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L'INFLUENZA POLITICA DI SAREDO E LA QUESTIONE ROMANA

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Il presente capitolo illustra il carattere e la forte personalità di Giuseppe Saredo alla base del suo rapporto con i personaggi politici del suo tempo, nonchè le fasi della sua prestigiosa carriera pubblica e l'influenza che ebbe nell'orientare la politica italiana della fine del XIX secolo.
Dell'opera di Ambrogio Casaccia intitolata "Giuseppe Saredo" edita da Stabilimento Tipografico Editoriale Ricci, Savona 1932
riportiamo integralmente:

il Capitolo   VIII: Carattere di Saredo - Rapporti con grandi italiani - La Questione romana
     da pag. 163 a pag. 178
il Capitolo      IX: Consigliere di Stato e Senatore
                                                                               da pag 179 a pag. 200


 

CAPITOLO VIII

 

  CARATTERE DI SAREDO - RAPPORTI CON GRANDI ITALIANI - LA QUESTIONE ROMANA
 

 

CARATTERE ATTIVO ED INTEGRO
 

L'attività di Saredo nella vita politica fu complessa, continua e instancabile. Iniziatasi a Torino nel 1849, quando apparvero i primi scritti di lui su fogli liberali di quella città, si protrasse fino al 1902, allorché la morte lo sorprese, affranto dalle fatiche dell'inchiesta di Napoli.

Raramente egli si concedette tregue o riposi ed amò sempre il lavoro, anche duro e sfibrante, e s'addolorava ogni volta che il tempo non gli permetteva di adempiere, giorno per giorno, le molteplici e gravi incombenze cui s'accingeva o gli venivano affidate.
 

In una lettera del 22 Dicembre 1898, scriveva all'amico Agostino Cortese:

Agostino Cortese
fu sindaco di Savona dal 1884 al 1886

«La mia vita è tale un turbine di occupazioni, che, cominciando dalle 5 del mattino alle 11 di sera, non riesco a mettermi al corrente».


Questa sua attività non sfuggiva ad alcuno, ed il giornale «Secolo XIX» di Genova la chiosava argutamente così : «Saredo fa tante cose da una mezzanotte ad un'altra, che è perennemente l'uomo  del giorno».

Nella sua operosa carriera brillò d'un'onestà socratica ed esemplare e nei suoi atti pubblici si cercherebbe invano un momento  in cui abbia deviato dalla sua rettitudine.
Il savonese grand'uff. Lorenzo Ratto, che visse molto tempo con lui a Roma ed a Napoli, mi confidò essere stato quegli l'uomo più retto da lui conosciuto. «Saredo - sono parole del Ratto - avrebbe dato un calcio a un milione, se questo gli fosse stato offerto per fargli abbandonare la sua probità».

Forte della sua integrità di condotta, non temette mai gli avversari anche se ministri o presidenti del Consiglio. Avvenne, anzi, talora il contrario, ossia che qualche ministro o capo del Ministero temesse Saredo e bramasse non averlo a incontrare, perchè in lui, Saredo, si riconosceva da tutti, oltre che l'integro cittadino, uno dei più terribili bollatori e nemici delle frodi e corruzioni a danno dei Comuni, delle Provincie, delle Opere pie e dello Stato.

 

OSTILE ALLE RACCOMANDAZIONI.

Avverso allo spirito arrivista d'una moltitudine d'individui che, privi di titoli e meriti, tentano salire la scala degli impieghi e delle  onorificenze blandendo, strisciando e adulando, accolse e fece ben  di rado raccomandazioni, e solo e sempre, quando aveva coscienza di non andare contro giustizia.
Un giorno, che, da tre deputati, gli venne raccomandato di occuparsi di una persona a lui ignota, egli, prima, volle accertarsi  dell'equità della cosa, scrivendo a un proprio amico Savonese, al quale fra l'altro disse: «Aspetto la tua risposta, perchè la raccomandazione dei tre deputati non m'importa un cavolo».

Un'altra volta un prefetto gli si rivolse, con fare supplichevole e  mellifluo, perchè lo facesse creare senatore. Nella lettera, (che se non fosse umiliante sarebbe un monumento della meschinità in cui piombano gli uomini in preda alla sete di vanità !) il prefetto non s'accontentava di enumerare le proprie benemerenze e di dichiararsi superiore ai suoi colleghi compresi nella lista dei prossimi blasonandi, ma affermava che oramai aveva  accasati i propri figliuoli; che sua moglie preferiva il clima di Roma a quello di B., ove era prefetto; che da senatore avrebbe potuto servir meglio l' Italia e che era disposto, (sic.) trasferendosi a Roma, a frequentare assiduamente le sedute di Palazzo Madama.
Chissà con che risate e ironie Saredo avrà letto un tal documento. Certo che per Saredo quel prefetto non indossò il laticlavio, nè si mosse da B.

La rigida ostilità di Saredo a fare raccomandazioni apparisce  evidente anche da questa lettera diretta al Comm. Vittorio Poggi.


Mio caro Poggi,
Ho ricevuto la istanza della signora M..., che tu vivamente  mi raccomandasti. Ma debbo confessarti che io ho per regola assoluta di non fare sollecitazioni nei Ministeri.
La mia qualità dà capo della Suprema Magistratura amministrativa del  Regno e, quindi, di giudice degli atti dei Ministri e dei Ministeri  m'impone la più generale riserva nelle mie relazioni con loro. E' questa la risposta che faccio ogni giorno a tutte le raccomandazioni che ricevo per persone o interessi privati.
I soli interessi che consento a patrocinare sono quelli che hanno carattere pubblico e in specie quelli della nostra Savona.
Roma, 21 Gennaio 1899.
tuo aff. G. Saredo


 

DEVOTO AL RE ED ALLO STATUTO

In politica appartenne alla Destra, ma non sdegnò di collaborare  con uomini di Sinistra, non curandosi delle critiche e degli attacchi dei pusilli o di coloro che fingevano scandalizzarsi.
Rigidamente monarchico e devoto alla Casa Sabauda, frequentava la  Corte, ove eccelleva per la sua cultura e godeva la più grande stima della regina Margherita.

Della sua fede monarchica feci già diffusamente parola altrove (1), e  qui vi accennerò soltanto riproducendo il seguente tratto della prefazione al suo libro «Il passaggio della Corona».

«Da questo breve scritto - così Saredo - che (come ben s'intende) è lavoro di pochi giorni, il solo sentimento che apparirà  manifesto da tutte le pagine, è quello d'una devozione profonda alla Monarchia ed allo Statuto, sotto i cui auspici, grazie al senno del Re che abbiamo perduto ed al concorso operoso di tutti i partiti, si è fatta l' Italia».
«Esponendo le dottrine costituzionali, che credo giuste sul «passaggio della Corona» intendo cooperare in qualche misura a  dissipare dubbi ed equivoci, ad accogliere gli animi e gli affetti intorno alla Dinastia, che è divenuta una grande istituzione  nazionale, che è per l'Italia guarantigia di sicurezza e di libero governo».
«Casa Savoia ci ha reso un premio ed un servigio assicurandoci l'unità».  (2)

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NOTE
1) Vedi p. 99 e 106 di questo volume.
2) Saredo compose il volume «Il passaggio della Corona» in occasione della morte di Vittorio Emanuele II, pubblicandolo per contribuire alio scioglimento delle controversie,
    cui dava luogo allora, per la prima volta dopo l'unificazione d' Italia, il trasferimento del potere sovrano.
    Nei vari capitoli dell'opera (compilata in pochissimi giorni) sono trattati, con una poderosa cultura, densa di citazioni di autori italiani, francesi, tedeschi, inglesi e latini i
    seguenti  argomenti :
      1° - Qual'è il carattere politico e giuridico della Monarchia italiana?
      2° - Come si opera la trasmissione giuridica della Corona?
      3° - Quali effetti produce per il nuovo Re il passaggio della Corona, nel'.' Ordine politico  presente?
      4° - Qual'è il valore giuridico della prestazione del giuramento del Re?
      5° - Quali sono gli effetti in relazione alla Nazione?
      6° - Qual'è il significato della coronazione?
      7° - Quali effetti produce il cambiamento de! capo dello Stato in relazione ai Ministeri,  Parlamento, Autorità giudiziarie e amministrative, Esercito e Marina?
   Il libro, pubblicato nel 1878, apparve, a puntate, anche nella rivista «La Legge» e venne ripubblicato, nel 1900, nella monumentale collezione di studi legali, giuridici e
   amministrativi intitolata «Digesto italiano» di cui Saredo fu direttore.

