogo per la prima volta nell'Impero del Sol Levante, ebbe enorme
successo. Ma il mio amico, Presidente della Radio, che era stato a Roma quale
corrispondente della stampa nipponica durante la guerra, da buon giapponese,
trovò modo di rifarsi della spesa di cento milioni di lire di quell'epoca!
Infatti aveva fatto registrare le esecuzioni e continuò a trasmetterle per un
anno intero. Questo non era previsto nel contratto, ma non potevamo lamentarci
perché il Giappone non aveva ancora sottoscritto la Convenzione internazionale
sui diritti d'autore!
A me non importava nulla, anzi ero contento perché per le strade di Tokyo e
nella metropolitana si sentivano i giovani canticchiare e fischiettare le arie
italiane che erano molto piaciute. Chi ci rimetteva però era la
Casa Ricordi
che, comunque, aveva già più che spremuto i grandi compositori italiani!
Il fascino e le sorprese della vita in fondo
all'Oceano. Una spedizione scientifica italiana si reca per una missione nel Mar
Rosso. Con opportuni accorgimenti tecnici all'avanguardia per l'epoca, la troupe
di Folco Quilici documenta il fascino della vita negli abissi dell'Oceano
Indiano. Nella ricostruzione si privilegiano gli aspetti più spettacolari: i
rischi che corrono i sommozzatori, gli animali insoliti, la flora pittoresca che
caratterizza il fondo del mare. Folco Quilici è stato uno degli inventori di un
modo di concepire il documentario inteso come spettacolo. Per questo il suo
lavoro ha successo commerciale, ma non piace ai critici. Ma la bellezza delle
immagini, innegabile, la fa da padrona.
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Dopo qualche tempo
Folco Quilici e
Leonardo Bonzi ci inviarono il loro film
"Sesto Continente" perché fosse proiettato, sperando di rifarsi almeno di una
parte delle ingenti spese che avevano sostenuto.Trattandosi di un film sulla vita animale e vegetale negli oceani, pensai che
doveva interessare molto l'Imperatore che era un attento studioso di tali
fenomeni e pertanto gliene feci mandare in omaggio una copia. Inoltre dissi al
Gran Maestro delle Cerimonie di Corte col quale avevo fatto amicizia, che
saremmo stati molto onorati di poter ospitare l'Imperatore alla prima
rappresentazione del film nel più grande cinematografo giapponese e il ricavato
intendevamo completamente devolverlo a beneficio dei mutilati e invalidi di
guerra — i quali avevano una pensione da fame — e della Croce Rossa nipponica.
Mi rispose che l'Imperatore non andava mai a pubbliche manifestazioni e che
aveva declinato inviti da parte degli Ambasciatori d'America e di Gran Bretagna,
ma che comunque gli avrebbe rivolto la mia richiesta.
Il dono del film "Sesto Continente" e la devoluzione alla Croce Rossa
dell'introito della "prima" cinematografica sortì il suo effetto: non solo
l'Imperatore, ma tutta la famiglia imperiale venne alla prima rappresentazione,
dopo di che il film di Folco Quilici ebbe un gran successo e per un anno fu
programmato in tutto il Paese. Per quell'anno avevamo compiuto la nostra
attività culturale senza spendere una lira che, d'altronde, il patrio Governo
non ci avrebbe concesso.
L'anno successivo invece organizzammo la settimana del film italiano con
l'intervento di
Silvana Pampanini.
In quel frattempo ricevemmo la visita
ufficiale del Ministro Gaetano Martino, la prima di un Ministro degli Esteri
italiano in Giappone. L'On. Martino, liberale e Capo della nostra diplomazia nel
Governo
Scelba, era medico e Rettore dell'Università di Messina. Fu e, anzi, è
ancora, senza dubbio, il miglior Ministro degli Esteri che la Repubblica abbia
avuto.
A lui risale esclusivamente il merito di aver indotto i partners europei a
firmare il trattato di Roma costitutivo della Comunità Economica Europea,
costringendoli quasi, con le successive conferenze di Venezia, Messina e Roma, a
non tergiversare creando nuove difficoltà, com'era ed è tuttora loro abitudine.
In occasione di un pranzo che diedi a casa mia in suo onore Martino fece
un'ottima impressione agli Ambasciatori dei Paesi Nato e della CEE, che pure
avevo invitato, quando si rivolse ad ognuno di loro nella propria lingua: era il
primo e forse l'ultimo Ministro degli Esteri italiano, poliglotta!
Egli era accompagnato dal Direttore Generale degli Affari politici, Magistrati,
dal Capo del Servizio stampa, Giustiniani e dal suo Capo di Gabinetto, Migone
che chiamava l' "Ammiraglio". Un giorno che Migone non era presente domandai
all'On. Martino perché lo chiamasse cosi. Mi rispose: "perché quando gioca a
'bridge', si comporta come l'Ammiraglio borbonico". Ci raccontò un fatto
successo al tempo del
Re Ferdinando di Napoli, al momento della
crisi degli
zolfi, quando cioè lo stesso con una nazionalizzazione ante litteram aveva
espropriato la Società inglese concessionaria delle miniere di zolfo perché
sfruttava indegnamente i poveri zolfatari. Il Governo inglese, dopo aver
seriamente protestato, aveva inviato una squadra navale per una dimostrazione
ostile davanti a Napoli. Allora l'Ammiraglio comandante in capo della flotta
borbonica si recò dal Re e disse: "Maestà, ho già dato gli ordini: la i
Divisione navale di fronte a Capri, la 2a di fronte a Ischia accerchiano la
squadra inglese e ce la 'fumassimo in tà pippa!' ".Al che il re Ferdinando, che
era una persona saggia, rispose: "Né, Ammirà, vi prodesse o' c...!?" "E così —
soggiunse Martino — anche Migone fa come l'Ammiraglio borbonico quando gioca a
bridge; fa delle dichiarazioni troppo forti e non riesce mai a fare le mani che
ha dichiarato andando sempre sotto coi punti!"
"Magari Vittorio Emanuele III avesse risposto così a Mussolini quando volle
dichiarare guerra al mondo intero!", commentai io.
Per comprendere un po' la mentalità dei giapponesi bisogna vedere come si
comportano quando c'è un terremoto, cosa frequentissima in quel Paese.
Di solito fanno finta di non accorgersene per non "perdere la faccia"
dimostrando panico. Però, quando il terremoto è molto forte, se la squagliano
anche loro. È quello che accadde una sera in uno dei cinematografi più grandi e
moderni di Tokio ove ero andato con l'Addetto militare Generale pilota,
Spadaccini. Eravamo soli perché la mia famiglia era rimpatriata. L'avevo fatta
rientrare a Roma (avendo richiesto di essere richiamato in Patria per gli studi
dei figli, ma dovendo restare ancora qualche mese per attendere il nuovo
Ambasciatore Fracassi Ratti), non appena era iniziata la crisi di Suez per la
nazionalizzazione del canale ad opera di Nasser, perché non restasse bloccata
con le "masserizie", come si dice in gergo burocratico. Infatti il loro fu
l'ultimo piroscafo-passeggeri italiano che potè attraversare il Canale.
A metà dello spettacolo le luci si spensero per un violentissimo e lungo
terremoto e vedemmo tutti i giapponesi precipitarsi, come fosse un solo uomo,
verso le uscite; noi due, i soli bianchi presenti, nonostante il nostro
innegabile spavento, ci guardammo ma non ci muovemmo perché, essendo in
galleria, lo scendere le scale a chiocciola in mezzo alla folla in preda al
panico sarebbe stato molto pericoloso. Restammo pertanto seduti sperando nella
buona e solida costruzione dell'edificio ad opera degli ingegneri nipponici.
Quando il terremoto finalmente terminò e i giapponesi rientrarono nel cinema,
erano tutti mogi mogi: avevano "perduto la faccia" vedendo che solo due bianchi
erano rimasti al loro posto.
Passammo gratuitamente per degli eroi ai loro occhi nonostante la grande paura
che avevamo avuto!
Bisogna proprio dire che le moderne costruzioni antisismiche del Giappone sono
decisamente ben fatte. Essi non usano né pietre né mattoni e poco cemento
armato. Lo scheletro degli edifici è costituito da travi d'acciaio saldate
elettricamente — la chiamano struttura navale —; il tutto poggia su piattaforme
idrauliche mobili che mantengono il loro assetto orizzontale. I
muri maestri sono sostituiti da doppi pannelli prefabbricati leggeri, con
in mezzo materiale coibente non infiammabile, per lo più paglia di vetro. Il
tutto è elastico e si muove con il terremoto, ma non cede.
Allo scoppio della
crisi di Suez i commenti nipponici erano piuttosto caustici:
ovviamente essi si toglievano un sassolino dalle scarpe attaccando gli ex nemici
che invero diedero tutta la misura della loro incapacità, preparando malissimo
la loro spedizione contro l'Egitto, sia diplomaticamente che militarmente.
Gli inglesi "more solito", non fecero altro che bombardare duramente Porto Said
e le cittadine vicine al Canale massacrando le innocenti popolazioni civili
senza riuscire a rioccupare il Canale.
Avrebbero fatto meglio a lasciare operare gli israeliani!
Fu la dimostrazione pratica della perdita del rango di grande potenza da parte
della Francia e della Gran Bretagna, rango che non riacquistarono nemmeno in
seguito, nonostante il possesso della bomba atomica.
I giapponesi, contrari in principio all'operazione, perché era condotta
da popoli bianchi contro un Paese di colore, commentarono divertiti: "sarebbero
bastati quattro o cinque battaglioni di paracadutisti giapponesi o tedeschi per
riconquistare il canale!".
Frattanto era arrivato finalmente il nuovo Ambasciatore Fracassi ed ebbe luogo
il solito ricevimento di benvenuto offerto in suo onore dal Presidente
dell'Associazione Giappone-Italia il quale parlava italiano avendo studiato
legge a Roma. Egli soleva leggere, prima in giapponese e poi in italiano, un
breve indirizzo di benvenuto.
Il guaio era che i giapponesi usano dare agli Ambasciatori il titolo di
"eccellenza" che in Giappone si dice "cacca" (sic) e si pospone al cognome. Ora
il tutto suonava come "Fracassi Ratti di Torre Rossano cacca!", al che noi non
potevamo restare seri e tanto meno la moglie dell'Ambasciatore, mentre lui
sembrava piuttosto sorpreso e perplesso. Dopo ci disse: "Perché non mi avete
avvertito?", ma non lo avevamo fatto di proposito, proprio per vedere che faccia
faceva e per farci una risata.
La stessa cosa era avvenuta all'arrivo del precedente Ambasciatore, Del Drago.
Potei così tornare a Roma: cominciavo ad averne abbastanza anche dell'Estremo
Oriente.
Nel viaggio di rientro l'aereo della SAS sul quale viaggiavo (non c'era ancora
una linea aerea italiana per Tokyo) ebbe un incidente piuttosto spettacolare che
preoccupò parecchio tutti noi: l'incendio di un motore, mentre sorvolavamo
l'India. Per fortuna il pilota riuscì a spegnere le fiamme, ma dovette atterrare
a Bombay. Io riuscii a trasbordare su un aereo della K.L.M. che ci seguiva a
un'ora di distanza e così arrivai a Roma quasi in orario.
8) Roma: al Ministero
(pag 186 a pag. 198)
Inizio
Pagina
A Palazzo Chigi mi fu affidato l'Ufficio politico che si occupava
dell'America latina e così tornai sotto le mansarde che ospitavano gli uffici
politici.
Intanto a Roma si susseguivano vari Governi, molto migliori di quelli che
vennero anni dopo: la tradizione degasperiana per fortuna continuava.
Il Governo Scelba ebbe il merito di riuscire a far firmare, come si è detto,
dagli altri cinque europei il
Trattato a Roma (1956) costitutivo della CEE oltre
che ristabilire energicamente l'ordine interno. Scelba andò anche in visita
ufficiale negli Stati Uniti.
Ai giornalisti americani che al suo arrivo gli si affollarono intorno
domandandogli quali altri aiuti era venuto a chiedere, rispose molto
dignitosamente che era venuto solo a ringraziare il Governo e il popolo
americano per avere offerto all'Italia delle stampelle quando non poteva
camminare con le sue sole gambe; ora però poteva farlo e voleva dimostrare la
sua gratitudine all'America. Queste dichiarazioni, unitamente al miracolo
economico in pieno svolgimento e all'ordine interno ristabilito, servirono
notevolmente a risollevare il buon nome del nostro Paese, specie in America.
Durante detto Governo e col Ministro degli Esteri Martino avvenne a Palazzo
Chigi un incidente piuttosto serio.
Il
Presidente Gronchi era visceralmente contrario al Patto Atlantico da noi
firmato e desiderava un riavvicinamento al Partito comunista e all'U.R.S.S.,
mentre avrebbe voluto esercitare, come Presidente, un'attività più consona a
quella di Capo dell'Esecutivo.
Profittando pertanto dell'assenza da Roma del Ministro Martino, consegnò al Segretario Generale Rossi Longhi una lettera per il Presidente
degli Stati Uniti, da inoltrare per corriere diplomatico, lettera che tra
l'altro criticava la politica atlantica.
Rossi Longhi trattenne tale lettera che avrebbe dovuto comportare,
ovviamente, l'approvazione del Governo. Gronchi andò su tutte le furie ma
Martino e il Governo non fecero partire la missiva. Gronchi, persona che non
perdonava, pretese la sostituzione dell'ottimo Segretario Generale che fu
destinato a Parigi.
LA FARNESINA
Nel ’58 viene inaugurato il
nuovo Ministero degli esteri, nell'omonimo mussoliniano palazzo.

Il
ministero però viene messo a soqquadro anche da un’altra novità: l’arrivo di
giovani diplomatici che godono della fiducia di Fanfani e che vengono chiamati
“MAU-MAU” come la feroce setta del Kenya.