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AMICO DI GRANDI ITALIANI DEL RISORGIMENTO

Saredo, avendo vissuto tutto il periodo del nostro Risorgimento  e prolungandosi la sua esistenza fino al 1902, conobbe quasi tutti i migliori uomini politici che cooperarono all'unificazione e  sviluppo d' Italia, ed a molti di essi fu legato da sentimenti di salda  amicizia, che neppure le idee opposte e i contrasti politici valevano a  scemare.

Resi già note le sue relazioni con Cavour (1) per cui ora non vi accennerò che, riportando il giudizio, espresso da Saredo sul Conte poco dopo la di lui morte.
Scrivendo degli scarsi seguaci che la scuola liberale ebbe in Italia al suo sorgere, disse: «Fortunatamente ne ha avuto uno il cui nome valeva un esercito, ma non è più. La morte di Cavour le ha tolto il più Valoroso dei suoi esemplari. Le ha tolto colui che grazie all'autorità del nome, grazie al potente prestigio della sua eloquenza, e alla sua fiducia illimitata nella dignità della natura umana e nella virile energia del cittadino italiano poteva meglio di chicchessia far trionfare i principi, che proclamava con tanta profondità di convincimento a infondere negli altri la fiducia che egli sentiva». (2) A pag. 8 dello stesso volume disse che: «la scomparsa di Cavour fu una catastrofe nazionale perchè morì prima d'aver realizzato il programma che s'era proposto».
Relazioni più intime, come il lettore ricorderà, lo strinsero a  Mamiani, Minghetti, Brofferio, Villa, Sella, Correnti, Rattazzi, Ferrara ecc.
Mamiani lo scelse un tempo a suo segretario, gli fece la prefazione alla «Rivista illustrata», lo nominò professore di Università (3) e Saredo lumeggiò il valore e le opere di Mamiani in un  volumetto. (4)
 

Minghetti, come palesano alcune sue lettere (5), apprezzò Saredo non solo come insegnante universitario e maestro di liberalismo, ma ne sollecitò i consigli e giudizi per la fondazione di  giornali e per l'esame di situazioni politiche; e Saredo, oltre alla compilazione della biografia del Minghetti (6) ed ai non indifferenti servigi prestatigli, gli porse un valido sostegno al tempo della battaglia sulla nullità degli atti non registrati. (7)

Il 27 novembre 1873, il MINGHETTI fece l'esposizione finanziaria, in cui dichiarò che il disavanzo del 1874 sarebbe stato di 130 milioni, cinquanta dei quali, e cioè quelli occorrenti per le costruzioni, si sarebbero potuti ricavare con il credito. Per colmare il disavanzo degli altri 80 milioni il Minghetti propose quattordici disegni di legge relativi alla tassa sui redditi di ricchezza mobile, alla nullità degli atti non registrati, all'abolizione della franchigia postale, all'estensione della privativa dei tabacchi in Sicilia ecc.

La questione scottava sia in Parlamento che fuori, trattandosi d'un  argomento toccante da vicino l'essenza dei contratti tra cittadini.
Saredo pubblicò, in materia, un importantissimo studio, che, a detta di Boselli, ne rese popolare il nome in tutta la Nazione.
Minghetti, presidente del Consiglio, voleva la votazione della legge. Tomaso Villa difese, con un poderoso discorso, il progetto alla Camera contro l'on. Mantellini. Saredo propugnò il  medesimo progetto col suo opuscolo nel paese; opuscolo che gli fruttò, moltiplicata, la riconoscenza di Marco Minghetti, benché la legge, allora sia rimasta arenata.

Dei rapporti del nostro uomo politico colle altre personalità ora  citate, ad eccezione di quelli con Urbano Rattazzi, credo d'aver dato nei precedenti capitoli una sufficiente idea ai cortesi lettori.
Senza ripetere anche per essi, (Rattazzi e Saredo) che si amarono e  stimarono, collaborarono in istessi giornali, si scambiarono  corrispondenza e favori, pubblicherò solo il brano in cui Saredo, a colpi incisivi e fedeli, tratteggiò e tramandò alla storia la silouette del suo amico e uomo di Stato alessandrino.

Dopo aver riferito sulla questione della Magistratura e della necessità di rinnovellarla negli uomini - questione fatta nelle prime sedute del parlamento piemontese - dice: «In quella discussione spuntava, per la prima volta, sull'orizzonte politico un avvocato di provincia che si faceva notare per l'ardore radicale dei suoi  principi: uomo di sottile ingegno, ignaro affatto di scienze civili ed economiche, ma abile parlatore, giure-consulto peritissimo, devoto alla democrazia, ma ostile alla libertà; che doveva più tardi occupare grandissima parte nel maneggio dei pubblici affari e degno, sotto ogni aspetto, della considerazione d'uomo politico distinto; non fatto per le grandi idee e le grandi cose, ma per comprendere rapidamente le piccole e condurle al termine con rara fierezza: carattere integro».
«Tutti hanno riconosciuto in questo ritratto Urbano Rattazzi! ».
«... Il primo discorso di Urbano Rattazzi si distingue per le qualità e pei difetti, che segnalarono tutti quelli che pronunziò d'allora  in poi. Molta abilità, molte precauzioni oratorie; un sì, seguito da un no ; un no, seguito da un sì ; un elogio accompagnato da una critica e una critica accompagnata da un elogio». (8)

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NOTE
1) Vedi p. 13 e 45 di questo volume.
2) Vedi Saredo: Marco Minghetti p. 9 e 10
3) Vedi p. 46 di questo volume.
4) Vedi p. 61 di questo volume.
5) Sono conservate dalla Marchesa Marieni.
6) Vedi p. 62 di questo volume.
7) Son debitore delle notizie su questo argomento a S. Ecc. Paolo Boselli.
8) Vedi Saredo: Federico Sclopis p. 61 e 62.
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RINUNZIA ALL'INSEGNAMENTO UNIVERSITARIO

Uno degli uomini politici con cui Saredo maggiormente s'intese e col quale si mantenne in diuturna collaborazione cordiale fu  però Agostino De Pretis.
Conosciutisi in gioventù a Torino, (1) avevano conservati buoni rapporti, anche dopo la partenza di Saredo da quella città per Bonneville e Sassari.
Trasferita la capitale del Regno a Roma, i loro incontri divennero più frequenti, perchè Saredo vi dimorava qual professore e  De Pretis vi si recava qual deputato; e da simili incontri, e dalla maggior  consuetudine scaturì quella profonda reciproca stima e leale amicizia, che fece ascendere Saredo a nuove cariche e onori, e che fruttò a De Pretis, per lunghissimi anni, un  consigliere intelligente e fidato.
De Pretis, il famoso «uomo di Stradella» già stato più volte Ministro d' Italia, ne divenne nel 1876 il Capo del Governo, avendo  capeggiato la rivoluzione parlamentare, che, nel Marzo di quell'anno, abbattè e spodestò la storica Destra.
Fin da quell'anno egli si giovò dell'opera di Giuseppe Saredo, espertissimo nella scienza amministrativa e giuridica, per diverse pratiche e progetti legislativi ; e, volendolo collaboratore più  assiduo e vicino, nel 1879, l'invitò a rinunziare allo insegnamento universitario e lo creò Consigliere di Stato.

Da questo punto la collaborazione di Saredo s'intensifica, diventando veramente preziosa.

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NOTE
1) Da notizie confermatemi da S. Ecc. Boselli e dal senatore Tancredi Galimberti. Agostino de Pretis, nato il 13 Gennaio 1813 a Mezzana Corti - Bottarone (Pavia) entrò
    nel 1848 nel primo Parlamento subalpino, rappresentandovi il Collegio di Broni.

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COLLABORATORE DI DE PRETIS
 

In casa Marieni, a Bergamo, si custodiscono, come sacri cimeli, voluminosi manoscritti di progetti di legge, di esposizioni di bilanci, di discorsi agli elettori, di circolari ecc., stesi da Saredo per l'amico Presidente del Governo.
Questi chiamavalo quasi ogni giorno e spesso più volte al giorno presso di sè, sia a casa che al Ministero, per consultarlo su interpretazioni di leggi, risposte a interpellanze parlamentari, quesiti di  prefetture ed altre questioni.