Piero Ottone oggi commenta: «Avevano
acquistato molto potere e lo usavano in una maniera violenta, brutale e
spregiudicata. L’incoraggiamento a fare queste rivoluzioni interne al ministero
degli esteri (quali imporre le loro regole e “tagliare teste” in maniera
violenta), tutta questa forza politica gli venne data fondamentalmente da
Amintore Fanfani».
http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=459 |
Là ci restò pochissimo perché all'avvento di Fanfani, quale
Ministro degli Esteri, i Mao-Mao, funzionari da lui allevati e protetti per
disgrazia della diplomazia italiana, e allora potentissimi, riuscirono a farlo
richiamare e mettere a riposo, vendicandosi così del fatto che Rossi Longhi si
era sempre opposto alle indebite e ripetute promozioni da loro pretese e da
Fanfani concesse.
De Gaulle, colpito dal breve soggiorno di Rossi Longhi a Parigi, commentò
sarcastico, ma con ragione: "Quando si trattano gli Ambasciatori come camerieri
si finisce per avere dei camerieri come Ambasciatori!"
E proprio quello che da allora cominciava ad avvenire in Italia! Ma De
Gaulle, per dimostrare la stima che aveva in Rossi Longhi, gli consegnò subito
la
Gran Croce della Legion d'Onore, nonostante il brevissimo tempo della sua
missione a Parigi non comportasse tale concessione.
Il
Ministro Pella, succeduto a Gaetano Martino, si rese benemerito per la
restituzione di Trieste alla Madre Patria.
Il suo atteggiamento fermo verso gli Alleati, ma specie verso Tito, portò ad
ottenere la
Zona A del territorio di Trieste. Purtroppo si perdeva la Zona B, ma
questa non la si sarebbe mai avuta senza una nuova guerra.
In precedenza erano avvenuti a Trieste degli incidenti. Una maestrina di
quella città aveva ucciso a revolverate il generale inglese Governatore del
territorio, favoreggiatore degli slavi (che ogni notte spostavano a loro
vantaggio i paletti di confine) e nemico giurato degli italiani. La maestrina fu
condannata a pesanti pene di carcere, ma aveva dimostrato che qualcuno in Italia era ancora sensibile al patriottismo e
all'onore nazionale. Per fortuna dopo qualche anno fu graziata dal Presidente.
L'ideatore dell'azione per la riannessione di Trieste era stato
l'Ambasciatore Del Balzo, allora Direttore Generale degli Affari Politici.
Il Presidente Pella aveva indetto, su proposta del mio ufficio, una
conferenza a Montevideo di tutti i nostri Rappresentanti nell'America latina per
cercare di ravvivare l'interesse e la nostra azione economico-politica in quei
Paesi.
Cercai di preparare la conferenza — cui parteciparono Pella e i pezzi grossi
ministeriali — meglio che potei, ma purtroppo essa non concluse gran che in
quanto il nostro Governo non poteva impegnare molti mezzi finanziari ed i nostri
rappresentanti in quei Paesi dimostrarono di non brillare per capacità e
dinamicità.
Certo che nei Paesi medi e piccoli dell'America latina non si inviavano i
migliori cervelli ed era demoralizzante sentire i nostri colleghi di laggiù
ripetere pappagallescamente il contenuto dei propri rapporti circa la cronaca e
la situazione locali, senza una proposta o un'idea!
L'unico brillante era stato D'Ajeta, Ambasciatore in Brasile, ma le sue
proposte avrebbero dovuto ottenere miliardi e miliardi dall'erario per gli
interventi in quell'immenso Paese destinato a un grande futuro.
Si andava intanto sviluppando a Cuba la rivoluzione di
Fidel Castro contro la
dittatura di
Fulgencio Batista. Un giorno venne a trovarmi a Palazzo Chigi
l'Incaricato d'Affari degli Stati Uniti (l'Ambasciatore era assente), per
chiedere anche a me come usano fare loro, cosa pensavo di Castro; gli risposi
che era un agente comunista che lavorava per sé e per l'U.R.S.S. con lo scopo di
costituire una centrale di propaganda e di sovversione in un punto cruciale
vicinissimo alle coste degli Stati Uniti.
Mi rispose che non riteneva affatto si trattasse di una rivoluzione del
genere, ma piuttosto di un movimento democratico per ottenere la fine della
corruzione del dittatore e la riforma agraria.
Replicai molto freddamente che avevo sentito dire la stessa cosa anni prima
in Estremo Oriente da parte del Generale Marshall, Ambasciatore americano in
Cina a proposito della rivoluzione di Mao Tse Tung!
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Dalle
copertine del Time Magazine: Fulgencio Batista e Fidel Castro in occasione di
vari momenti storici |
Avevo già notato in Giappone che, mentre gli Ufficiali dello Stato Maggiore
americano dopo tante guerre cominciavano ad essere preparati e degni di un
grande Paese, i funzionari dello "State Department" continuavano ad essere
ingenui, ignoranti o ipocriti da buoni "liberals e radicals", degni allievi dei
professori sinistrorsi delle celebrate università.
Intanto eravamo assillati dalle richieste di vendita d'armi ai Paesi
sottosviluppati, perorate dai soliti deputati rappresentanti di province ove
esistevano dette fabbriche.
Per quanto mi riguardava ero sempre contrario alle richieste dei mercanti di
cannoni per i Paesi di cui dovevo occuparmi e pertanto davo sempre parere
negativo.
L'ultima volta mi si voleva far firmare un'autorizzazione per l'esportazione
a Cuba, ancora ai tempi di Batista, di pezzi di artiglieria obici da 105 che noi
avevamo prodotto per la Nato e potevamo quindi vendere solo ai Paesi
dell'Alleanza. Mi rifiutai nel modo più assoluto, adducendo la duplice ragione
che io, di solito, ero autorizzato solo a firmare le cosiddette "rifischiature"
dei rapporti venuti dall'estero ad altre nostre Rappresentanze ed inoltre vi era
il divieto Nato cui ci eravamo impegnati. Il Direttore Generale, Ministro
Straneo che pure non voleva firmare, mi disse: "Ma il Ministro Fanfani è
d'accordo". Risposi: "Allora se la firmi lui".
Le armi furono concesse, ma finirono a Fidel Castro perché intanto Batista
era caduto!
In quegli anni si succedevano i Governi e i Ministri degli Esteri: Piccioni,
Fanfani, Medici, e più tardi Saragat e Moro.
    Nessuno di loro fece mai nulla
ali'infuori del promuovere ripetutamente i loro tirapiedi e portaborse. Piccioni
arrivò a promuovere due volte, in poco più di sei mesi, il suo Capo di Gabinetto
(che gli faceva quasi da cameriere essendo lui incapace di muoversi, in
particolare all'estero, e giocava con lui a "bridge" e a scopone), violando la
legge che prescriveva due anni di permanenza nel grado per essere promossi "a
scelta".
Ma la Corte dei Conti registrava tutto! Altro che fascismo!
Fanfani rimase celebre per aver trasferito il Ministero alla "Farnesina" e
per la protezione data ai Mao-Mao e la conseguente disorganizzazione dello
stesso Ministero con le sue cosiddette riforme.
In quegli anni fui inviato per tre volte a New York, all'ONU, per rinforzare la nostra Delegazione in occasione delle Assemblee
dell'Organizzazione. Mio compito era quello di curare che le delegazioni
latinoamericane e dei Paesi "emergenti" votassero possibilmente in nostro
favore, in occasione di decisioni concernenti l'Alto Adige e le nostre
ex-Colonie.
La manovra riuscì abbastanza. Le nostre tesi furono sostenute benissimo,
soprattutto dal Delegato argentino e da quello somalo, meglio di quanto avremmo
potuto fare noi, parte in causa. Soprattutto il secondo, parlando un buon
italiano, sosteneva la nostra opera di civiltà e di umanità in Africa, con
grande meraviglia degli Inglesi che, non si sa perché, non riuscivano a capire
come noi non fossimo odiati come lo erano loro dai rispettivi ex-sudditi
coloniali!
La permanenza a New York mi permise di visitare una parte di quel bellissimo
Paese e del Canada. Fui colpito soprattutto dalla magnificenza delle foreste e
dei fiumi e dall'opulenza di quella natura, mentre si rafforzò sempre più la mia
opinione sulla assoluta inutilità dell'O.N.U. che, fin dalla sua nascita, non
era stata mai capace di risolvere nemmeno una bega fra due tribù africane,
mentre spendeva milioni e milioni di dollari degli Stati Membri mantenendo un
esercito di inutili burocrati ultra pagati.
Negli ultimi tempi poi l'Organizzazione era diventata soltanto una cassa di
risonanza della propaganda sovietica, specie fra i Paesi sottosviluppati e un
nido di spie, in quanto la debolezza degli ultimi Segretari Generali aveva
permesso ai Paesi comunisti di infiltrare una eccessiva quantità di loro
elementi fra il Personale societario.
Le sedute dell'Assemblea poi erano di una noia mortale e assolutamente
inconcludenti. I sovietici parlavano per ore ripetendo
sempre le stesse argomentazioni ed i rappresentanti dei loro satelliti facevano
lo stesso ricopiando papagallescamente i discorsi del loro Stato guida.
Il tutto si riduceva, da parte dell'ONU, in una produzione di tonnellate di
carta stampata che tutti si guardavano bene dal leggere.
Noi avevamo come Capo il Ministro Piccioni che non capiva una sola parola di nessuna lingua, nemmeno lo spagnolo, e se doveva leggere un
piccolo intervento era un pianto!
Da parte nostra c'era da vergognarsi.
Ma perché questi politici facevano i Ministri degli Esteri, tanto più che
disprezzavano il nostro Dicastero al quale preferivano quello delle Poste e
Telegrafi che costituiva per loro una forza politica con centinaia di migliaia
di elettori, mentre noi eravamo quattro gatti?
Detti politici non avevano mai voluto concedere il voto ai nostri emigrati,
nel luogo di residenza. Infatti non volevano che votassero gli emigrati
permanenti — al di là dei mari — perché erano in gran parte monarchici o
ex-fascisti e per quanto riguardava gli emigrati temporanei — in Europa —
potevano venire a votare in Patria.
Così avevano scioccamente trascurato una notevole forza elettorale.
Nel frattempo ero stato nominato Vice Direttore Generale degli Affari
politici ed avevo la supervisione di quattro uffici e cioè quello che si
occupava dei Paesi di oltre Cortina, quello dei Paesi asiatici e quello dei
Paesi latino-americani oltre ad un altro piccolo ufficio che si occupava delle
relazioni con la Santa Sede e con San Marino. Potei farmi così una certa
esperienza sui Paesi dell'Est Europa e sul Comunismo.
Erano quelli i tempi che denotavano una grande attività del comunismo e si
vedevano i primi accenni dei tentativi di sovversione e di terrorismo. Vi era
evidente la mano di Mosca. Già allora i servizi informativi dei maggiori Paesi
della Nato avevano lanciato l'allarme, portato a conoscenza di tutte le
competenti autorità.
Ma la nostra Magistratura sembrò ignorare la cosa: ci vollero gli atroci
assassinii dei vari magistrati perché la giustizia finalmente si risvegliasse
dal letargo.
Durante gli anni '50 era stata notata da parte del
K.G.B. (polizia segreta
sovietica chiamatasi successivamente
CEKA,
G.P.U.;
N.K.V.D. ed attualmente
K.G.B.) la costituzione a Praga di una organizzazione per la destabilizzazione,
la propaganda comunista e il terrorismo nei Paesi europei ed extraeuropei.
Come è noto, l'Unione Sovietica si è sempre servita dei Paesi satelliti come
di pedine per svolgere i suoi piani, non voleva figurare in prima linea, ma li
dirigeva dietro le quinte. I Paesi satelliti più
servizievoli erano la Cecoslovacchia, la Germania Orientale (D.D.R.), la
Bulgaria e l'Ungheria cui in un secondo tempo si sono aggiunti alcuni Paesi
arabi e Cuba.
Compiti dell'organizzazione di Praga erano:
1) la disinformazione, la diffusione cioè fra organi di stampa dell'Occidente
compiacenti di notizie tendenziose in gran parte false, in piccola parte vere,
utili ai fini della Unione Sovietica. Molti noti giornali dell'Occidente, fra i
quali alcuni diffusi giornali italiani, si sono prestati a questo gioco per
interesse o per ingenuità;
2) la propaganda comunista vera e propria, diretta specialmente ai cosiddetti
intellettuali: artisti, professori, maestri, giornalisti, etc;
3) la sedizione vera e propria con il reclutamento, addestramento,
finanziamento e armamento di terroristi (di sinistra o di destra non importava,
purché pronti a creare il caos con la loro azione).
Filiazione dell'organizzazione di Praga era la cosiddetta "Centrale latina"
con compiti speciali rivolti al Partito comunista italiano per la diffusione del
comunismo in tutta l'area mediterranea del Nord Africa e della America Latina.
Recentemente i compiti del PCI erano passati a Fidel Castro e a Paesi ed
organizzazioni arabe come la Siria, la Libia e
l'Olp.
Frattanto, fin da quando erano al Governo prima delle elezioni del 1948, i
comunisti nostrani avevano provveduto al proprio autofinanziamento, fondando
delle società di comodo che dovevano fungere da intermediarie nell'import-export
tra l'Italia ed i Paesi comunisti, ovviamente con l'appoggio di Mosca. Queste
società avevano monopolizzato il controllo di tutto il nostro commercio con i
Paesi dell'Est. Infatti le ditte italiane grandi e piccole che volevano fare
affari con tali Paesi si sentivano garbatamente dire che la cosa era possibile
ma che dovevano rivolgersi a dette società che, fra l'altro, non pagavano tasse
essendo organizzate in forma di Cooperative!
Le informazioni avvertivano anche che i sovietici erano riusciti ad
infiltrare loro agenti fidati in tutti i partiti politici dei Paesi Nato (sia di
destra che di estrema sinistra), non fidandosi i russi nemmeno dei capi
comunisti stranieri. Si facevano anche i nomi di alcuni di questi "controllori
sovietici" i quali erano ovviamente cittadini dei Paesi ove potevano svolgere
tranquillamente il loro compito.