A Roma inoltre, i Marchesi Marieni conservano una vera raccolta di biglietti d'invito e sollecitazioni, testimonianti la brama di De Pretis di ascoltare i giudizi e pareri del nostro Saredo.
Ecco il tenore di alcuni di tali biglietti.

 

Caro amico,
Vorrei parlarle in giornata. L'attendo a casa stasera.
Suo dev.mo De Pretis

Caro amico,
Ho bisogno di parlarle. Venga alle 3 al Ministero. Ha terminata la  relazione? Devo presentarla domani.
Suo dev.mo De Pretis

Caro amico,
Desidero vivamente di vederla, avendo molte cose da dirle e grande bisogno del suo aiuto. Oggi non mi muoverò da casa, e se può Venire da me, mi troverà a tutte le ore, meno che dalle 2 alle 3, che ho preso impegno con Correnti.
Mi creda sempre suo dev.mo
19-10-1886.
De Pretis


Tra i progetti di legge più importanti, preparati da Saredo per De Pretis, ed attorno ai quali consumò notti intere, vanno enumerati quello sullo stato degli impiegati civili, quello sulla riforma elettorale, quello sulla legge comunale e provinciale e quello sulla riforma del Consiglio di Stato.
Validissimo aiuto prestò pure all'amico Ministro nella disamina di crisi politiche e nella formazione dei nuovi Gabinetti.

Eloquente questo episodio, narratomi dal savonese canonico Pietro Poggi, invitato una sera a pranzo da Saredo in Roma !
Il canonico giunse all'abitazione all'ora fissata, accolto gentilmente dalla signora Luisa. Il marito doveva ancora arrivare. Si attese. Ma il tempo passava ed egli non compariva. Stanca di aspettare, la signora pregò il canonico di porsi a mensa. Questa finì, ma Saredo non era venuto.
Il giorno appresso il canonico seppe che Saredo era rimasto fino  all'una di notte in stretto colloquio con De Pretis, studiando la situazione  parlamentare, decidendo lo scioglimento della Camera. Eravamo nel 1880.

Non solo colla sua opera e dottrina Saredo coadiuvò grandemente «l'uomo di Stradella », ma col suo tatto fine ed oculato, ne seppe  modificare tendenze, frenare impeti e moderare  lo spirito cinico e antireligioso. (1).

Nell'intero decennio, che De Pretis tenne, quasi arbitro, le reclini del potere in Italia, Saredo esercitò su di lui una forte influenza, la quale dava esca agli avversari di satireggiarlo come l'«alter ego», «l'eminenza grigia» e «il braccio forte» di De Pretis, e forniva occasione agli amici di ammirarlo e lodarlo per l'abilità e prudenza con cui volgeva «ambo le chiavi del cuor» del Ministro. (2)

E siffatta influenza non rimase certamente estranea ai tentativi depretini d'affrontare la «questione romana».

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NOTE
1) Come esempio della benefica influenza di Saredo sull'animo di De Pretis, valga il tratto seguente d'una lettera inviata nel 1929 dal senatore F. Crispolti alla Marchesa
    Teresa Marieni Saredo: «Una notizia di attualità, essendo ora governatore di Roma il principe di Piombino. Questo titolo di un'antica  reale sovranità, l'aveva perduto
    nel 1883, colla morte del principe Antonio, bisnonno del Governatore. Infatti il Trattato di Vienna, incorporando Piombino alla Toscana, aveva conservato il titolo a favore
    del solo principe Luigi, allora vivente, e del suo
primogenito Antonio, già nato».
    «La casa Boncompagni, dolente di non possedere più una qualifica di tanto onore, si rivolse al Saredo e questi in un batter  d'occhio convinse De Pretis della convenienza
    di soddisfarla, e il motu proprio regio non si fece aspettare..  Ciò benché Rodolfo, nonno del Governatore, primo investito del titolo rinnovato, appartenesse alla società
    nerissima e  quindi si tenesse lontano dalla Corte
».
2) Così il senatore March. Filippo Crispolti.

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LA QUESTIONE ROMANA

La ferita che, colla breccia di Porta Pia, aveva acuito e approfondito il dissidio tra la Sede Apostolica e la Nazione italiana, sanguinava ancora viva e straziante al tempo dei diversi Ministeri di Agostino De Pretis.
La legge delle Guarentigie, votata dal Parlamento italiano nel Maggio 1871, allo scopo di dare al Papa un compenso per il potere temporale perduto e di assicurargli — come diceva l'art. IX della medesima — «la piena libertà nell'esercizio del suo ministero spirituale», non aveva sortiti i suoi intenti.

Non solo il Pontefice non l'aveva mai voluta riconoscere, ma aveva elevato ed elevava ogni anno nuove proteste contro di essa, non giudicandola quale mezzo atto e sicuro a mantenergli la  libertà e indipendenza : sul valore ed effetti della legge esisteva inoltre fra i giuristi, sia italiani che stranieri, sia cattolici, che  acattolici, il massimo disaccordo, e a dimostrare che tale legge non bastava a provvedere al mantenimento del rispetto al Papa ed all'inviolabilità dei suoi sacri diritti in Roma, s'incaricarono  la Massoneria e la piazza, inscenando frequenti manifestazioni di odio  al Sommo Pontefice, tentando perfino nel 1881 di impadronirsi del cadavere di Pio IX per gettarlo nel Tevere. (1)
Nello stesso anno e nei mesi successivi l'oltracotanza delle sette e l'audacia dei prezzolati o istigati aveva assunto una tonalità sì minacciosa, che il Papa Leone XIII non esitò a far chiedere all' Imperatore Francesco Giuseppe se gli avrebbe offerto ospitalità a Trento o a Salzbourg, nel caso che, per necessità, avesse dovuto abbandonare Roma. (2)
E nel 1885, non essendo di molto mutate le condizioni in cui il Papato trovavasi dal 1870, Leone XIII ribadiva i suoi lamenti e proteste «Mette il colmo alla nostra amarezza la condizione, fatta qui in Roma, al Vicario dà Gesù Cristo, la quale quanto più si protrae, tanto più diviene difficile e dura».
«Nelle presenti condizioni Noi non siamo in poter nostro, ma di  altri...». (3)
E il disagio causato dal perdurare della «questione romana» non si riscontrava in Vaticano soltanto !
E fu forse per questo disagio e per secondare le aure conciliatrici, che nel 1885 spiravano più apertamente, che Saredo e De Pretis volsero di proposito la mente alla possibilità di sciogliere il nodo della «questione romana».

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NOTE

1) La salma di Pio IX, deposta provvisoriamente, alla di lui morte, in Vaticano, dovevasi poi trasferire per volontà del defunto nella basilica di San Lorenzo al Verano.
    Il trasporto avvenne, d'intesa colle autorità civili di Roma, il 13 Luglio 1881. Ma durante il percorso, una schiera di inumani, accecati di rabbia antireligiosa, assalirono con
    pietre e violenze il  corteo, scagliando sassi anche contro il carro funebre e minacciando, se vi fossero riusciti, di cacciare la salma nelle acque del Tevere.
    Questo fatto, degno dei barbari, destò indignazione in ogni parte del mondo e Leone XIII lo stigmatizzò  nell' Allocuzione tenuta al Sacro Collegio il 4 Agosto dello stesso
    anno.

2) Vedi la lettera del Barone Hubner al Conte Kalnoky pubblicata dal senatore Francesco Salata a p. 150 del suo volume: Per la storia diplomatica della questione
    romana.

3) V
edi: Discorso di Leone XIII al Sacro Collegio tenuto il 2 Marzo 1885.
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TENTATIVI D'ACCORDO

A De Pretis, benché di parte sinistra e poco ligio alla Chiesa, non dovette spiacere la speranza di passare alla storia coll'aureola di definitore del conflitto tra Nazione e Papato.

La lunga esperienza di governo e il trovarsi a fianco Saredo, uomo di destra, gli infondeva ardire, lasciandogli supporre che i tentativi di conciliazione colla Santa Sede avrebbero trovato largo consenso fra i varii settori parlamentari.