Tutte queste notizie però non furono mai bene accolte dai politici e dalle
autorità civili dell'Occidente, forse proprio perché venivano dai militari,
considerati guastafeste della tanto strombazzata "distensione" che serviva solo
ad addormentare la nostra opinione pubblica, mentre i Paesi comunisti si
armavano fino ai denti.
Si scatenò anzi una campagna contro i servizi di informazione che vennero
ripetutamente assoggettati a "riforme" e in pratica distratti o quasi.
In
America ci fu una lotta a coltello fra la
Cia e il controspionaggio militare in
Inghilterra.
"L'Intelligence Service" completamente infiltrato da agenti doppi
del K.G.B. fu esautorato e paralizzato. In Germania la
Gehlen Organization fu
sciolta dopo la morte del generale suo fondatore del quale portava il nome; in
Francia dopo De Gaulle e Pompidou i servizi furono esautorati; in Italia
sappiamo benissimo cosa avvenne del
Sim e delle sue diverse reincarnazioni.
Pertanto le Ambasciate sovietiche potevano svolgere tranquillamente
l'incarico di coordinare l'opera di infiltrazione.
I Governi occidentali avevano infatti tollerato che il personale delle
Ambasciate dell'URSS con copertura diplomatica fosse dieci e fin quindici volte
superiore numericamente a quello delle proprie Ambasciate a Mosca!
Solo il piccolo Belgio, fra tutti i Paesi occidentali, ebbe il coraggio anni
fa di espellere i nove decimi dei cosiddetti diplomatici sovietici (prendendo
l'occasione che uno di essi era stato preso con le mani nel sacco),
riequilibrando così le proporzioni fra il proprio personale a Mosca e quello
sovietico a Bruxelles.
È perfettamente noto infatti che l'Unione Sovietica, a differenza dei Paesi
civili dell'Occidente, non ha una vera carriera diplomatica, ma riempie le
proprie Rappresentanze diplomatiche e consolari all'estero con agenti della
polizia segreta e che il vero capo di queste Rappresentanze non è sempre
l'Ambasciatore, ma spesso un minore funzionario, alle volte persino un autista
dell'Ambasciata che ne controlla tutti i membri, dato il suo superiore grado nel
K.G.B.
Da noi, poi, negli anni seguenti, quando il terrorismo anche di origine
palestinese si era vivamente scatenato, uno sprovveduto Ministro dell'Interno
della sinistra DC teneva sempre un atteggiamento favorevole verso i comunisti e
ripeteva che da noi tutto il terrorismo era di destra e di origine neofascista!
E la incompetente Magistratura, sensibile alle tesi dei giornali di sinistra,
continuava a trastullarsi con il cosiddetto "golpe" Borghese e altre sciocchezze
del genere.
Nel contempo dilagava la corruzione. La nostra povera, giovane Repubblica era
sommersa da una rete di interessi inconfessabili stabilita da politici, parlamentari e uomini di partito oltre che da privati
industriali e da amministratori.
I miliardi spesi (male) per la Cassa del Mezzogiorno finivano, in
parte, nelle tasche della mafia e della camorra legate a politici socialisti e
della sinistra DC, veramente insaziabili.
Di fronte a questi divoratori, i fascisti di un tempo figuravano come
scrupolosi amministratori inappetenti e malati di ulcera gastrica!
E la Magistratura stava a guardare invece di intervenire. Avrebbe dovuto
punire i responsabili a termini di legge, contro l'apologia del fascismo, perché
coloro che facevano apologia del passato regime (provocando da molte parti le
voci che "si stava meglio quando si stava peggio!"), erano proprio i politicanti
intrallazzatori, non i quattro gatti dell'
M.S.I.
Infatti non c'era più legge o atto amministrativo che non fosse emanato senza
un fine illegittimo! La Corte dei Conti si rivelava sempre più inutile perché
eseguiva solo un formale controllo di legittimità a posteriori e non di merito.
Una eccezione alla regola era il nuovo Ministro degli Esteri,
Antonio Segni,
persona seria ed onesta, un vero signore. Era attorniato anche da persone per
bene, alcune sarde, del suo paese, che noi scherzosamente chiamavano "la brigata
Sassari"!
I Governi De Gasperi e quelli dei suoi immediati successori Scelba e
Pella avevano amministrato bene il Paese e completato la sua ricostruzione in
modo quasi miracoloso. Basti pensare che, nonostante le enormi spese necessarie
per tale compito, l'inflazione era rimasta entro livelli fisiologici e così il
disavanzo del bilancio dello Stato. Ma non appena andò al potere il famigerato
centro sinistra con i Governi Fanfani e Moro — i peggiori che l'Italia abbia
avuto dalla sua Unità — con la mania di rivoluzionare o riformare tutto quello
che andava abbastanza bene, peggiorando ogni cosa, e con le spese pazze della
finanza allegra e demagogica fatte per accontentare clientele e sindacati (tra
cui l'aumento indiscriminato di stipendi e salari), l'inflazione arrivò a
livelli mai visti precedentemente e il bilancio statale si avviò a deficit di
centinaia di migliaia di miliardi. Seguì a ruota anche il debito pubblico,
ipotecando anche l'avvenire delle future generazioni sulle quali sarebbero
ricaduti tali debiti. Ma gli Statisti amministratori erano fierissimi di applicare (bestialmente) le teorie Keynesiane che vanno invece
prese "cum grano salis". Quanto erano lontani i tempi di
Einaudi e di
Merzagora!
I dirigenti politici ed i sindacati non erano nemmeno arrivati a
capire che i lavoratori ne ricavavano solo modesti benefici, perché si era
iniziata l'interminabile spirale verso l'alto dei salari, costi e prezzi che
tanto aveva temuto — e giustamente — De Gasperi il quale sosteneva modestamente
di non capire molto di economia, ma che invece, col suo equilibrio, aveva
dimostrato di saperne più di tutti gli altri!
Questo fenomeno neutralizzava gli aumenti dei salari in tutto o in parte e
rovinava i poveretti che avevano un reddito fisso.
Ma i reggitori saputelli, la cui ignoranza era incommensurabile, non se ne
davano per inteso, iniziando anche una rovinosa nazionalizzazione di molte
industrie che, dirette da politicanti incapaci e spesso disonesti, divennero
tutte fortemente passive aggravando la situazione finanziaria dello Stato.
Anche questa volta chi salvò l'Italia dalla bancarotta furono gli
imprenditori privati i quali, grazie alla propria iniziativa e lungimiranza
arrivarono — nonostante tutto — a competere vantaggiosamente con i produttori
stranieri.
I due "leaders" democristiani (Fanfani e Moro) erano detti "cavalli di
razza della DC": se questi erano i puro sangue mi domando che cosa dovevano
essere i brocchi di quel partito!
Intanto con il "centro-sinistra" dilagava sempre più la corruzione.
I democristiani ed i socialisti si erano scatenati ad
accaparrare i posti di potere e di saccheggio e pur condannando il capitalismo,
secondo loro fonte di tutti i mali, si ritrovavano sempre più un'anima
ultracapitalista non appena arrivavano ai posti di potere e il nostro povero
Paese veniva così sempre più a somigliare a una Repubblica delle banane
dell'America centrale.
Frattanto il Ministro degli Esteri, Segni, mi aveva nominato Capo del
Servizio Stampa e Informazione del Ministero. Venni così a conoscere moltissimi
giornalisti. Alcuni di essi, una minoranza, erano molto in gamba e degni di ogni
fiducia: con loro si poteva parlare liberamente senza tema di essere traditi.
I più invece erano dei pennivendoli al servizio dei
partiti e bisognava diffidarne.
Dopo Pella e Segni, che erano stati indubbiamente i migliori in quegli anni,
si alternarono numerosi Ministri degli Esteri. Nessuno di loro fu famoso!
Medici era un grande esperto di problemi agricoli ed economici e meno di
politica estera, ma da persona seria quale era si informò subito e si fece una
competenza.
I peggiori furono Piccioni, Fanfani e Moro
come già detto. I democristiani vedevano la politica
estera solo in funzione interna e siccome il Ministero degli Esteri non
rappresentava una forza elettorale, lo consideravano meno di ogni altra
Amministrazione! Avevano tuttavia l'ambizione di fungere da Ministro degli
Esteri, perché i giornali potessero parlare di loro e per farsi qualche viaggio
più o meno turistico fuori dei confini. Dei tre Ministri sopracitati come
peggiori, nessuno si occupava seriamente del Ministero. Piccioni leggeva solo i
giornali italiani, non sapeva nemmeno una parola di nessuna lingua, non vedeva
mai nessuno; si occupava solo di promuovere continuamente il suo portaborse dal
quale si faceva raccontare in breve il contenuto dei telegrammi in provenienza
dall'estero e che non si degnava mai di leggere e tantomeno i rapporti delle
Ambasciate. Era di un'abulia e di una accidia spaventosa. E sì che era un uomo
intelligente, buon oratore e che aveva un notevole passato di guerra come
aviatore. Tra l'altro il suo portaborse aveva divorziato dalla moglie e
conviveva con la moglie di un altro collega!
Molto bello tutto questo in regime democristiano! Il Fascismo in fatto di
costumi era stato molto più severo!
Questi tre ultimi Ministri non si degnavano di ricevere i nostri Ambasciatori
all'Estero quando venivano a Roma. Si ritenevano al corrente di tutto, mentre in
realtà non sapevano niente e facevano delle ben magre figure nelle assise
internazionali al confronto con i più seri loro colleghi stranieri. Spesso, su
molte questioni, sentivo esprimere dai politici idee del tutto contrarie a
quelle manifestate dai nostri migliori funzionari, preoccupati, questi ultimi,
di servire gli interessi del Paese, mentre i politici pensavano prevalentemente
ai propri interessi elettorali o a quelli del loro partito.
Fanfani non era amato dai giornalisti perché, quando lo intervistavano,
diceva loro delle "platitudes" dei luoghi comuni, delle verità lapalissiane.
Quanto a Moro, poi, nessuno lo capiva, nemmeno gli italiani, immaginiamoci gli
stranieri! Quando parlava all'ONU o nei Consigli europei i pur ottimi interpreti
contemporanei non riuscivano ad andare avanti alle prese con i suoi discorsi
bizantineggianti pieni di anacoluti, di frasi subordinate, di parentesi rotonde e parentesi quadre, con il
verbo principale in fondo! Io mi domandavo come poteva il Paese essere governato
da gente siffatta! Da tutto ciò si può bene immaginare quale fosse il peso della
nostra voce nei consessi internazionali. È possibile che noi non possiamo avere
dei personaggi "normali" nella vita pubblica?
Gli unici risultati dell'amministrazione Fanfani furono il trasferimento,
come si è detto, del Ministero degli Esteri da Palazzo Chigi alla Farnesina e la
caotica riforma della carriera diplomatica affidata a quelli che lui riteneva i
suoi fidi: i Mao-Mao, con l'effetto di scompaginare tale amministrazione
definitivamente mentre essa aveva resistito a ben vent'anni di dittatura!
Le promozioni ormai avvenivano non più tenendo conto dei meriti e delle
capacità individuali, ma solo per l'appartenenza o meno al clan dominante; veri
sistemi degni della mafia e della camorra. D'altronde le male lingue dicevano
apertamente che vari parlamentari della fazione fanfaniana appartenessero o si
appoggiassero alla "onorata società", la quale provvedeva a fare affluire su di
loro i voti necessari ad ogni elezione.
Uno dei capi Mao-Mao era intanto apertamente accusato dal giornale comunista
"l'Unità" di essere un noto mafioso senza che nessuno smentisse o protestasse!
 |
Robert Kennedy in visita a Roma nel 1961 ricevuto
da Marieni portavoce del Ministro Segni |
In quegli anni si stava intanto sviluppando sempre più, prendendo piede in
tutti gli organismi statali, il comunismo purtroppo tollerato dalla DC che non
aveva mai fatto una vera efficace propaganda contraria a questa espansione e
spesso aveva cercato la cooperazione con il partito dell'estrema sinistra. E' un
fenomeno che non si è mai riusciti a capire.
Non si sa bene se la sinistra
democristiana lo facesse per ammirazione o per paura, cercando di attirarsene le
simpatie.
Errore colossale perché i comunisti hanno sempre e solo rispettato la
forza, prendendo tutte le "avances" come debolezza.
Molti democristiani di
sinistra erano filocomunisti e cercavano la collaborazione dei rossi anche nelle
amministrazioni locali, tollerandone l'arroganza e il loro insinuarsi ovunque,
specie nella Scuola e nelle Università. Non si sa bene pertanto se fossero dei
cristiani e dei democratici, come pretendeva la loro denominazione, in quanto i
comunisti sono atei e liberticidi. Bene aveva fatto chi aveva nominato questi
"collaborazionisti" dei "cattocomunisti".
Eppure fin dal 1958-59 per distruggere il terrorismo la prima misura da
prendere
avrebbe dovuto essere quella di far ridurre a proporzioni accettabili
il personale delle rappresentanze diplomatiche in Italia dei
vari Paesi
comunisti.
Si dirà che tutti quelli finora elencati sono solo indizi; essi però sono
assolutamente credibili e convergenti: le prove assolute la Magistratura è
inutile che tenti di trovarle, troppo abili e ben addestrati sono gli agenti
dell'Est per lasciare in giro delle prove.
Comunque i comunisti nostrani avrebbero fatto bene a tagliare completamente i
ponti con Mosca.
Non bastavano le elucubrazioni e le arrampicate sugli specchi per far credere
che il PCI prendesse le distanze dall'URSS. Troppi personaggi della direzione
del partito si recavano continuamente a prendere ordini nel "paradiso" del
proletariato.
Se il comunismo italiano fosse un comunismo nazionale alla cinese o alla
iugoslava potrebbe essere più credibile per noi che, certo, come cattolici non
potremo mai condividerne le idee per le note sostanziali contrapposizioni, ma
siccome siamo dei veri democratici e pertanto rispettiamo le idee degli altri,
potremmo rispettare di più anche quelle dei "compagni" italiani.
Ma, come detto, i maggiori danni al Paese vennero dal centro-sinistra
inaugurato da Moro e da Fanfani il quale nel suo primo Governo con
La Malfa
operò la disastrosa
nazionalizzazione dell'energia elettrica. L'Italia era tra i
Paesi della CEE con l'energia elettrica a più basso prezzo prima della riforma e
le Società elettriche riuscivano a pagare notevoli dividendi agli azionisti ed a
costruire sempre nuove centrali; dopo l'energia divenne la più cara tra i Paesi
del Mercato Comune; si fecero pochi impianti nuovi e si dovettero importare
miliardi di KW/ora dai Paesi fornitori, mentre l'ENEL era in passivo e doveva
essere sempre rifinanziato dallo Stato; il tutto perché per pura demagogia il
personale era stato inutilmente più che raddoppiato e aumentati di molto gli
stipendi per crearsi clientele politiche, mentre lo Stato spendeva miliardi e
miliardi per indennizzare le industrie espropriate che non sapevano né potevano
impiegare utilmente questi capitali, i quali sarebbero stati meglio utilizzati
se impiegati per favorire nuove iniziative economiche.
Il tutto si ridusse in un'enorme perdita di ricchezza e nel primo rovinoso
ingigantimento del debito pubblico che cominciava ad arrivare a cifre
astronomiche. E Fanfani e La Malfa si autoconsideravano degli esperti
economisti! Il loro Governo costò all'Italia quasi come una guerra perduta.
9) A Strasburgo presso il Consiglio d'Europa
(pag 199 a pag. 206)
Inizio
Pagina
Prima che l'On. Segni lasciasse il Ministero degli Esteri per passare al
Quirinale ottenni di essere nominato Rappresentante Permanente al Consiglio
d'Europa con titolo e rango di Ambasciatore. Il
Consiglio d'Europa era la prima
Organizzazione europea che avesse come obiettivo l'unificazione del Continente;
era stata tenuta a balia da Churchill senza però che egli riuscisse a convertire
i suoi concittadini all'ideale europeo: una moderata cooperazione si
l'accettavano, ma non un'unificazione. Non erano ancora maturi per abbandonare
le velleità nazionaliste e imperialiste di ex grande Potenza mondiale!
Il compito principale del Consiglio d'Europa consisteva allora nel costituire
il collegamento fra i sei Paesi della Comunità Europea (CEE o Mercato Comune) e
cioè Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo e i sette Paesi
dell'Area del libero scambio, detta
Efta, comprendente Gran Bretagna, Svezia,
Norvegia, Danimarca, Irlanda, Austria e Svizzera.
Oltre che servire da trait-d'-union fra i due gruppi economici europei, il
Consiglio d'Europa doveva prendere l'iniziativa sulle convenzioni che portassero
alla crescente armonizzazione delle legislazioni dei vari Paesi senza le quali
non si sarebbe mai pervenuti ad una unificazione europea.
A fianco del Consiglio d'Europa era stata costituita la Corte dei diritti
dell'uomo alla quale l'Italia allora aveva aderito solo per le controversie che
nascevano fra gli Stati, alcuni anni dopo anche per le controversie fra Stati e
cittadini. Non esisteva una sede di Rappresentanza e dovevo stare in albergo, ma
riuscii ad ottenere dal Ministero l'autorizzazione ad acquistarne una ed ebbi la
fortuna di trovare una villa molto adatta, nel centro. Fu un vero affare perché,
per pochi milioni di lire si riuscì a mettere le mani forse sull'ultima casa
disponibile nel centro della città e vicina al Consiglio d'Europa. Con i pochi
soldi che concesse il Ministero riuscii a rimodernare ed adattare la casa con
l'opera di un volonteroso impresario italiano che lavorò più per patriottismo
che per interesse: in compenso lo feci fare cavaliere!
La sede era la più bella fra quelle di tutti i Paesi del Consiglio d'Europa e
degna dell'Italia: tutti i colleghi stranieri me la invidiavano. Fanfani, allora
Ministro degli Esteri, che la inaugurò mi fu largo di elogi e felicitazioni,
tanto costavano poco! Il Capo del Personale, invece, piuttosto sprovveduto, mi domandò perché non avevo comprato qualche mobile antico
autentico! Gli risposi: "Perché con i quattro soldi che faticosamente mi avete
dato non avrei potuto ottenere nemmeno una sedia!" Si può essere sprovveduti ma
questo, come diceva Petrolini, esagerava!
Il Consiglio dei Ministri, supremo Organo del Consiglio d'Europa, si riuniva
due volte all'anno a livello dei Ministri degli Esteri, e tutti gli altri mesi a
livello dei Rappresentanti Permanenti: ognuno di noi per turno doveva presiedere
il Consiglio per la durata di sei mesi. A me capitò la tegola di detto turno di
presidenza appena arrivato, quando ero ancora inesperto del funzionamento di
tale Organizzazione internazionale. Il turno di Presidente infatti sarebbe
toccato all'Irlanda, ma siccome il collega irlandese era seriamente ammalato per
un infarto, il turno passò a me. Chiesi ai colleghi di avere pazienza e di darmi
una mano essendo io nuovo in quel ruolo.
Tutto andò bene e senza difficoltà ed
io mi sentii rinfrancato. Dopo un anno morì purtroppo il Segretario Generale del
Consiglio d'Europa, l'italiano
On. Benvenuti,
bravissima persona, e fu
sostituito da un inglese, il conservatore Smithers già Segretario parlamentare
al Foreign Office, uno che credeva ancora che il
suo Paese potesse recuperare il ruolo di grande Potenza e
pretendeva dire la sua su ogni atteggiamento politico
del Consiglio. Lo mise a posto, appena recuperata la salute, il simpaticissimo
mio collega irlandese dicendogli senza tanti complimenti che noi Rappresentanti
Permanenti eravamo i servitori dei nostri rispettivi Paesi e lui era il "servus
servorum" e niente più!
Si succedevano intanto i vari Ministri degli Esteri: Piccioni, Saragat,
Fanfani e infine Moro.
 |
Marieni presenta le credenziali all'On. Ludovico Benvenuti (di
spalle),
dietro il consigliere Lauriola e Robert Luc, diplomatico francese |
Nessuno di loro approfondiva i problemi ed ebbi poi la certezza di come
fossero assolutamente inutili i Ministri degli Esteri che non parlavano nessuna
lingua come Piccioni o masticavano male qualche parola di francese. Perché non
andavano a fare i Ministri delle Poste? Al Consiglio d'Europa erano ufficiali
solo due lingue, l'inglese e il francese; per le altre bisognava che i Governi
interessati si pagassero le spese molto notevoli delle interpretazioni
contemporanee e il nostro Governo tentava sempre di evitarle. Con Piccioni
quindi eravamo arrivati — con scarsissimo successo — a scrivergli una traduzione
francese con la pronuncia... figurata! Dovemmo però abbandonarla subito! Quindi
Piccioni taceva e si limitava a leggere qualche giornale italiano.
Si dette il caso che una volta che io stavo facendo alla nostra Delegazione
il "briefing" sull'ordine del giorno dell'Assemblea per quella tornata, com'era
consuetudine, dovetti parlare del problema dell'inquinamento dell'aria e delle
acque, già molto grave. Infatti alcuni scienziati di livello internazionale
erano venuti a dare l'allarme facendo presente che tutti i laghi alpini in breve
tempo sarebbero diventati delle paludi senza alcuna vita, soprattutto per la
quantità enorme di detersivi inquinanti che vi si riversavano.
Piccioni, da buon democristiano, si mise a ridere e, facendo dei doppi sensi
sulla parola "pollution" che ricorreva nei documenti e che in francese e inglese
vuoi dire inquinamento, esclamò: "Ma di cosa mai vi andate occupando!"
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Marieni firma una convenzione alla presenza del Segretario Generale
Peter Smithers e del vice Dr. Polys
Modinos, diplomatico cipriota
|
Per l'ignoranza e l'ignavia di alcuni nostri dirigenti avvenne così che,
quando la Convenzione europea che vietava la vendita e l'uso dei detersivi che
non fossero biodegradabili all'80%, fu pronta per la firma, l'Italia non vi
aderì nonostante i miei continui solleciti ai cosiddetti Organi "competenti".
Il risultato fu che le industrie chimiche dei Paesi maggiori produttori di
questi detersivi, Germania, Olanda, etc, rimasero coi magazzini pieni del
vecchio prodotto dannoso e non potendolo smerciare nei loro Paesi che avevano
aderito alla Convenzione li esportarono in Italia ove, per effetto del Mercato
Comune, non poteva esserne impedita l'entrata e così il nostro problema
dell'inquinamento si aggravò, e di molto!
Qualche cosa di analogo avvenne anche con la Convenzione europea concernente
il codice della strada: essa comminava pene maggiori per i conduttori di
autoveicoli che provocavano incidenti gravi in stato di "euforia alcoolica".
La cosa era più che giusta ma l'ignoranza e l'ignavia dei nostri politici,
legislatori e magistrati non lo ammettevano.
Andai due volte a Roma per
tentare di persuadere i soloni del Ministro della
Giustizia ad accettare la Convenzione: mi risposero che le nostre leggi non
prevedevano quelle clausole. Risposi che lo sapevo e per questo ero venuto a
Roma per cercare di ottenere una modifica alle nostre disposizioni. Aggiunsi
che, se volevamo tentare di unificare l'Europa — problema di cui tutti i nostri
politici e legislatori si riempivano la bocca — la prima cosa da fare era cercare di armonizzare ed avvicinare le
legislazioni dei differenti Paesi. Il più sprovveduto dei Direttori Generali
presenti alla discussione dichiarò che da noi, in Italia, si riteneva non
dignitoso per la persona umana obbligarla a sottoporsi all'accertamento del
grado di alterazione alcoolica. Era indecoroso obbligare gli automobilisti a
soffiare in un sacchetto di plastica o a sottoporsi ad un prelievo di sangue
perché fosse analizzato, e che comunque in Italia non esisteva la piaga degli
automobilisti che si ubriacavano. Domandai allora se era più dignitoso per la
persona umana lasciare che tanti cittadini fossero massacrati sulle strade.
Dissi che non conoscevo la percentuale di italiani dediti alle bevande
alcooliche, ma che comunque, a detta dei maggiori clinici mondiali, non era
necessario essere ubriachi per condurre male un'auto, ma che bastava una piccola
percentuale di alcool nel sangue per ritardare le reazioni di un guidatore.
Tuttavia nel nostro Paese arrivavano, in auto, milioni di turisti stranieri,
specie nordici, i quali erano piuttosto proclivi ad "alzare il gomito"!
Uno dei presenti mi disse che non ci avevano pensato! Li invitai a pensarci e
me ne andai.
Solo oggi, dopo oltre vent'anni, si comincia a pensare di introdurre nel
nostro codice della strada una disposizione che colpisca chi guida in stato di
alterazione da alcool o da droga!
Intanto la gente continua a morire sulle strade con una cadenza simile a una
guerra!
Ma un fatto molto più sgradevole occorse un paio di anni dopo, nel 1964, e fu
il ricorso dell'Austria contro l'Italia alla Corte dei Diritti dell'Uomo. Sette
giovinastri altoatesini avevano massacrato con sassi e bastoni una guardia di
finanza inerme che stava bevendo un caffè in un bar. Erano stati condannati a
vari anni di carcere dai nostri Tribunali.
La Guardia di Finanza Raimondo
Falqui fu barbaramente uccisa a Fundres il 15
luglio 1956.
Il processo ai cosiddetti “Pfunderer Burschen” (“i
ragazzi di Fundres”), accusati dell’omicidio, si conclude il 16 luglio 1957 con
la condanna per i sette imputati ad un totale di 114 anni di carcere.
|
Così avvenne che se noi prima avevamo
ragione nella sostanza, avevamo assolutamente torto nella forma, perché uno
sprovveduto presidente di Corte d'Assise d'Appello di Trento, in apertura del
procedimento si era rivolto agli accusati chiamandoli volgari assassini e
criminali. Anche i bambini dell'asilo sanno ormai che gli accusati non possono essere considerati colpevoli prima che una sentenza passata in giudicato
non li abbia condannati, ma pare che alcuni nostri magistrati ancora non lo
sapessero! L'Austria quindi citò l'Italia davanti alla Corte dei Diritti dell'uomo
sostenendo che il giudizio non era stato equo e la Corte era prevenuta.
E a me
toccò la grana molto seria di contrastare la tesi austriaca. Il Ministero degli
Esteri, more solito, non mi diede alcuna istruzione per timore di essere
perdente. Io,
non essendo un giurista, chiesi però che mi fosse inviato un buon
consulente legale e, ad onor del vero, mi fu mandato il miglior penalista
italiano, il
prof. Vassalli recentemente divenuto Ministro di Grazia e
Giustizia. Egli tuttavia non poteva entrare nella sala del Consiglio dei
Ministri europei; stava in una stanza vicina ove io in caso di necessità sarei
potuto andare a consultarlo.
Solo a dibattito iniziato ricevetti una telefonata dal Direttore degli Affari
Politici, Ambasciatore Fornari, il quale, more democristiano, mi diceva di
cercare di arrivare ad un compromesso con gli austriaci. Gli risposi che non
vedevo come si potesse arrivare ad un compromesso non trattandosi di una
compravendita ma di una questione giuridica e dissi che avrei cercato di avere
vittoria completa. Fui molto fortunato in quanto, dopo l'inizio del
procedimento, mi giunse una telefonata dal Comandante del Gruppo Carabinieri di
Bolzano in cui mi diceva che il più importante testimone a favore dell'Austria
era stato fermato al Brennero come testimone falso e gli era stato sequestrato
il passaporto dal quale risultava, dai timbri apposti dalla stessa polizia di
frontiera austriaca, che il giorno del delitto non era in Italia e quindi non
poteva aver assistito al fatto, contrariamente a quanto aveva dichiarato. Pregai
il Colonnello di mandarmi subito il passaporto con un motociclista e intanto
chiedevo un rinvio del dibattito di 24 ore. Nel frattempo io mi sfogai a ridurre
al silenzio quelli che erano stati i più accaniti difensori dal punto di vista
austriaco e cioè i cosiddetti giuristi olandese e svedese. Il giurista olandese
era un prete cattolico degno rappresentante di quella parte di clero olandese
che di fatto era più protestante che cattolica. Dissi semplicemente che ero
molto meravigliato che un sacerdote cattolico prendesse le difese di vili
assassini che — undici contro uno — avevano massacrato una persona pacifica ed
inerme. Al collega svedese espressi la mia alta meraviglia per il suo giudizio
incauto, non confacente ad un rappresentante di un Paese che si diceva neutrale!