Trattatosi, pertanto, seriamente fra De Pretis e Saredo della, possibilità d'un accordo col Vaticano, il secondo benevolo verso il Cristianesimo e il Papato, (1) incaricò un giovane suo concittadino, il March. Prof. Alessandro Corsi, di preparare uno studio sulle condizioni della Santa Sede nei rapporti del diritto internazionale e del diritto pubblico italiano.
Simile studio sarebbe stato poi estesissimamente diffuso in Italia, dovendo servire di spunto a discussioni, proposte ed approcci.
Il Corsi compose ben presto il suo lavoro, che apparve, nei primi mesi del 1886, ne «La Legge», diretta da Saredo e nella quale il Corsi collaborava. (2)

Questi divise la sua trattazione in tre parti, dimostrando nella prima che la Santa Sede, anche senza il potere temporale, non poteva paragonarsi e confondersi con una confessione religiosa  qualsiasi, essendo un'organizzazione sui generis, dotata dei costitutivi di persona giuridica internazionale e come tale riconosciuta da popoli e governi. Nella seconda parte, sostenne che la stessa legge delle Guarentigie riconosceva al Papato la personalità giuridica internazionale, provandolo:
 1°, colla facoltà  che avevano i governi stranieri di richiamare l' Italia allo adempimento dei suoi impegni;
 2°, col diritto della Santa Sede alla Legazione attiva e passiva;
 3°, col potere della medesima Santa Sede di fare concordati e trattati coll'estero, anche in materia  non prettamente spirituale.
Nella terza parte, considerando la legge delle Guarentigie relativamente all'atto della capitolazione di Roma, firmato a Villa Albani il 20 Settembre 1870, ed al diritto pubblico italiano, concludeva che il Papa risultava, tanto da detta legge che dal diritto, non solo un sovrano onorifico,  come voleva il Bonghi, ma un vero e proprio sovrano con suo territorio. (3)

L'opera del Corsi, che venne pubblicata pure in fascicoli, ebbe un'eco assai vasta nella stampa e fra gli studiosi di scienze giuridiche.
Il piano stabilito da De Pretis e Saredo comprendeva, oltre gli  studi e discussioni sulla stampa, varii altri mezzi, non ultimo quello di iniziare, da parte del Governo, una politica di aperto favore verso i Missionari cattolici all'estero.

Proteggendo e sostenendo le Missioni, il Governo (nella mente dei due uomini politici) avrebbe fatto intendere all'opinione  pubblica che lo Stato non odiava nè trascurava la Chiesa, ma che era benevolmente disposto a riguardo di essa, e da canto suo la Santa Sede non avrebbe potuto restare sorda e impassibile  a ciò, che lo Stato faceva per gli Apostoli del Vangelo in terre lontane.
L'aiutare le Missioni e il largheggiare con esse si presentava quindi  come il sentiero più facile, su cui la Santa Sede e l' Italia avrebbero dovuto incontrarsi e incominciare ad intendersi per  arrivare alla fine del lungo dissidio.

Agli intenti e preparativi della buona battaglia, non corrispose allora il frutto sperato, perchè la morte strappò, poco appresso, al Governo Agostino De Pretis. (4)

Ma se l'avvenimento, sognato dal Ministro e dal suo collaboratore,  rimase per essi e per moltissimi altri uomini politici a loro succeduti una  semplice brama e speranza, ora invece, per la concorde e tenace volontà  di Pio XI e di Benito Mussolini, è un fatto compiuto, apportatore di  pacificazione, gloria e grandezza  alla Chiesa e alla Patria. E nella storia dei  Patti del Laterano, il nome di Saredo non sfigurerà certamente tra quelli  dei vati e precursori della  Conciliazione.

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NOTE

1) Ai molti passi già riportati nel capitolo «Benemerenze di Saredo verso le Religione» dimostranti la deferenza e rispetto di Saredo verso la Chiesa Cattolica, aggiungo i
    seguenti concernenti più specialmente la questione romana.
    «Nella costituzione della vita politica italiana, bisogna tener l'occhio a tre grandi fatti: la religione cattolica ed il Papato; la condizione geografica; le tradizioni storiche delle
    varie Provincie».
                                                         
 (Dai «Principi di diritto costituzionale» vol. IV p. 216).
   
Discorrendo poi più particolarmente del problema del Papato scrive: «vi confesso, o Signori, che questo problema non mi sgomenta. Lo spirito giacobino che regna tuttora
    in Italia, ci ha allontanati fin qui dalla retta soluzione: il giorno in cui ci saremo educati a sensi più sani di giustizia e di libertà, allora anche la questione del Papato avrà
    ottenuto la sua soluzione».
    «Due funeste opinioni guastano, a mio parere, la politica nazionale su questo punto: — l'una che gli italiani hanno diritto di reclamare e di aver Roma — l'altra che il
    Governo ha il diritto di adoperare la forza contro ciò che si chiama esorbitanze clericali —».
    «Non è vero, in nessun modo, che gli italiani abbiano diritto di avere Roma. Forse che Roma è una proprietà fondiaria stata loro tolta? No, per fermo.
    Roma è un territorio abitato da esseri liberi e intelligenti; da uomini i quali soli hanno diritto di decidere il loro destino...».
    «Più grave assai è il secondo errore. Che dico errore? vorrei dirlo delitto : — Singolar  cosa! si urla ad ogni piè sospinto che si vuole libertà di coscienza, libertà di culto: e
    intanto si arrestano Vescovi e preti, si fanno loro processi inauditi per aver stampato  una circolare, pubblicato un' Enciclica, parlato con rispetto del Pontefice...».
    «Che dice il Papa? Che dicono di lui i difensori del potere temporale? Essi ripetono che senza potere temporale il Capo della Chiesa cattolica sarebbe legato nell'esercizio
    delle sue attribuzioni pontificali; e che cessando d'essere sovrano-territoriale dovrebbe ubbidire nelle cose religiose come nelle cose civili...». «A queste giuste, nobili e
    sante preoccupazioni che rispondono i nostri pubbìicisti, i nostri uomini di Stato, il nostro Parlamento?».
    «Rispondono coll'imprigionare e processare Cardinali, Vescovi, preti rei non d'altro che d'aver adempiuto i doveri del loro posto: rispondono con minacciare leggi e pene
    più  severe contro tutti gli Ordini del Clero...»
                                                                (Dai «Principi di diritto costituzionale» vol. IV p. 218 ecc.).
   
E conclude che non
è questo il miglior modo di dimostrare al Papa che gli sarà garantita pace e tranquillità qualora ceda il potere temporale (vedi idem).
2) Il March. A. Corsi lesse questo suo lavoro, come prolusione al corso di diritto internazionale, da lui svolto all' Università di Macerata nell'anno 1885-86.
3) Questa terza ed ultima parte assume oggi una notevolissima importanza, perchè da essa appare che Saredo e Corsi furono precursori del Trattato del Laterano del 1929.
    Essi infatti sostenevano fin d'allora, contro il Brusa, il Bonghi e mille altri che il Papa in Vaticano  era vero sovrano in territorio proprio. Vero sovrano; non di nome
    soltanto o ad honorem. Vero sovrano in territorio proprio e non semplice usufruttuario, perchè il Vaticano, in omaggio alla Convenzione dei generali Cadorna e Kanzler,
    non era mai stato  occupato dalle truppe italiane, ed il Papa era vero Sovrano nonostante l'esiguità del territorio rimastogli,  nel quale poteva tuttavia fare leggi, ricevere e
    spedire ambasciatori, provvedere all'amministrazione interna ed avere corpi armati. (Da un mio articolo sul giornale «Il Letimbro» di Savona del 1 Marzo 1929 ; articolo
    intitolato «Due Savonesi e la questione romana».
4) Morì, presidente dei Ministri a Stradella il 29 Luglio 1887.

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Inizio Pagina

Capitolo      IX

CONSIGLIERE DI STATO E SENATORE

 

DA CRITICO A PRESIDENTE

 

Due punti delle numerose pubblicazioni dell'on. Saredo riflettono il suo pensiero circa l'utilità e il funzionamento del Consiglio di Stato.Dal primo di essi (1) traspare che, nei primordi del suo insegnamento alle Università, l'autore non nutriva soverchie simpatie per quell'alto Consesso, istituito nel 1831 da Re Carlo Alberto, per funzionare da organo collegiale permanente allo scopo di dare pareri e pronunziare sentenze in materia amministrativa.

Saredo, infatti, designava allora il Consiglio di Stato come una anomalia portante confusione negli uffici del potere legislativo e di quello giudiziario e dimezzante la responsabilità degli agenti della pubblica amministrazione.