Dopo questa sparata i due rinunciarono a parlare e a darmi fastidio.
Non appena fui poi in possesso del passaporto incriminato chiesi la parola e,
poco diplomaticamente e con estrema durezza, come è necessario fare con gli
stranieri quando si ha ragione, accusai il Governo austriaco di falso e a
sostegno di detta asserzione feci circolare fra i tavoli dei Rappresentanti
stranieri il passaporto che recava i rivelatori timbri della dogana austriaca.
Mi giungeva intanto un'altra telefonata, questa volta del nostro Ambasciatore
a Vienna con la quale mi faceva presente che l'Agenzia ufficiale di stampa
austriaca aveva diffuso un comunicato nel quale si annunciava la condanna
dell'Italia da parte della Corte dei Diritti dell'uomo. La notizia era
completamente falsa; per di più ci eravamo tutti impegnati a non dare
comunicazione alla stampa finché la vertenza non fosse chiusa e solo allora un
comunicato del Consiglio d'Europa avrebbe dovuto darne notizia.
Profondamente adirato e con ancor maggiore veemenza accusai per la seconda
volta il Governo di Vienna di falsità, mentre il povero collega austriaco, che
non aveva alcuna colpa, diventava di tutti i colori. Egli si recò a telefonare
al suo Ministero e quando ritornò nell'aula dichiarò che il suo Governo
rinunciava alla causa. La nostra vittoria era completa; il merito maggiore era
stato dei Carabinieri.
Nessuno si degnò però, da Palazzo Chigi, di inviare al Colonnello dei
Carabinieri di Bolzano e a me una parola di apprezzamento!!!
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Kurt Waldheim & Golda Meir
nel '74 |
Io ero ovviamente felice di come erano andate le cose: mi rattristava solo il
fatto che l'unico a rimetterci fosse il mio collega Rappresentante austriaco al
Consiglio d'Europa, senza colpa né peccato. I falsari
erano al Ministero degli Esteri di Vienna e precisamente il
Ministro Kreisky, socialista e il suo tirapiedi
Waldheim — poi addirittura discusso Presidente
della Repubblica — i quali si occupavano soprattutto dell'Alto Adige e da buoni
politici scaricarono la colpa sul povero Rappresentante diplomatico, facendogli
addirittura perdere il posto!
Qualche mese dopo, nell'inverno 1965-66, avvenne un fatto divertente per cui
proposi e ottenni la concessione della commenda al Merito della Repubblica ad un
professore di storia dell'Università di Strasburgo, considerata la seconda di
Francia, che teneva un corso di conferenze sull'epoca delle Regine di Francia,
Maria e Caterina de' Medici.
Il
professore era un tedesco alsaziano e quindi non
eccessivamente filo-francese.
Egli asseriva, come è vero, che a quell'epoca i francesi erano ancora dei semi-selvaggi che mangiavano con le mani, non esistendo né cucchiai né
forchette, sino a quando le due regine toscane non fecero venire da Firenze gli
orafi che produssero magnifiche posate d'oro e d'argento per la Corte. Solo
allora tutta la nobiltà si adeguò, scimmiottando le nuove usanze. Allo stesso
modo le regine introdussero la buona e semplice cucina toscana da cui discese,
affermava il professore, la rinomata cucina francese molto più complicata
secondo i gusti locali. Io mi divertivo a vedere i musi lunghi dei francesi
presenti che disapprovavano il conferenziere e mi fu chiaro allora il perché le
due regine italiane erano state tanto bistrattate e calunniate dai cosiddetti
storici francesi: guai infatti a chi tenta di togliere un primato che essi
ritengono sia del loro Paese!
Si erano succeduti frattanto in Italia vari Governi, come si è detto, sino ad
arrivare a quelli di centro-sinistra di Fanfani e di Moro, clientelari e
demagogici i cui unici effetti furono di ritardare notevolmente lo sviluppo
economico italiano a causa delle molte spese sconsiderate.
 |
Da destra l'Ambasciatore Marieni
con l'On. Antonio Segni, il Sindaco di Srasburgo
Pfimlin
e il funzionario del Consiglio d'Europa Dr. Ugo Leone |
Gli anni Cinquanta e Sessanta segnano il periodo
del “boom”, della ripresa economica, tanto che la stabilità della lira fu
coronata dall’Oscar monetario assegnatole dal Financial Times nel 1960. Proprio
in quest’anno la lira divenne di nuovo convertibile, grazie all’ammissione al
Fondo monetario internazionale, con il valore equivalente a 0,00142187 g d'oro
(625 lire per un dollaro). |
Al tempo dei Governi della ricostruzione si diceva che la lira avrebbe dovuto
meritare "l'Oscar" della stabilità monetaria e non appena arrivato al
potere il
centro-sinistra l'inflazione era diventata un grosso problema, il deficit del
bilancio statale e la conseguente dilatazione del debito pubblico arrivavano a
cifre stellari, proprio quando le maggiori difficoltà per il nostro Paese erano
appena state superate. Tutto ciò era dovuto alla finanza allegra e agli
sconsiderati cedimenti a tutte le crescenti pretese dei comunisti e dei
sindacati. Uno degli Enti che maggiormente disperdeva denaro era la
Cassa del
Mezzogiorno che mise in cantiere opere faraoniche per lo più inutili e che
servirono solo a riempire le tasche della mafia!
I continui cedimenti dei deboli governi democristiani di fronte alle
arroganti pretese comuniste, invece di calmare Togliatti e i suoi non facevano
che renderli più prepotenti
e
intolleranti, tanto da arrivare ai disordini del 1968 suscitati, all'inizio, dal
PCI e dalla
stessa Unione Sovietica. Come si è
già detto, i governanti democristiani, all'infuori di De Gasperi, Scelba, Pella
e Andreotti, erano quasi tutti provenienti dalla sinistra o estrema sinistra del
partito ed erano succubi e quasi ammiratori dei comunisti: non si sa bene cosa
avessero da ammirare! Forse la disciplina e la compattezza di allora del partito
moscovita. Inoltre avevano poca fiducia nella forza intrinseca degli ideali di democrazia e di
libertà, pur riempiendosene la bocca ad ogni pie sospinto, e ritenevano che il
Partito comunista, particolarmente nel nostro Paese, finisse per arrivare al
potere per il continuo aumento dei suoi elettori. Pensavano pertanto di
addolcirlo onde scendere a patti e non trovarselo nemico. Essendo completamente
all'oscuro dei metodi comunisti, non comprendevano che, con tali sistemi, non
facevano che rinforzarlo e renderlo più arrogante, mentre allo stesso tempo non
si accorgevano che il mondo comunista era in perdita di velocità ovunque dopo i
tragici fallimenti nel campo economico in tutti i Paesi governati dal marxismo.
Nonostante tutte queste evidenze i cosiddetti "cattocomunisti" non
disarmavano e correvano, ovunque potessero, in soccorso ai rossi!
Il più propenso ad accogliere nel Governo i comunisti era l'On. Moro, l'uomo
politico che
Kissinger — il Segretario di Stato più capace ed intelligente che
gli americani abbiano mai avuto, forse perché europeo ed israelita — diceva di
non riuscire a comprendere quando parlava, forse per le sue elucubrazioni bizantino-levantine!
Confessiamolo:
fra tutti gli antieroi del Risorgimento, il principe di Metternich ci e' stato
sommamente antipatico. A questo arcinemico non riuscivamo a perdonare una frase
sanguinosamente offensiva, segnalata dai manuali scolastici e, pensavamo,
pronunciata durante il Congresso di Vienna: "L' Italia e' solo un' espressione
geografica". Bene, e' il momento di ricrederci. Una ricerca di Fausto Brunetti,
consigliere al ministero degli Esteri, ci permette di svelare un caso classico
di disinformazione. Nel saggio "Il pensiero e l' azione de Il Nazionale",
pubblicato per l' Atheneum di Firenze, Brunetti ha ritrovato il primo
riferimento conosciuto alla famosa frase che avrebbe pronunciato Metternich.
Siamo nell' agosto del ' 47, ben piu' tardi del Congresso di Vienna, e alla
vigilia dei moti risorgimentali. Bene: "Il Nazionale" riporta una volta il
giudizio generico "espressione geografica" e poco piu' tardi il fatidico: "L'
Italia non e' che un' espressione geografica", riferendola a un dispaccio
riservato inviato da Metternich al suo ambasciatore londinese perche' ne
riferisse a Palmerston. Se non che, passati pochi giorni, lo stesso giornale
pubblica il reale contenuto del documento, dove la frase suona: "L' Italia e' un
nome geografico". Insospettito, Brunetti ha compiuto ulteriori ricerche, ed ecco
la scoperta. La frase completa era: "Italia, nome geografico come quello di
Germania". Giudizio discutibile, ma non certo insultante: fu l' Italia a
caricarlo di valenze negative per fini di propaganda. Ma certi falsi, si sa,
sopravvivono all' originale: e cosi' il povero Metternich se ne e' rimasto per
150 anni in purgatorio, finche' Brunetti e' venuto a liberarlo.
Dario Fertilio
-
Corriere
della Sera 1 giugno 1999 pag. 35 |
D'altronde non riuscivamo a comprenderlo nemmeno noi
italiani!
È pure vero che anche Kissinger aveva delle strane predilezioni: era
professore di storia moderna in Università americane e
nei suoi libri aveva
scritto un panegirico su
Metternich da lui considerato il più grande statista
dell'Ottocento mentre noi lo consideravamo il primo affossatore dell'impero
austroungarico! Infatti in pieno Ottocento era un uomo dalla mentalità
settecentesca; non aveva capito nulla dell'irreversibile movimento delle
nazionalità; se lo avesse capito e avesse trasformato l'impero in un
Commonwealth di nazionalità, l'impero forse esisterebbe ancora, sarebbe rimasto
un baluardo contro l'espansionismo slavo e pangermanista ed all'Europa sarebbero
forse state risparmiate due guerre fratricide!
A conclusione di questo scritto critico bisogna tuttavia riconoscere
onestamente che è merito assoluto della DC se nell'ultimo cinquantennio il
popolo italiano è vissuto in piena pace e libertà aumentando in modo vistoso il
benessere che prima non aveva mai conosciuto.
10)
In Finlandia
(pag 206 a pag. 213)
Inizio
Pagina
Dopo quattro anni e mezzo che respiravo l'aria fritta del Consiglio d'Europa
e delle due Assemblee Parlamentari, l'Assemblea consultiva
del Consiglio d'Europa e del Parlamento europeo della Comunità Economica
Europea, non ne potevo più e desideravo essere trasferito in una Ambasciata vera
e propria. Lo dissi al Ministro degli Esteri Fanfani un giorno che venne a
Strasburgo. Mi rispose che avevo ragione e che ci avrebbe pensato. Infatti dopo
qualche giorno mi fece telefonare dal suo Capo di Gabinetto che mi offriva
Helsinki facendomi domandare se ero soddisfatto. Risposi di no perché avevo
sperato in qualche cosa di più importante, tuttavia gli chiesi che mi desse una
volta per tutte l'autorizzazione a recarmi in Russia quando volevo senza dover
attendere la prescritta autorizzazione ministeriale. Cosa che fece aggiungendo
che era bene che mi specializzassi nelle cose sovietiche.
Ero stanco perché Strasburgo era una città molto noiosa (per quanto ogni due
o tre mesi si andasse a Parigi), e perché il Consiglio d'Europa, dopo essere
stato l'antesignano del Movimento di cooperazione europea, andava perdendo
vigore e importanza. Vigeva poi una teoria tra i diplomatici e cioè che le
Organizzazioni internazionali dopo dieci anni di esistenza entrassero
necessariamente in crisi! C'era, in questo, molto di vero almeno per quanto
riguardava il Consiglio d'Europa, l'Euratom (Comunità europea per l'energia
atomica) e per la CECA (Comunità per il carbone e l'acciaio) ormai praticamente
confluiti nella CEE e soprattutto per l'ONU di New York. Di contro il personale
aumentava sempre più ed i costi erano ormai saliti a molti miliardi.
Già in pieno inverno, alla fine del 1966, raggiungemmo Helsinki con un
viaggio interessante in auto e in nave. Trovammo un'Ambasciata molto mal tenuta
e che andava a pezzi!
Non riuscivo a comprendere perché tanti dei miei colleghi, e soprattutto le
loro mogli, fossero così trasandati e incuranti. Ovunque arrivavo mi toccava
fare il restauratore, perché penso che le nostre ambasciate siano il biglietto
da visita dell'Italia all'estero e pertanto debbano presentarsi nel migliore dei
modi. Mi interessava molto conoscere a fondo la storia del valoroso popolo di
Finlandia che attraverso tante vicissitudini aveva saputo mantenere intatta la
sua identità in mezzo a popoli più numerosi e potenti.
Volevo soprattutto
scoprire come avevano fatto i finlandesi a resistere per tanto tempo
all'aggressione sovietica, con pochi mezzi e senza nessun aiuto, al comando del
Maresciallo Mannerheim che fu brillante Generale di cavalleria dell'esercito
dello Zar ed aveva già combattutto contro i sovietici nel 1918 per la liberazione del suo Paese dal dominio russo. Noi eravamo stati i soli a rifornire di armamenti la Finlandia, ma in tutto
era poca cosa: tra l'altro avevamo inviato aerei da
caccia Fiat G-50 che
però erano stati bloccati dai nazisti in Germania, tappa obbligatoria per tutta
la durata dell'accordo Molotov-Ribbentrop.
Mi spiegarono che il fronte lunghissimo non era continuo; nel nord esistevano
solo dei caposaldi di resistenza tra i quali manovravano delle forze mobili.
Mannerheim aveva appiedato i reggimenti di cavalleria e, profittando del fatto
che quasi tutti i finlandesi praticavano lo sci di fondo, loro sport nazionale,
aveva trasformato i cavalieri in sciatori. Essi d'inverno, a pattuglie di due o
tre, trainati da un paio di cavalli e vestiti di bianco compivano di notte delle
incursioni di sorpresa negli accampamenti sovietici, armati solo di pugnale e
bombe a mano. Fatte fuori le sentinelle uccidevano, sorpresi nel sonno, quanti
più russi potevano. Queste azioni avevano creato il terrore fra gli aggressori.
Nella
primavera del 1942, per le esigenze della lotta sul Lago Ladoga, punto
vitalissimo del fronte di Leningrado, il comando tedesco chiese alla Marina
italiana l'invio di alcuni mezzi speciali. Analoga richiesta fu fatta per il Mar
Nero, dove era necessario contrastare le navi sovietiche addette al rifornimento
di Sebastopoli. Accogliendo l'invito alleato, la Marina organizzò il trasporto
via terra di un certo numero di MAS, di barchini esplosivi e di sommergibili
tascabili. Si trattò di una impresa eccezionale, poiché i mezzi, per giungere a
destinazione, dovettero attraversare tutta l'Europa, superando ostacoli di ogni
sorta. Basti dire che in alcuni punti, per far passare gli scafi montati su
speciali automezzi, fu necessario demolire gli angoli delle case. Lunghe
deviazioni furono provocate anche dall'insufficente apertura di molti
cavalcavia. La spedizione, però, giunse regolarmente sul Ladoga e sul Mar Nero,
ove ben presto sventolò fieramente il tricolore italiano. Nella foto in alto gli
scafi, dai quali sono state smontate tutte le sovrastrutture, attraversano
lentamente l'Europa. In basso il MAS 528 uno dei vittoriosi protagonisti delle
azioni italiane sul Lago Ladoga. I MAS « 527 » e « 528 » al comando del S.
Tenente di Vascello Bechi affondarono nell'agosto del 1942 una cannoniera russa
ed un trasporto carico di munizioni, distinguendosi inoltre in altri scontri con
unità sovietiche.
http://www.inilossum.com/2gue_HTML/2guerra1942-16A.html |
Un fronte continuo esisteva solo nel breve istmo di Carelia, fra il Baltico e
il
Lago Ladoga.
Qui Mannerheim in mancanza d'altro aveva fatto erigere, nei
punti di più facile penetrazione dei carri armati, delle immense cataste di
tronchi d'albero, tagliati nelle foreste. I carri
pertanto dovevano rallentare o addirittura fermarsi, diventando facile bersaglio
per le poche artiglierie finlandesi.
La resistenza così durò mesi e mesi tanto che per superarla i sovietici
dovettero fare affluire dall'Estremo Oriente l'armata del
maresciallo Budienny,
composta per lo più di mongoli.
La Finlandia dovette cedere all'URSS gran parte della
Carelia e una parte del
territorio dell'estremo nord-ovest ricco di nichelio e di altri minerali.
Dovette pagare inoltre una enorme indennità di guerra che paradossalmente
costituì una fortuna per il Paese perché, per poter pagare, fu obbligato ad
industrializzarsi, creando un'industria moderna e molto efficiente che oggi
costituisce la sua ricchezza.
La Finlandia dovette inoltre accettare di mantenere sul suo territorio
l'occupazione da parte di truppe sovietiche. Ma anche ciò paradossalmente durò
poco. Infatti presto i sovietici liberarono l'Austria e la Finlandia,
pretendendone in cambio la neutralizzazione. Non si seppe mai perché i russi se
ne andassero. Forse perché i loro ex alleati occidentali non lo avevano mai
richiesto, ma molto più verosimilmente perché temevano che le loro truppe si
"infettassero" del "virus capitalista" occidentale. Infatti i bravi soldati
sovietici vedevano che loro, pur essendo i "soli vincitori" (perché secondo la
storiografia ufficiale russa gli americani e gli inglesi militarmente non avevano combinato nulla, ma
erano stati solo i fornitori dell'armata rossa) versavano ancora in miseria,
mentre i Paesi da loro vinti — Finlandia, Germania, Italia e Giappone —
ricominciavano a nuotare nel benessere e nella ricchezza. Da qui a comprendere
che il difetto stava nel sistema economico e politico comunista ci voleva poco e
di questo si preoccupavano i poteri centrali di Mosca.
Mi accorsi presto che la Finlandia era il Paese ideale per conoscere di più
quanto avveniva nell'impero russo e nei dipendenti Paesi comunisti. Infatti i
Finlandesi, purtroppo, per lunga consuetudine e per il contatto con il temibile
vicino, conoscevano e interpretavano alla perfezione il suo carattere e le sue
intenzioni, cosa per la quale gli anglosassoni erano invece assolutamente
negati.
Per di più i finlandesi avevano dovuto cedere delle parti del loro territorio
e quindi le relative popolazioni erano ora diventate una fonte di utili
informazioni.
Molto interessanti e istruttivi furono per me i diversi viaggi che compimmo
in Russia, anche con amici.
Fui colpito dal rispetto che il popolino minuto aveva ancora per i superstiti
rappresentanti della vecchia aristocrazia.
A mia moglie, ad esempio — che forse
identificavano per l'eloquio più forbito dell'antica lingua russa elegante, a
contrasto con quella più rozza e più semplice instaurata dai bolscevichi — si
rivolgevano chiamandola "bàrina", appellativo che corrisponde più o meno al
nostro di "donna" e che era dato alle signore della vecchia aristocrazia.
Si era alla fine degli anni sessanta, ai tempi del triumvirato presieduto da
Breznev, a oltre vent'anni dalla fine della guerra, ma si vedeva a occhio nudo
che le cose andavano malissimo. Il fatto più penoso era vedere, davanti ai
negozi, le lunghissime code di massaie sovietiche, nella neve e nel freddo che
tentavano di comprare generi di prima necessità, la maggior parte dei quali
ancora tesserati.
Istruttivo a Mosca e a Leningrado era il visitare il
"Gum", i grandi
magazzini sovietici di fronte ai quali il nostro "Upim" poteva passare per la
"boutique di Hermes"! Vendeva solo oggetti di scarto e mancavano moltissime
cose. Trovai interessante però vedere che si vendevano delle pentole di
alluminio col coperchio munito di lucchetto con chiave! L'interprete
dell'Ambasciata, che mi accompagnava, mi spiegò che la cosa era dovuta alla coabitazione di più famiglie nello stesso
appartamento con la cucina in comune: se qualcuno avanzava un pezzetto di carne
della mattina per la sera doveva chiuderlo sotto chiave perché qualche altro non
se ne impossessasse. Una cosa che non avevo visto in nessun luogo, nemmeno in
Cina!
Si vedeva a colpo d'occhio che la gente era stanca delle sofferenze e
brontolava di continuo, soprattutto i giovani.
Il maggiore e unico successo comunista era quello dell'alfabetizzazione della
popolazione; ormai non c'erano più analfabeti. In un certo senso quella era
stata un'arma a doppio taglio, perché la gente cominciava a ragionare con la
propria testa.
Più ci si allontanava dalla rivoluzione e più il popolo, specie gli studenti,
se la ridevano delle panzane della stessa.
Un giorno mentre, in auto, vicino all'Università, aspettavo mia moglie che
era andata in una chiesa a visitare le tombe dei suoi antenati, fui attorniato
da molti studenti che parlavano abbastanza bene l'inglese e che, vedendo una
bella macchina straniera, venivano a curiosare. Mi domandarono i dati della
macchina, quanto costava e quanto tempo ci voleva per venirne in possesso.
Risposi dicendo che si poteva avere subito, non appena pagata. Erano increduli e
uno mi chiese: "E perché noi non possiamo averle?" Risposi: "Questo proprio non
ve lo so dire, chiedetelo ai vostri capi che sanno tutto!"
Notai, tra l'altro, che il governo sovietico non si preoccupava gran che
della dissidenza e della opposizione degli intellettuali e degli scienziati,
perché erano pochi e in maggior parte ebrei; erano invece molto preoccupati per
l'atteggiamento dei giovani, decine di milioni, che, come avvenne in seguito,
potevano provocare delle complicazioni serie.
Un giorno, con l'auto e l'autista gentilmente prestatimi dal collega di
Mosca, andammo a
Zagorsk, a circa 70 km dalla Capitale, il centro delle chiese
russe, una specie di
Vaticano ortodosso ove c'era anche una mostra di antiche
icone.
L'autista, ovviamente un agente del KGB, non ci voleva accompagnare a questo
santuario; proponeva invece di mostrarci le "opere del regime", la tomba di
Lenin e la metropolitana di Mosca. Gli risposi seccamente in francese — che lui
parlava correttamente — che noi di mummie e di metropolitane ne avevamo viste
parecchie.
La strada per Zagork era asfaltata solo per la metà della larghezza, sicché
tutte le volte che si incontrava un altro mezzo bisognava scendere dall'asfalto
con il rischio di impantanarci nel fango. Per fortuna il traffico era molto
scarso. Ad un certo punto vidi, nel campo che costeggiava la strada, un trattore
nuovissimo, rosso fiammante, che arava procedendo quasi alla stessa velocità
della nostra auto! Non sono un agricoltore ma so che un trattore che ara deve
procedere lentamente. Feci pertanto fermare l'auto ed entrai nel campo per
vedere meglio. Mi accorsi pertanto che il trattorista per sbrigarsela
rapidamente aveva sollevato i vomeri e piallava solo superficialmente il
terreno: ebbi così la spiegazione degli scarsi raccolti dell'URSS che una volta
era il granaio d'Europa! Infatti sei mesi dopo, quando tornammo in Russia
all'epoca del raccolto, vidi quanto povere erano le messi! Tra le spighe
piccolissime e rare si vedeva la terra. La resa era di 7 o 8 quintali per
ettaro, mentre da noi nei terreni migliori delle province di Cremona e Brescia
si arrivava a quasi dieci volte tanto e cioè a oltre 50 quintali per ettaro! Questi i
risultati di cinquant'anni di economia e amministrazione sovietiche anche nelle
celebri terre nere della Ucraina!
 |
Il Vescovo di Helsinki Paul Verschuren, l'ambasciatore Marieni Saredo, l'Ambasciatore di Spagna Viturro,
le rispettive consorti e l'Ambasciatore di Grecia Jason Dracoulis al ricevimento
del Corpo Diplomatico |
Quello che più mi colpiva in Russia era il vedere sulle strade posti di
blocco che controllavano i permessi di transito, agli stranieri in modo
particolare. Essi infatti non potevano andare oltre 50 Km da Mosca senza
autorizzazioni speciali: ogni posto di blocco segnalava a quelli seguenti il
numero di targa delle auto straniere e l'avvenuto transito. Si era sempre
seguiti e controllati; quando tutto andava bene sembrava di essere in una specie
di convento di clausura ove nessuno sorrideva o scherzava ma tutti erano
serissimi. Quando finalmente si usciva da quel Paese per entrare in uno
occidentale, libero come la Finlandia e la sbarra di confine si era abbassata
dietro di noi, si tirava un grande sospiro di sollievo, come uscendo da un
grande incubo!
Altra cosa che impressionava era il veder compiere tutti i lavori pesanti,
come spalare la neve nel freddo atroce, e tutti i lavori di manovalanza, solo
dalle donne: gli uomini non facevano niente o lavoravano forse solo nelle
fabbriche. Questa invero è una consuetudine di tutto l'Oriente, dall' Albania
alla Cina. La stessa atmosfera opprimente e la
stessa
miseria erano visibili
negli altri Paesi comunisti che attraversammo in auto, sbarcando dalla Finlandia a
Danzica per andare d'estate in vacanza in Italia. Solo in Polonia la gente era più
aperta e parlava in modo chiaro dicendo peste e corna dei russi e dei tedeschi,
quando capiva che noi eravamo italiani.
Insomma si poteva vedere a colpo d'occhio che il comunismo, ovunque, era una
catastrofe. Solo in occidente, e particolarmente da noi, molti cretini
cosiddetti "intellettuali" continuavano ad inneggiare alle "conquiste" del
marxismo.
Ci capitò di passare per la Cecoslovacchia durante la "primavera di Praga" e
il breve Governo di
Dubcek: la gente era di nuovo sorridente e aveva voglia di
scherzare e di divertirsi. Non sapeva dei guai che avrebbe dovuto passare!
Persino nei piccoli ristoranti, restituiti ai vecchi proprietari, si mangiava di
nuovo benissimo, gustando l'ottima cucina locale, mentre nei ristoranti
statalizzati c'era il pericolo di avvelenarsi!
 |
Il Presidente Podgorny a Helsinki per i negoziati SALT
1, riceve i saluti
dell'Ambasciatore Marieni, di fronte
l'Ambasciatore d'Austria |
Durante il periodo passato a Helsinki ci furono due solenni visite di Stato:
una del Presidente dell'URSS
Podgornyj, membro del triumvirato presieduto da
Breznev che allora governava quel Paese, e l'altra del Re e della Regina del
Belgio.
Podgornyj, cui furono presentati tutti gli Ambasciatori residenti a Helsinki,
fu con me gentilissimo trattenendomi a lungo e suscitando le gelosie dei miei
colleghi con cui era stato molto più sbrigativo. Mi fece grandi lodi dell'Italia
che, mi disse, avrebbe voluto visitare e del Presidente Saragat al quale mi
incaricò di trasmettere il suo invito ufficiale a visitare l'URSS. Riferii,
com'è ovvio, telegraficamente a Roma ma non se ne seppe più nulla.