Nel secondo punto (2) - siamo al 1895 - le critiche a quella importante istituzione scompaiono ed essa viene trattata coi riguardi dovuti ad uno dei magni organi della Nazione.
 

Il radicale mutamento di giudizio, si basava in modo particolare sull'esperienza che Saredo, quale membro del Consiglio medesimo, aveva fatta della importanza di questo e dei vantaggi che da esso provenivano sia ai cittadini, che alla pubblica cosa.
 

Come si disse, egli entrò in quell'onorifico e gravoso uffizio nel 1879, elettovi da Agostino De Pretis, e vi portò tale cultura giuridica, competenza amministrativa, sagace criterio e lena operosa da farlo presto eccellere sopra colleghi più anziani e farlo creare, in poco più d'un decennio, presidente di una delle quattro sezioni ed, in seguito, presidente generale del Consiglio stesso.

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NOTE
1) Vedi Saredo: «Principi di diritto costituzionale», vol. IV p. 124.

2) Vedi Saredo: «Codice delle Amministrazioni».

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UNA PERIPEZIA DI R. BONGHI

Per non incorrere in ripetizioni, ridurrò il mio dire, sull'opera di Saredo nel Consiglio di Stato, al periodo che egli ne tenne la presidenza.

Non voglio, però, tacere al cortese lettore un significativo episodio, successo nel 1893, dal quale emerge, oltreché l'influenza di Saredo nell'importante Consesso, anche la sua tempra di amico e la scrupolosa rettitudine di Ruggero Bonghi - identico in ciò a Saredo - verso il pubblico erario.
 

L'on. Antonio Boggiano Pico e la March. Teresa Marieni-Saredo mi ricordarono, più d'una volta, la sincera cordialità, che correva fra il nostro Saredo ed il patriota, filosofo, letterato, giornalista e uomo politico Ruggero Bonghi.

Costui si vedeva spesso assieme a Saredo per le vie di Roma, in caratteristico gruppo: l'uno e l'altro in tuba e frac nero, con fronte spaziosa e viso inquadrato da folta barba alla chantillón; Saredo alto, tarchiato; Bonghi basso, tondo; camminando affiancati, destavano qualche sorriso, perchè formavano l'articolo « il » ambulante.

La loro amicizia, grande anche prima, s'era accresciuta nel 1870 (anno in cui pure il Bonghi assunse una cattedra alla «Sapienza» di Roma) ed aveva rifulso nel 1893.
 

In questo anno, scrivendo sulla «Nuova antologia», il Bonghi aveva introdotte alcune frasi punto lusinghiere per una delle più eminenti personalità della Nazione.

Lo scritto aveva provocato meraviglie e scalpori; da molte parti d' Italia s'erano invocate punizioni ed emende nei riguardi dello Scrittore; e l'eco delle proteste, ripercossa pure nel Consiglio di Stato, vi aveva scatenato un tale divario d'umori da indurre il Bonghi ad astenersi dal frequentare il Consiglio, di cui era membro, e a determinare il Consiglio stesso a sottoporre il colpevole a un particolare processo per esaminare se fosse il caso di espellerlo da Palazzo Spada. (1)

Tra i giudici era compreso Saredo e il processo si svolse. La sentenza fu di assoluzione per Bonghi.

E il merito di essa - come appare dal seguente brano di lettera - spettò principalmente al Saredo.

 

Caro Saredo,

..................................

Vi ringrazio della parte presa nel processo fattomi al Consiglio di Stato.
Non aspettavo tanto dal retto giudizio vostro e dall' amicizia che avete per me. Ora mi pare che la sentenza mi rende doveroso di prendere parte alle riunioni del Consiglio, dalle quali mi era tenuto lontano in questo intervallo di tempo, per consiglio Vostro.
Però mi è molto doluto ch'io dovessi prendere lo stipendio a ufo, senza far nulla. Perciò vi prego di volermi mandare degli affari da studiare e mi permetto di aggiungere che più saranno difficili e complessi, più Ve ne sarò grato.

..........................................

Amate il Vostro

                                     Bonghi.

Roma, 19 Marzo 1893.


Saredo aveva salvato l'amico e questi riconoscente, rientrando in seno al Consiglio, pregava il suo salvatore a procurargli lavoro - e lavoro pesante ! - onde poter reintegrare lo Stato del denaro che da esso aveva percepito anche quando non gli aveva prestato servigio alcuno. (2)

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NOTE

1) Vi ha sede il Consiglio di Stato.
2) L'originale della lettera è posseduto dalla Marchesa Marieni.
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PRESIDENTE GENERALE

 

La IV Sezione del Consiglio di Stato è istituita con legge 31 marzo 1889. Il cambiamento si presenta notevole, perché oggetto della tutela giurisdizionale non è più esclusivamente il diritto soggettivo, ma viene ad affacciarsi la figura dell'interesse legittimo, figura atta ad assicurare una più piena (o quantomeno più estesa) tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.
La teoria delle "sfere separate", la rigida teorizzazione della separazione dei poteri cominciano così a lasciare il posto ad una tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, più piena soprattutto verso i poteri discrezionali da questa esercitati; il sindacato della IV Sezione del Consiglio di Stato ha infatti come oggetto l'esercizio del potere discrezionale e viene pertanto in rilievo per la prima volta un vizio degli atti amministrativi, l'eccesso di potere, visto, per altro, non più nella sua nozione originaria (come incompetenza assoluta), ma come «scorretto esercizio del potere discrezionale», affiancantesi ai già sindacabili vizi di violazione di legge e di incompetenza assoluta.  http://www.tesionline.it/news/cronologia.jsp?evid=4747

Alla nomina di Saredo a presidente di Consiglio di Stato, il marchese Crispolti commentava: «Per una Volta il ministero ha avuto la mano felice! E scegliendo l'uomo ch'era indicato dai suoi meriti e dall'aver presieduto la IV Sezione, ha risparmiato a quel corpo l'onta di scegliergli un capo dal di fuori, come consigliavano coloro che avevano fatto i nomi di…». (1)
Morto, sul principio del 1898 lo storico e senatore Marco Tabarrini, che teneva la Presidenza del Consiglio di Stato dal 1891, i prognostici circa il suo successore s'aggiravano sui nomi dei sen. Gaspare Finali, Giovanni Codronchi, Giuseppe Saredo e di pochi altri. Ma, al 23 Gennaio, un annunzio ufficiale, comunicava, tra il generale consenso, che a presiedere la massima Istituzione amministrativa italiana era stato assunto il Saredo, il quale, al 2 febbraio, s'insediava a Piazza Capo di ferro (2) per disimpegnare l'ufficio, in cui l'avevano preceduto D' Ambrois e Carlo Cadorna.

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NOTE

1) Vedi il giornale a «Il Cittadino di Genova», in uno degli ultimi giorni del Gennaio 1898.

2) Su questa piazza sorge il Palazzo del Consiglio di Stato.
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UOMO FATTIVO E DINAMICO

 

Uomo fattivo e dinamico, Saredo, rivestito della nuova dignità, non si beò sonnecchiante sugli allori ottenuti, ma si accinse alla novella fatica coll'ardire e l'ardore d'un giovane, imprimendo ai Consiglio di Stato una vita più rigogliosa e apprezzata e sfatando la leggenda che Palazzo Spada fosse un rifugio per vecchi o una prebenda per giubilati.
 

Se le elaborate relazioni, pareri e sentenze stese da Saredo nei primi anni di suo consiglierato e conservate negli Archivi di quella suprema Corte amministrativa, rimarranno documenti preziosi del di lui valore e rapacità; le relazioni, pareri e decisioni, non meno dotte e ponderate, che tracciò da presidente generale, resteranno documenti imperituri della sua straordinaria attività. E perchè? Perchè a differenza di altri presidenti, scriveva egli stesso relazioni e pareri, e lavorava come uno scrupoloso impiegato.


Lavorando egli, voleva però che non stessero inerti nemmeno gli altri, fossero consiglieri o semplici impiegati.

A proposito di che, il Marchese Crispolti pubblicò: «Egli non vantava mai il suo ingegno, ma vantava il suo amore per il lavoro e la sua improba costanza in esso... Mentre era assai equo verso le varie attitudini intellettuali e opinioni della gente, era implacabile verso gli uomini molli. In qualunque circostanza egli avesse dovuto o potuto cercarsi collaboratori per uffici alti o minori, respingeva inesorabilmente quelli che avevano poca volontà di lavorare...». (1)

Nonostante una sì grande esigenza che tutti compissero il dovere imposto dalle cariche o dagli impieghi, egli era ben viso da tutti, colleghi e dipendenti, perchè non oziava, ma dava magnifico esempio di diligenza e operosità.

Espressive, al riguardo, sono le parole d'un vecchio barbiere di Roma, che prima di darsi all'arte di Figaro, aveva fatto l'usciere al Consiglio di Stato, sotto Saredo. «Saredo - ripeteva il barbiere -  ci faceva lavorare, ma gli volevamo bene ed eravamo contenti, perchè egli lavorava per il primo e doppiamente di noi».

Egli accrebbe davvero - come mi notarono gli on. Boselli e Schanzer - il prestigio del Consiglio di Stato sia ostacolando l'ammissione ad esso di membri inetti e di poco rendimento (2), sia introducendovi un ritmo di più rigorosa giustizia (3), sia rendendovi meno spaventosa l'idea religiosa e sia sfrondando da inquinamenti settari l'ambiente.

Ebbe assai eco, in fatto di tale giustizia e inquinamenti settari, l'affare di certi contadini bresciani, consiglieri comunali di **. Essi militavano nelle file cattoliche e il segretario comunale odiava il profumo d'incenso. Tra l'uno e gli altri non tardarono ad accendersi contese, per le quali occorse adire il Consiglio di Stato. Si era verso il 1901.

Il segretario comunale si pose sotto il patrocinio dell'anti­clericalissimo Zanardelli, allora presidente dei Ministri; i consiglieri cattolici s'affidarono a un bravo avvocato.

La conclusione fu: torto al segretario; ragione ai consiglieri. Zanardelli, che s'aspettava ben altro, si meravigliò con  
 
Borromini Galleria di P.Spada  Saredo in una melanconica lettera, esprimendo l'augurio che non si emettessero giudizii consimili in avvenire. Ma Saredo, tetragono ad ogni pressione, specialmente se ingiusta, non si scompose o umiliò. Ciò che gli premeva era che il parere del Consiglio di Stato rispondesse a giustizia; e vi rispondeva. Che il segretario fosse anticlericale o meno non doveva interessare il Consiglio di Stato. Se il segretario aveva torto, ne l'anticlericalismo, nè Zanardelli poteva fargli dare ragione.
 

Ed allo stesso modo che, per seguire i dettami della giustizia, non curò le pressioni di Zanardelli, così non piegò a lusinghe e ingiuste istanze di altri.
Si studiò, invece, di vagliare sempre a fondo le cause e di raccogliere la maggiore abbondanza di prove, non ricusando - sempre in nome della giustizia - di ritornare sui propri pensieri e giudizi e - come tosto vedremo - di superare prevenzioni e antipatie.

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NOTE
1) Da un articolo del March. Filippo Crispolti, pubblicato nel «Cittadino di Genova», nei primi giorni del Gennaio 1903.

2) Il marchese Crispolti, alludendo a ciò, scriveva: «...figuratevi come dovesse contrastare per i posti di consigliere di Stato, considerati per molto tempo come un canonicato
    da conferirsi a personaggi inerti e decorativi !
». Dal «Cittadino di Genova», gennaio 1903.

3) Saredo suggerì, nel suo volumetto sui doveri dei Prefetti, riforme che oggi vennero attuate: e da Presidente del Consiglio di Stato, più d'una volta, pretese che dai prefetti
    si osservassero quei doveri, che egli aveva sì bene tracciati.

    A Roma un ex prefetto mi raccontò che un suo collega, per scampare dalla inflessibilità di Saredo, dovette ricorrere alla Regina Margherita ed a più deputati.
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L'AMICIZIA DI SCHANZER
 

Carlo Schanzer, triestino (nato nel 1865) celebre avvocato, professore di diritto costituzionale all' Università di Roma, senatore ed ex Ministro del Regno, venne nominato a 28 anni referendario al Consiglio di Stato ed assunto alla IV Sezione.

Agli esordi di questo suo ufficio non godette la più espansiva benevolenza di Giuseppe Saredo.

Essendo questi avversario implacato di Giovanni Giolitti, sentiva quasi spontaneamente una sfavorevole disposizione verso lo Schanzer, sapendolo amico di Giolitti.

Col fatto sembrava che Saredo ripetesse: «Chi è amico del mio nemico, non può essermi amico».

Lo Schanzer, però, non era divenuto referendario perchè amico di Giolitti, ma perchè era riuscito primo nel Concorso, indetto per il conferimento di quel posto nel novembre 1892. E il Concorso, in quell'anno, non si presentò facile come il cogliere rose in aiuole, perchè lo presiedeva quel Silvio Spaventa, che non infondeva certamente coraggio.

 

Saredo pertanto non indugiò molto ad ascoltare la voce della giustizia ed a seguirla.

Il neo referendario pieno di attività e intelligenza eseguiva le sue mansioni con diligente e straordinaria perizia: ed un giorno che Saredo, allora presidente dell'alto Consesso, lesse ed esaminò una relazione preparata da Schanzer esclamò: «Queste sono relazioni che potrebbero essere firmate dai più vecchi ed abili consiglieri di Stato. Nominerò presto Consigliere lo Schanzer». (1)

L'antipatia s'era mutata in stima ed ammirazione per convertirsi, grado grado, in cordiale amicizia.

Fedele alla sua parola, Saredo propose la creazione dello Schanzer a Consigliere di Stato e nel luglio del 1898 poteva scrivergli :

Roma, 4 Luglio 1898.

Egregio e caro collega,

L' ufficio di Presidenza del Consiglio di Stato nel proporre a più riprese al Governo del Re la di lei nomina a Consigliere, ha voluto testimoniare la sua piena soddisfazione per il servizio che da molti anni ella presta a questo Consiglio.

Il reale decreto che ha accolto la proposta è stato perciò considerato come un atto di giustizia, ed io me ne rallegro con lei e ne vò orgoglioso per questo Consiglio.

Mi creda sempre suo

G. Saredo.

Contribuì a rinsaldare la loro amicizia un atto di squisita lealtà di Saredo.

Me lo palesò lo stesso on. Schanzer il giorno, che recatomi alla sua villa di Roma (2), per pregarlo di alcune notizie sull'opera di quegli al Consiglio di Stato, non solo mi diede la massima parte di quelle da me pubblicate finora in questo capitolo, ma con cortese signorilità me ne fornì e confermò molte altre sul di lui valore scientifico e intelligente attività qual professore, giurista e senatore.

E in che consistette quell'atto leale? In ciò. Quando l'onorevole Schanzer si fidanzò colla signorina Corinna Centurini, i parenti di essa domandarono confidenzialmente a Saredo il suo giudizio sul fidanzato. Saredo lo pronunziò lusinghiero sotto tutti gli aspetti. Il che piacque tanto allo Schanzer, che lo indusse a scegliere Saredo per testimonio nel dì delle nozze. (3)

Quasi a ratificare i sensi di sincera cordialità trascorsi fra loro, l'ex Ministro, congedandomi dopo il non breve colloquio, stringendomi la mano mi disse: «La ringrazio, reverendo, perchè oggi mi diede occasione di ricordare uno dei miei amici più cari».

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NOTE
1) Attinsi queste notizie da S. E. Boseili e dal Grand' Uff. Lorenzo Ratto, cui le aveva confidate lo stesso Saredo.

2) Nel Gennaio del 1929.

3) Riporto la lettera con cui Saredo risponde ai novelli sposi Schanzer-Centurini, che dal viaggio di nozze gli avevano rinnovati i ringraziamenti per essere stato loro
    testimonio.

       Mio caro Schanzer,

        Ho tardato a rispondere, perchè quando ricevetti la sua lettera, aveva già lasciato Zermatt per intraprendere le peregrinazioni che mi annunziava; e posto che ella s'era
        prefisso di trovarsi a Lucca per la fine di agosto, pensai di attendere a scriverle quando fossi certo che la mia le sarebbe giunta con sicurezza.

       Quanto io sia stato suscettibile al pensiero suo non ho bisogno di dirglielo: ella lo può immaginare pensando quanta sia la stima, e quanta l'amicizia che professo per lei.