Per la visita dei Reali del Belgio eravamo stati invitati al pranzo
ufficiale. L'invito era riservato solo ai Rappresentanti dei Paesi membri della
CEE, trovata dell'Ambasciatore del Belgio, rivelatasi una gaffe, per escludere
l'Ambasciatore di Spagna ... perché rappresentava il Gen. Franco! Invece ne
rimase offesa la Regina Fabiola che è spagnola di nascita ed era stata compagna
di collegio dell'Ambasciatrice di Spagna. Mia moglie provvide allora a chiamare
al telefono l'amica e collega di Spagna e la fece parlare con
la Regina che ne
fu molto soddisfatta.
I due Sovrani erano molto cordiali, semplici ed intelligenti. Fabiola
con noi volle parlare sempre in italiano che conosceva molto bene. Il
Re
Baldovino volle poi che dopo il
 |
La Regina Fabiola del Belgio, Mariesol Viturro moglie
dell' Ambasciatore di Spagna, l'Ambasciatore Marieni e sua moglie Marina degli Albizzi |
pranzo mi sedessi accanto a lui e mi trattenne
in un lungo colloquio nel quale mi chiese una quantità di cose sui rapporti finno-sovietici e sulla situazione in URSS. Si dimostrò un Capo di Stato molto
intelligente e che intendeva informarsi di tutto.
Dopo varie insistenze presso il nostro Governo riuscii finalmente a far
invitare il Presidente della Finlandia Kékkonen a compiere una visita di Stato in Italia come era suo ardente desiderio come mi aveva fatto
chiaramente intendere a più riprese. Aveva infatti visitato i maggiori Paesi
d'Europa che lo avevano invitato mentre l'Italia, dove spesso andava in vacanza,
a Taormina, lo aveva sempre trascurato. E purtroppo il nostro sistema inveterato
di non curare i piccoli Paesi, mentre sarebbe molto più produttivo per noi
difendere i loro interessi e farcene una clientela.
L'ultima "operazione" cui attesi a Helsinki fu il viaggio ufficiale del
Presidente del Consiglio Moro su invito del Governo finlandese.
Egli arrivò con un numerosissimo ed inutile seguito che andava dalla figlia,
al medico personale, ad agenti della sua scorta, con meraviglia dei finlandesi
che dovevano pagare per il soggiorno in albergo di tutta questa gente che
ovviamente viaggiava a spese de due Governi!
Ne approfittai per ottenere dal Ministero un po' di soldi (sebbene fosse molto
restio a darne) per migliorare l'Ambasciata che era davvero fatiscente, dato che
i miei predecessori l'avevano sempre trascurata.
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L'Ambasciatore Marieni presenta al
Presidente Uhro Kekkonen una delegazione di dirigenti d'azienda italiani |
L'ambasciatore Marieni alla fiera
di Helsinki con industriali italiani |
L'On. Aldo Moro in visita
ufficiale in Finlandia |
Moro, la mattina, amava fare lunghe passeggiate a piedi considerandole una
specie di cura. Io, ovviamente, l'accompagnavo, così girammo tutta Helsinki, che
è molto estesa, chiacchierando dei più svariati argomenti. Gli chiesi, tra
l'altro, perché c'era tanta condiscendenza da parte del nostro Governo verso le
richieste sempre più esigenti e arroganti dei comunisti. Con mia grande
meraviglia mi rispose che, dato che era ineluttabile l'avvento dei comunisti al
Governo, era meglio "rendere l'operazione indolore", arrivando per gradi a
quelle che ne sarebbero state le conseguenze. Ovviamente aveva torto, come i
fatti successivi dimostrarono, ma la sua convinzione denotava una mancanza di
fiducia nella solidità della democrazia nel nostro Paese e una poca conoscenza
del mondo comunista e dei suoi macroscopici errori.
Ma tragicomici furono i colloqui politici, perché i poveri interpreti
contemporanei, pure bravissimi, non riuscivano a cogliere il senso delle
elucubrazioni ermetiche e bizantineggianti del nostro Presidente. Allora, ad un
certo punto, dovetti intervenire chiedendo al mio collega, segretario di Moro,
che parlava un perfetto inglese, di tradurre in detta lingua — ben conosciuta
dai finlandesi — l'eloquio, e così riuscimmo a portare a termine i colloqui che
comunque agli effetti pratici furono ben poco utili.
Speech
by Minister Olavi J. Mattila at the farewell
lunch given in the honour of
His Excellency, Ambassador
of Italy and Marquise Marieni Saredo, July 12th, 1971.
Mr. Ambassador and Madame Marquise, Ladies and Gentlemen,
The current year in the Finno-ltalian relations
will
go down to history as a remarkable one.
No doubt all of us are unanimous about that. The official visit of President
Kekkonen to Italy
and of Foreign Minister Aldo Moro to Finland, which took place during the first
half of the
year, are of special significance for our countries. And today we are gathered
around this festive table to say goodbye to the man whose part in the
realization of these two important
events we greatly appreciate.
The relations between Finland and Italy are traditionally good. Cultural links
between our
countries date back hundreds of years, during which the Italian art and
literature have greatly
enriched the cultural life of Finland. Politically, the relations of Italy and
Finland are without
any burdens of the past. That makes the contacts and mutual understanding on
different
levels even easier. Although Italy and Finland have solved their problems of
national security
in different ways, our common cause as European nations and members of the UN is
to work
for peace and security in our continent. Finland is a neutral country, but as
President Kekkonen
has put it, as regards war and peace, Finland is for peace and against war. This
was once again
clearly stated by President Kekkonen in his speech at the dinner offered by
President Saragat
in Rome.
The official visit of President Kekkonen to Italy last January was successful in
many respects. Besides the exchange of views on bilateral and international
questions, the President and his party were offered the chance to get acquainted
with the enormous achievements in the
field
of Italian economy. It was interesting to the Finnish delegation to see, how you
are dealing
with the problems of your developing areas and what solutions you have found,
because we
are having similar problems in our country. This is very interesting also for
me, because I am
in the Government in charge of our regional progress.

I have been duly informed about your
plans by my colleague
Minister Leskinen, who unfortunately today
is unable to assist at this lunch. He is recovering well and asked me to convey
you his best regards. Your efforts especially in building heavy industry are
examples of far-sighted solutions and dynamism of
the Italian society. As Italy belongs to the most important trading partners of
Finland, it is
of special importance to study what
still
can be done in order to develop the trade which
happily is more or less in balance. I am sure that the visit also in this
respect was useful.
The visit of President Kekkonen was in May followed by the visit of Foreign
Minister Aldo
Moro to Finland. We were happy to receive here the prominent Italian statesman
and to
continue with him our discussions of mutual interest.
Mr. Ambassador and Madame Marquise, you have represented with dignity Italy in
our
country for four and half years and won our admiration and respect. On behalf of
the Finnish Government I wish to express our heartfelt thanks for your work for
the advancement of relations between our countries. According to our archives
you are the 2Oth diplomatic representative
of Italy after Mr. Emanuele Grazzi, who as Chargé d'Affaires conveyed the
recognition of Italy to the Government of Finland on the 27th of June 1919 or 52
years ago.
GRAZZI EMANUELE
Nato
a Firenze il 30 maggio 1931, si laurea in giurisprudenza presso la R. Università
di Pisa nel 1911. Viene nominato Addetto consolare e destinato a Tunisi nel
1912. Rientra al Ministero nel 1913 ed è successivamente destinato a Helsingfors
quale Delegato italiano prima ed Incaricato d'affari poi nel Comitato economico
interalleato (1919). Viene in seguito inviato a Berlino presso il Commissariato
politico in Germania. E’ Reggente il Consolato di Berlino nel 1920 e destinato
come Console a Florianopolis nel 1922. Nel 1924 rientra al Ministero. Viene
trasferito a Tolosa nel 1925 e nel 1927 a New York come Console Generale. E'
Incaricato d’Affari in Guatemala nel 1932, e nel 1934 rientra al Ministero e
viene destinato a prestare servizio per la Stampa e la Propaganda. E’ nominato
Direttore Generale del Servizio per la Stampa Estera nel 1935.
http://baldi.diplomacy.edu/diplo/biogra/grazzi.htm |
That means that you have been here longer than the Italian heads of Mission
usually.
Your
stay includes 5 winters but also 5 summers. It is quite clear that for many
foreigners our
cold and dark periods of year may be too hard and too long to bear, but we do
hope that
our summers with bright nights have been able to compensate the winters. Anyhow,
it is not
the climate, but the general atmosphere in which one works and the people with
whom one
is in contact, which are the most important factors to make one's stay
enjoyable.
And we
Finns like especially Italians. Let us only recall the case of our countryman,
Kustaa Mauri
Armfelt, who in the beginning of
seventeen-nineties was the Swedish ambassador in the
court of Naples. When the splendid Armfelt had to leave his post, it was
greatly regretted
and the hearts of many women in the court were filled with sorrow.
He certainly did not
neglect the human aspect besides the official tasks. I must say that this time
also the hearts
of us gentlemen are
filled
with sorrow. May I congratulate you, Marina and Alessandro, for
your very successful mission in Finland.
Mr. Ambassador, when you are now soon leaving us and the
file
on you
will
be put to our
archives besides those of your predecessors, it
will
by no means mean that you and Madame
Marquise
will
be forgotten. On the contrary, fire can destroy a
file,
but nothing can strike
out of one's memories nice people and good friends.
Ladies and Gentlemen, I raise my glass to the friendship of Italian and Finnish
peoples, to
the health of Ambassador Saredo and Madame Marquise and wish them success in
their new duties. |
11) In Algeria
(pag 214 a pag. 217)
Inizio
Pagina
Dopo quattro anni e mezzo e ... cinque inverni, ne avevo abbastanza del Nord
e chiesi di essere avvicinato all'Italia anche perché sia io, sia mia moglie
desideravamo vedere più spesso i nostri figli e curare un po' i nostri
interessi. Mi fu così offerta la sede di Algeri allora disponibile, che
raggiunsi nell'ottobre del 1971. Finalmente un clima diverso e molto sole che da
nove anni, prima a Strasburgo e poi a Helsinki, avevamo visto di rado!

L'Algeria è il più bel paese del nord Africa ed ha un buon clima
mediterraneo, non molto differente da quello di Cagliari o di Palermo. Infatti
la sua fascia costiera, larga da 30 a 40 Km, è verde e lussureggiante perché
protetta dai venti aridi del Sud dalle ultime pendici dell'Atlante.
I primi colonizzatori, i Romani, che se ne intendevano,
vi avevano fondato belle e ricche città e lasciato tracce molto interessanti,
anche dal punto di vista artistico, del loro vivere altamente civile.
L'Ambasciata era una bellissima villa con un grande parco, comprata
recentemente a buone condizioni da un ricco francese che rimpatriava a causa
delle violenze della guerra per l'indipendenza dell'Algeria.
Eravamo molto soddisfatti per la nuova sede, ma per me cominciarono subito i
problemi.
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Visita ad
Algeri della Squadra Navale italiana composta dal Cacciatorpediniere
lanciamissili Impavido e le Fregate Bergamini e Margottini |
Gli algerini, che compravano da
noi di tutto per oltre cento miliardi (di lire di allora), minacciarono di non
comprare più nulla e di rivolgersi ad altri mercati, perché noi non importavamo
da loro assolutamente niente! Non avevano
tutti i torti,
visto che erano costretti a pagare in dollari che anche da loro
non abbondavano. E' vero che essi non producevano nulla di appetibile per noi,
tranne il petrolio e il gas metano, ma da noi l'ENI, governato dai socialisti
sotto l'egida del Vice Presidente del Consiglio On. De Martino, preferiva
comprare questi prodotti energetici dal nostro nemico Gheddafi in Libia, pagando
anche di più del prezzo di mercato!
Telegrafai e scrissi ripetutamente a Roma in merito a questo problema, ma il
Ministero, retto da Moro, come al solito non rispondeva né provvedeva.
Andai allora a Roma a mie spese e scavalcando il mio Ministero mi diressi
direttamente dal Presidente del Consiglio che per fortuna era Andreotti il quale
molto gentilmente mi ricevette subito. Avevo conosciuto molto bene l'On.
Andreotti e avevo imparato ad apprezzarlo e ad ammirarlo per la sua difficile
opera.
Tra tutti i numerosi uomini politici che avevo conosciuto, sia all'epoca del
fascismo che della democrazia, era l'unico che profondamente stimavo per la sua
intelligenza, capacità ed efficienza, il tutto accompagnato da una fondamentale
onestà e bonomia di autentico vecchio romano. I romani
attuali non sono più gli stessi perché imbastarditi dall'alluvione degli
immigrati dalle restanti regioni, specie dal sud. Egli aveva un grande senso
dello "humor" e uno spirito degno di Pasquino. Era l'unico Ministro che
conosceva a perfezione gli ingranaggi della macchina dello Stato e sapeva in
ogni evenienza dove mettere le mani.
A S.E. l'On. Prof. Aldo MORO
Ministro per gli Affari Esteri
ROMA
Signor Ministro,
Alla fine della mia missione in Algeria – durata meno di due anni - e della mia
carriera, ritengo possa essere di qualche utilità fare brevemente il punto sulle
relazioni fra questo Paese e il nostro e gli sviluppi che in queste relazioni si
sono nel frattempo avuti.
Mi sembra invece superfluo dilungarmi sulla politica interna ed estera
dell'Algeria verso terzi Paesi, in quanto questa Ambasciata ha più che
compiutamente informato in proposito e mi richiamo fra l'altro alla diffusa
relazione di fine anno 1972.
Tuttavia è bene rilevare immediatamente che la politica algerina verso i Paesi
"fratelli" arabi non ha riscontrato successi negli ultimi tempi e che le
relazioni con il Marocco, la Libia, l'Egitto, la Siria e ancora più con la
Giordania e l'Irak sono turbate da sospetti e da rivalità: la eventuale fusione
o federazione tra Libia ed Egitto costituirebbe poi lo scacco maggiore della
politica di Bumedien - Buteflika.