       Grazie dunque della sua lettera carissima, e voglia esprimere la mia gratitudine alla sua graziosa intelligente signora, per essersi voluta associare ai saluti che ella mi
       inviava.

       Voglia, caro Schanzer, ricordarmi al comm. Centurini e mi creda sempre

       Suo aff.mo G. Saredo

       Roma, 30 Agosto 1899.

   Tanto questa lettera, che quella riportata nel testo a p. 186 me le favorì gentilmente l'on. Schanzer.

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SAREDO AL SENATO
 

Buoni rapporti, quasi identici a quelli di De Pretis con Saredo, esistettero fra quest'ultimo ed il palermitano Marchese Antonio Starabba di Rudinì, che fu più volte Ministro e Capo del Ministero.

Da costui pure ricevette il nostro protagonista delicate incombenze e mandati e veniva spesso sollecitato per consultazioni, pareri, preparazioni di progetti di legge ecc.; (1) e quanta fosse la loro intimità si manifesta dal tono del brano che qui riferisco, stralciandolo da un biglietto che il Di Rudinì, presidente del Gabinetto, inviò a Saredo alla vigilia d'un voto di fiducia del Parlamento.

Il marchese Antonio Starrabba di Rudinì fu uomo politico di primissimo piano nei primi decenni dopo l’Unità Ricoprì la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia ma fu anche imprenditore agricolo avveduto e lungimirante che investì molte risorse finanziarie nell’ammodernamento dei propri vigneti di contrada Bimmisca e Sajazza e nella costruzione del “moderno” stabilimento enologico a Marzamemi, in contrada Lettiera.
Contrastò la fillossera abbattutasi in Sicilia intorno al 1885, sostenendo, a seguito delle scoperte agronomiche, la costituzione dei vivai per la distribuzione delle talee di vitigni americani e la razionalizzazione e modernizzazione nei sistemi di produzione vinicola.

A Pachino, a cento anni dalla scomparsa del marchese, non rimane quasi nulla degli immobili della famiglia Di Rudinì: l’antico palazzo Starrabba, poi sede del Palazzo Comunale, è stato abbattuto oltre venti anni fa così come il palazzo Rudinì di Piazza Vittorio Emanuele dove il marchese abitava durante i suoi lunghi soggiorni a Pachino.

Rimane solo lo stabilimento enologico di contrada Lettiera a Marzamemi, acquistato dal Comune che ne ha avviato l’opera di recupero, mediante un finanziamento europeo, per destinarvi un Eco-museo.
http://www.siracusanews.it/node/4695

Caro amico,

Se non mi ammazzeranno sabato, ella potrebbe Venire a colazione da me domenica, alla mezza. Dico così per celia, perchè, anche quando fossi morto, mi resterebbe tanta vita che basti per passare un'ora d'affettuoso colloquio con lei.

..................................................

Di Rudinì

 

E l'uomo politico palermitano, cui non latevano le doti e la tempra del savonese, non tentennò nel 1891 - la prima volta che impugnò le redini del Governo - ad includere il nome di Saredo nella lista dei candidati al Senato ed a fargli conferire, in quello stesso anno, dal Re Umberto I il laticlavio.

Da due altre lettere possedute dalla March. Marieni, comprovanti pur esse lo spirito di intesa e collaborazione dei due personaggi, scaturisce già limpidamente la misura dell' attività e influenza di Saredo nel primo ramo del Parlamento.

In una del 20 agosto 1891, Rudinì raccomandava all'amico, facente parte della Commissione per il Palazzo di Giustizia, che s'ingegnasse a mandare le cose alle Calende greche, per non impegnare il Ministero in una spesa di molti milioni.

Nell'altra, in data 18 febbraio 1898, lo pregava di sollecitare la deliberazione dell'ufficio centrale del Senato sul disegno di legge per lo scioglimento dei consigli comunali.

Ma se Saredo largheggiò di dottrine e cooperò generosamente col Marchese Starabba, non gli risparmiò critiche e appunti, proprio come aveva agito con Agostino De Pretis. e - per usare le parole del senatore Crispolti - «quantunque amico di Di Rudinì, Saredo fu uno dei principali censori di quello scetticismo ostentato con cui il Marchese Di Rudinì, a un certo punto del suo ministero lasciò che tutto andasse a rotoli e s'insediassero nell'amministrazione abusi più sconci di quelli che si fossero veduti nei peggiori periodi».

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NOTE

1) Dalla citazione di queste due lettere, che scelgo tra molte, il lettore, si renderà conto del come Di Rudinì si valeva dell'opera di Saredo.

    Il 25 Marzo 1892 il Presidente dei Ministri scriveva al grande Savonese pregandolo di accelerare gli studi di progetti affidatigli, volendo dare stabile assetto alle finanze 
    statali. E il 24 Novembre 1896 gli raccomandava lo studio del disegno d legge per il decentramento.
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RINUNZIA ALLA CARICA DI MINISTRO

 

In un precedente capitolo, accennai di sfuggita all'offerta, fatta da Rudinì a Saredo, del Ministero di Grazia e Giustizia.

Consimile offerta gliela ripetè Francesco Crispi due volte, ma Saredo ricusò sempre di fare il Ministro. E per quale ragione? Per una diversità di vedute, tra lui e gli offerenti, circa la politica ecclesiastica, come lo confesserà egli stesso scrivendo ad Agostino Cortese. (1)

Ma se rifuggì - tre volte almeno - dalla carica di Ministro, non economizzò tuttavia, specie con De Pretis e Di Rudinì, di consigli e di indicazioni di individui per la formazione dei Ministeri; e tanto meno si astenne, da senatore, di coadiuvare Ministri e personalità politiche, nei punti in cui collimavano le sue colle loro aspirazioni. 

Non s'intese molto con Pelloux e Zanardelli. Quest'ultimo però aveva grande stima di lui, come rilevasi dalle parole seguenti, contenute in una lettera di Zanardelli, presidente allora del Gabinetto.

Caro ed illustre amico,

Nessun suffragio poteva essermi caro e prezioso quanto il suo, in una questione in cui ella è stato a tutti di guida. Di tale suffragio è quindi altamente orgoglioso il tutto suo

Zanardelli

14 Dicembre 1901.

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NOTE
( 1 ) Lo scritto cui alludo lo pubblicherò nel capitolo Saredo e la sua Città.

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CONTEGNO VERSO GIOLITTI


 

Il nome di Giolitti esercitò costantemente un'azione ripulsiva sull'animo di Saredo.