Anche nei riguardi dell'Africa Nera la
politica di Algeri non ha riscosso successi degni di rilievo, sembra anzi che i
popoli al Sud del Sahara si rendano sempre più conto del carattere razzista
degli algerini - nonostante le dichiarazioni verbali di amicizia - e si
ricordino della ferocia dei negrieri di Algeri che avevano razziato e venduto
come schiavi i loro padri ed avi.
Per questo forse il Governo di Algeri tenta
ora di rilanciare una politica di più ampio respiro cercando di farsi
considerare un "leader" dei Paesi non allineati e pertanto sta dando grande
enfasi alla Conferenza di Settembre ad Algeri che sarà seguita da oltre 80 Paesi
di terza forza.
Enfasi forse eccessiva perché i Paesi non allineati hanno interesse non sempre
convergenti ed alle volte disparati, se non contrastanti e le loro riunioni
sino ad ora hanno dato - come quella di Georgetown - ben scarsi risultati per lo
più di propaganda e di retorica.
Come già detto, questo Governo vorrebbe
proporre alla prossima Conferenza, la Costituzione ad Algeri di un organo
permanente dei non allineati onde poter continuare a svolgere attività politica
fra le Conferenze e dare quindi maggior peso all'apporto algerino.
Questo
Ministro degli Esteri inoltre prepara un progetto di dichiarazione della
Conferenza che avalli gli interventi algerini nella CESC onde conferire maggior
momento alla propria politica mediterranea.
L'attivismo improvvisato oltre alla
inesperienza del giovane Ministro Buteflika, particolarmente nella politica
estera multilaterale, ha provocato qualche insuccesso per l'Algeria: da ultimo
l'insistenza degli Algerini - che pretendono sempre trattamenti privilegiati e
superiori a quelli dei loro vicini - per partecipare a tutte le fasi della CESC
appoggiata in modo poco opportuno e senza troppo tatto da un altro debuttante in
politica, il maltese Dom Mintoff, ha provocato, come era logico pensare e come
l'Ambasciatore Ducci, in occasione del suo viaggio qui, ed io stesso più volte
avevamo preavvertito questo Ministero esteri, analoga domanda di Israele di
prendere parte ai lavori della Conferenza allo stesso titolo di Algeria e
Tunisia.
Per quanto concerne i nostri più diretti interessi e rapporti con
l'Algeria, si può' dire che dal lato politico non esistano problemi di qualche
momento, anzi vi siano delle convergenze notevoli anche per quanto riguarda la
pace e la sicurezza del Mediterraneo.
Gli algerini ce ne vogliono solo per gli
ostacoli frapposti da noi e dai francesi alla loro esportazione di
ortofrutticoli e vino nell'area della CEE.
Il nostro Ministro dell'Agricoltura
è stato spesso l’oggetto di critiche di questa stampa.
Ma anche qui gli algerini
dimostrano scarso realismo domandando cose che non possono essere accordate e
trattamenti di favore superiori a quelli fatti ad altri, senza voler ammettere
che tali privilegi - se concessi loro - dovrebbero immediatamente essere estesi
anche agli altri Paesi Mediterranei. Esiste fra i due nostri Paesi un contenzioso
che comprende l’indennizzo di beni confiscati, il pagamento di pensioni sociali
incamerate da questo Governo e trasferimento di fondi italiani ancora qui
bloccati.
Per tali problemi non risolti ho proposto che si interessi, qualora lo
si giudichi opportuno, la Commissione della CEE, affinchè ponga la loro
soluzione come condizione alla conclusione di un accordo globale con
l'Algeria. Le relazioni commerciali tra i due Paesi sono andate progredendo
soddisfacentemente e stanno per raggiungere i 100miliardi di sole vendite
italiane all'Algeria: si sarebbe potuto fare di più se avessimo cercato di
comprare qualche cosa in Algeria.
Non si può' infatti pretendere di vendere -
come ho più volte osservato,- se non si compra nulla da un paese ancora legato
al regime delle compensazioni.
La Germania Federale che compra in grande stile
petrolio e gas algerini ha potuto pertanto vendere più di noi e ciò a scapito
delle posizioni commerciali francesi che, anche se ancora importanti, stanno via
via riducendosi.
L'ENI non ha mai comprato finora né olio greggio né gas.
Per
fortuna due Società private italiane la SIR e la PETROSARDA hanno lo scorso anno
comprato cumulativamente circa 3milioni di tonnellate di greggio e contribuito a
un certo parziale riequilibrio della bilancia commerciale con l'Algeria.
Altra
industria italiana che non ha gravato la bilancia commerciale a danno
dell'Algeria è stata la FIAT che ha comprato qui per oltre tre miliardi di lire
di minerali di ferro ceduti poi alla ITALSIDER di Taranto, oltre a quantitativi
di altre merci.
Come ho detto, per quanto concerne le relazioni economiche, il
grande ostacolo alla espansione delle nostre vendite in questo Paese era ed è
tuttora costituito dalla mancanza di una contropartita di nostri acquisti.
Si
imponeva quindi la ripresa dei negoziati per la fornitura di gas algerino che,
iniziati da circa otto anni, languivano ed erano arrivati un anno e mezzo fa ad
un punto morto per una differenza tra il prezzo chiesto dagli algerini e quello
che noi eravamo disposti a pagare. E’ mancata da parte delle precedenti dirigenze
dell'ENI la preveggenza dell'andamento del mercato degli idrocarburi e della
crisi che iniziava, anche dal punto di vista della scalata dei prezzi.
Tutto ciò fu invece previsto dagli americani (Compagnia El Paso ed altre) che
rapidamente conclusero accordi per l’acquisto di grandi quantitativi di gas,
immediatamente seguiti dal Consorzio europeo del gas naturale comprendente i
maggiori Paesi della CEE, oltre Spagna, Austria e Svizzera.
Pochi mesi dopo la mia
assunzione di questa Ambasciata intervenni pertanto a tutti i livelli della
Amministrazione italiana, sino al Presidente del Consiglio On. Andreotti,
insistendo sulla necessità di ripresa dei negoziati con l'Algeria per due
essenziali ragioni:
1°) costituire una vasta contropartita che permettesse
l'espansione delle nostre forniture all'Algeria che rischiavano di ridursi fino
aggiungere ad un punto morto;
2°) procurare al nostro Paese, prima che fosse troppo tardi, una vasta riserva
di rifornimento di idrocarburi assolutamente indispensabile per lo sviluppo
industriale specie dell'Italia meridionale.
L'attuale dirigenza dell'ENI comprese le esigenze di cui sopra e riprese molto
attivamente il negoziato. Certo se l'ENI non avesse precedentemente perduto
tanto tempo l'economia italiana avrebbe risparmiato varie centinaia di miliardi
di lire sugli oltre ottomila miliardi di lire cui presumibilmente ammonterà
complessivamente la fornitura per 20 anni di oltre 10miliardi di metri cubi annui di
metano attraverso il costruendo gasdotto del Mediterraneo.
Qualora l'accordo tra SONATRACH ed ENI - già a buon punto - venga firmato, cosa
che dovrebbe avvenire entro breve termine, l'Italia avrà a disporre per una
ventina d'anni una grossa contropartita sicura per le proprie esportazioni in
questo Paese che potranno pertanto dilatarsi in misura ingente, sempre che
ovviamente la produttività e quindi la competitività del lavoro italiano non
continuino a deteriorarsi.
Per concludere, l’Algeria è un Paese sostanzialmente ricco e il più attivo degli
Stati nord africani, dotato di una classe dirigente – per lo meno quella ad alto
livello - dinamica e tenace e con un piano di sviluppo ben congegnato. Purtroppo
l'incostanza e incapacità propria degli arabi di lavorare con metodo ed in modo
continuativo nonché l’esplosione demografica frenano e neutralizzano spesso lo
sviluppo previsto.
L'Algeria sta inoltre accumulando un indebitamento eccessivo verso l'estero,
indebitamento che potrebbe presto raggiungere livelli pericolosi.
Questo fenomeno durerà sino al 1978-80 - ci saranno quindi 5 o 6 anni duri da
superare - dopo tale data il Paese potrà incassare oltre due miliardi di dollari
annui per le sole vendite di gas e pertanto potrà tranquillamente affrontare l’ammortamento dei debiti contratti e gli impegni futuri.
Voglia gradire, Signor Ministro, gli atti del mio ossequio.
Firmato: Ambasciatore Alessandro Marieni Saredo
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Soprattutto sapeva lavorare, a differenza
degli altri politici. Ebbi occasione di seguirlo nel suo viaggio in America Latina durante il quale (nel trasferimento in aereo che da Roma per Buenos Aires
durava allora ben 46 ore) non fece che interrogarmi su quello che sapevo su quei
Paesi.
Ero infatti considerato un conoscitore di quel subcontinente perché oltre
ad essere stato quattro anni a Buenos Aires, ero stato Capo dell'Ufficio
politico dell'America Latina. Vidi poi che teneva conto di quello che gli avevo
detto.
Allo stesso modo, come Capo dell'Ufficio stampa del Ministero degli Esteri,
ebbi occasione più tardi di accompagnarlo nei suoi viaggi per partecipare, quale
Ministro della Difesa, al Consiglio dei Ministri dell'Alleanza atlantica.
In
tali occasioni vidi che alla vigilia delle sedute egli radunava tutti i
componenti della nostra Delegazione e dava a tutti la parola in relazione ai
vari punti dell'agenda delle discussioni che avrebbero avuto luogo il giorno
seguente e prendeva appunti sui pareri espressi dai suoi collaboratori.
Questo è il modo di agire delle persone intelligenti, perché se lo Stato
spende per ottenere la preparazione dei suoi funzionari è logico che poi essi
siano interpellati nel corso dei lavori, altrimenti il denaro speso per ottenere
degli esperti è del tutto sprecato. Così però non pensavano tutti i Ministri
degli Esteri che avevo conosciuto e che ritenevano, come si dice a Roma, di
essere "nati imparati" mentre non sapevano nulla e facevano delle pessime figure
di fronte agli stranieri dicendo solo delle banalità.
Quando il Presidente Andreotti molto gentilmente mi ricevette e mi trattenne
a lungo, gli parlai della situazione petrolifera come la si vedeva dall'Algeria
e del ricatto arabo che si andava preparando. Gli portai, tradotti, i ritagli
dei giornaletti algerini scritti in arabo che incitavano al ricatto asserendo
che gli arabi, detentori del petrolio, potevano e dovevano mettere in ginocchio
i Paesi industrializzati dell'Occidente, capitalisti e colonialisti. I due giornali in
lingua francese erano un po' più moderati, erano quelli letti dagli occidentali
ed il Governo non voleva che questi ultimi fossero troppo preoccupati delle
intenzioni dei Paesi che volevano ricattarli.
Per fortuna in Ambasciata c'era un impiegato locale, nato ad Alessandria
d'Egitto, che sapeva perfettamente l'arabo e che avevo incaricato di segnalarmi
tutto quello che ci poteva interessare.
Dissi ad Andreotti che rischiavamo di perdere il mercato algerino per i
nostri prodotti se non compravamo nulla da loro e rischiavamo pure di non
trovare più del gas in Algeria perché tutti se lo accaparravano, persino i
lontani Stati Uniti che avevano costruito speciali cisterne per trasportarlo
sotto pressione e a bassissima temperatura. Saremmo stati costretti a dipendere
solo dai sovietici per il rifornimento di gas, cosa certamente non augurabile.
Andreotti mi diede subito ragione e seduta stante telefonò al Presidente
dell'ENI, dicendogli di ricevermi perché avevo da esporre cose molto importanti.
Fu così che finalmente l'ENI si svegliò dal letargo e cominciò le trattative con
il Governo algerino.
Sennonché, volendo fare gelosamente tutto da sé senza l'ausilio delle autorità
diplomatiche, si impegnò alla costruzione del pipe-line attraverso il
Mediterraneo dalla Tunisia alla Sicilia, oltre alla costruzione di tutta la
tubazione dai pozzi del Sahara algerino all'Italia centrale, senza prima
ottenere un impegno sul prezzo del metano ed esponendosi al ricatto una volta
finiti i lavori, come inevitabilmente avvenne, more arabo.
Si trattava di un'opera ciclopica, che non aveva precedenti in nessuna parte
del mondo e per questo era anche praticamente impossibile prevedere il costo
complessivo ad opera compiuta.Solo i Giapponesi avevano costruito un breve
oleodotto sottomarino che univa due delle loro isole maggiori.
Ebbi ancora occasione di assistere alla visita di Stato in Algeria del
dittatore cubano Fidel Castro che mi fece l'impressione di un vero buffone,
degno
rappresentante di un comunismo da operetta tragicomica, ma purtroppo molto
adatto a quella Repubblica delle banane.
Dopo quasi quarant'anni di
carriera che mi aveva dato notevoli soddisfazioni, cominciavo ad essere stanco
di girovagare per il mondo e di sobbarcarmi il lavoro reso pesante sia dagli
eventi drammatici che avevamo passato, sia per la presenza di Ministri degli
Esteri prima fascisti e poi antifascisti che rendevano tutto sempre più complicato in
quanto, a mio parere, non operavano proprio nell'interesse del Paese.
Bisognava spesso andare controcorrente per poter combinare qualche cosa e ciò
era faticoso. Sentivo poi la necessità di occuparmi di più degli interessi della
mia famiglia che avevo sempre dovuto trascurare e di stare un po' più vicino ai
miei figli.
Nella primavera del 1973, su proposta del Presidente del Consiglio Andreotti,
fui promosso Ambasciatore, il massimo grado della mia carriera: fino allora ne
avevo avuto solo l'incarico e le funzioni.
Non avendo più nulla da pretendere dal Ministero, presi subito la palla al
balzo e mandai un bel telegramma di dimissioni dal grado e dall'impiego.
Il 1° ottobre 1973 lasciai pertanto l'Algeria e me ne tornai con grande
soddisfazione alla casa di campagna di Bergamo, chiudendo definitivamente la mia
attività diplomatica.
PRECEDE:
1)
La Carriera Diplomatica: L'Esordio
2)
Il Patto d'acciaio e lo scoppio della guerra
3)
Contatti ufficiosi per negoziati di pace
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