ITALIANI ALLO SPECCHIO
L' abominevole Tanlongo e il crac della Banca Romana

«Non è stato donnaiolo, non ha mai giocato, è agli antipodi di ogni eleganza, la sua frugalità rassomiglia da vicino all' avarizia...». Così veniva descritto sul Corriere della Sera del 20-21 gennaio 1893 il settantatreenne Bernardo Tanlongo, banchiere abominevole ma romanissimo. Nella sua vecchia palandrana tra i saloni della sua banca, dove dalle sedie di cuoio usciva la stoppa dell' imbottitura, egli era per tutti l' affannato Sor Bernà. Cresciuto nella Roma del Papa Re e reso ancor più potente dagli imbrogli edili di Roma capitale, aveva fronte vasta e la barba bianca, venerabile come quella dei vecchi di Omero. Ma la sua maniera di estrarre dai cassetti pratiche e lettere di cui parlare davanti a chi gli chiedeva i soldi era solerte come quella dei preti della Curia. Gli stessi che serviva ragazzino prima ancora che parlassero e per i quali, ventinovenne, era evoluto da garzone a spia dei francesi nella Roma di Garibaldi. Non era affatto un venale, ma piuttosto aveva inteso che i sederi delle puttane che scrutava in gioventù pei cardinali, le lettere, le smorfie d' odio che carpiva in un viso erano la segreta materia del denaro. Dunque era leale ai gesuiti ma anche alle Logge, giacché le diversità di idee o di partito gli parevano del tutto insignificanti. Seduto con la sciarpa nera sulle gambe, davanti alla dama o all' appaltatore che contorto dai complimenti falsi chiedeva denaro, lui vedeva cosa erano i soldi: il comando richiesto dalla vanità universale. Potere che i vizi davano più delle virtù; vanità che circola sempre senza requie. La vanità era il fiume torbido che sfociava nel mare delle scadenze, che lui paterno, dunque avaro, doveva regolare: «Quando mi farò il vestito nuovo io, allora ripareremo i salotti». Anche perciò aggiustava volentieri i bilanci. Cos' erano l' avarizia dei numeri e le somme, rispetto alla vanità umana? Col cassiere della Banca Romana e il figlio, firmava in cantina banconote doppie. Ma non bastavano a colmare il buco di cassa iperbolico, 28 milioni di lire, che il suo istituto, ancora tra le banche d' emissione del Regno, aveva accumulato. Era però in quei giorni sereno: la vecchia indagine sui conti della banca era finita nel niente; e Giolitti, per i favori che il Sor Bernà aveva fatto a re Umberto e alle sue amanti, l' aveva quasi nominato senatore. Si sentiva protetto dal fatto che quasi non c' era un nome in vista che non fosse coinvolto. Tanto che neppure si curava che prima di Natale in Parlamento s' erano date prove pubbliche dei falsi in bilancio della Banca Romana. Così, quando alle sette del 19 gennaio 1893 l' intendente di pubblica sicurezza arrivò per arrestarlo, ne fu stralunato. Ma chiamò una carrozza; come sempre contrattò un po' il prezzo col cocchiere; ieratico fece dirigere verso Regina Coeli. Pareva che fosse lui ad accompagnare in carcere i gendarmi. Anche perché la plebe della Suburra plaudì al suo passaggio, ricevendone in cambio sorrisi bonari e dei sigari. Il Corriere della Sera ne diede notizia con settentrionale sobrietà, come anche scrisse del banchiere Cuciniello arrestato, mentre vestito da prete con due milioni e mezzo, scappava da casa dell' amante. O del vecchio direttore del Banco di Sicilia assassinato a coltellate per mancanza di rispetto alla mafia. Il tutto mentre, odiandosi l' un l' altro, Crispi e Giolitti si davano in Parlamento a turno la colpa di aver saputo e non detto. Parve palese a tutti gli onesti che Roma fosse la cova d' ogni marciume: delle speculazioni edili e degli scandali bancari. I plichi di lettere e ricevute, di cui si nutriva in ricatto reciproco la politica italiana, temiamo non solo allora, erano del resto il mare ideale in cui Tanlongo sapeva navigare. E il Corriere in una prima pagina memorabile lo ricordò ai lettori. Sotto l' occhiello «un colloquio con Tanlongo prima dell' arresto» riportò il chiaro avvertimento del Sor Bernà: «Se mi si vuole chiamare responsabile di colpe non mie, io sarò costretto a fare uno scandalo... (la faccia di Tanlongo in quel momento erasi accesa». Più che accesa in effetti era rossa. Giacché il nostro soffriva non solo di gotta per eccesso di abbacchi; ma anche di erisipela: malattia infettiva contagiosa per cui la pelle infiammata tende al color porpora. Ma l' Italia è nazione dove ricattato e ricattante si confondono, come mai altrove. Crispi infatti teneva in pugno Tanlongo dal giugno del 1890, ovvero da quando aveva la relazione della Commissione d' inchiesta sui suoi conti. E in fase istruttoria del processo, richiesto sui soldi dati a Giolitti e le carte da lui sequestrate, Tanlongo assecondò Crispi: «Lei non smentisce?». Lui rispose: «Veggo che la verità si fa strada da sé, non ho più ragione di negare: è vero». Ripagato e, scandalo nello scandalo, quindi assolto a fine luglio 1894. Eppure quell' ammissione era il più perfetto scherzo da prete fatto pure a Crispi. Nel plico che Giolitti aveva serbato dai cassetti del banchiere c' erano anche le lettere di Lina Crispi al maggiordomo amante e le tracce dei soldi pretesi da lei e suo marito. Il romanissimo banchiere Bernardo Tanlongo fu il sommo genio, plebeo e pretesco, del ricatto per azione fallace: «E se ben poi fallace la ritrova, pigliar non cessa una ed un' altra nuova». (Ariosto, Orlando Furioso, canto XXXII, XV ottava).

Alvi Geminello (8 febbraio 2004) - Corriere della Sera

L'uno e l'altro s'avversarono sempre, seguendo sistemi e tattiche politiche diametralmente opposte.
Per Saredo, il giolittismo significava in politica ciò che significa in religione il lassismo; e per il giolittismo, Saredo coi suoi principi rigidi, inculcanti che il patrimonio pubblico si deve amministrare cogli stessi criteri con cui i privati curano i loro interessi, Saredo, ripeto, era giudicato un sognatore e poeta.

Una delle battaglie campali ingaggiata nella Camera alta   dal senatore savonese contro Giolitti fu quella sulla proposta di nomina a membro del Senato del famoso Bernardo Tanlongo, direttore della Banca Romana.

Saredo, che era allora presidente della Commissione senatoriale esaminatrice della lista dei nuovi candidati, s'oppose sì energicamente alla convalidazione di Tanlongo da riportare piena vittoria.

Giolitti non dimenticò la stoccata e si asserisce tuttora che sospirasse il momento di umiliare l'avversario, cercando qualche lato debole della costui vita pubblica per attaccarlo, ma non lo scovò.

Le loro relazioni rimasero ordinariamente sì tese che, quando Giolitti (Capo del Governo) doveva per motivi di ufficio conferire con Saredo (presidente del Consiglio di Stato) non osava invitarlo al Ministero, come avrebbero fatto liberamente De Pretis, Di Rudinì e Saracco, ma per mezzo di lettere (1) o messi, lo pregava d'indicargli a che ora egli, Giolitti, avrebbe potuto essere ricevuto a Palazzo Spada.

Di altri rapporti tra loro si parlerà nel capitolo sull'inchiesta di Napoli.

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NOTE

1) Due di queste lettere potei esaminarle io stesso.
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AZIONE IN SENATO

 

In Senato Saredo - come mi affermò S. Ecc. Boselli - si distinse fra i più autorevoli per studio, diligenza e competenza, dimostrandovi «quello stesso spirito pratico, che portò nella giurisprudenza un'assenza assoluta di retorica; una grande conoscenza degli uomini singoli.» (1)

Dotato di finezza d'intuito, fortezza e combattività d'animo, a 70 anni affrontava le difficoltà e le questioni, come aveva fatto a 20 anni, a Torino.
Non lo turbò mai il successo, nè i contrasti e le lotte.
La sua influenza a Palazzo Madama s'estese vastissima sia negli Uffici, che nelle Commissioni, di cui fu spesso presidente, e nel preparare le sorti di votazioni.
Pronunziò elaborate ed applaudite relazioni su disegni di legge e assunse sovente la paternità e responsabilità di iniziative parlamentari. (2)
A comprova della grande autorità esercitata dall'on. Saredo in Senato, valga questa lettera, di S. E. L. Luzzatti, che qui riproduco col benigno consenso dei figli di questo celebre statista.

Illustre amico,

Perdonami l'insistenza, ma anche per preghiera di Rudmì, ti esorto quanto più so e posso a recarti oggi alle tre nella Commissione del Senato, che esamina il progetto delle Banche; è urgentissimo e se non si nomina il relatore non se n'esce più.

C'è la fortuna che nella Commissione ce il Lampertico, il relatore dell'altra volta, e v'è il fatto e la guarantigia che io introdussi nella legge tutte le modifiche invocate dal Senato, migliorando le convenzioni.

Mi affido a te.

Saluti affettuosissimi.      Luigi Luzzatti
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NOTE
1) Vedi art. del March. Crispolti nel «Cittadino» di Genova, gennaio 1898,.

2) Queste notizie che attinsi a varie fonti, mi vennero tutte riconfermate dall' on. Paolo Boselli.

3) Trascrivo qui volentieri anche questa lettera di S. Ecc. Luzzatti, perchè dimostra quanto l'eminente uomo di Stato stimasse Saredo.

        «Mio illustre amico,

        La tua approvazione così sollecita e decisiva è il nostro orgoglio.

        Tu sai a prova che cosa significhi, in Italia, lavorare per la pura scienza: aiutaci, dacci qualche tuo lavoro sempre pregevolissimo; aiutaci facendoci fare una cronaca
        tecnica, potente del lavoro costituzionale del Consiglio di Stato.

        Ama il tuo amico».

                               Luigi Luzzatti

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UNA SUA BATTAGLIA

 

Chi fosse preso da bramosia di sfogliare i resoconti parlamentari dal 1891 al 1902, s'imbatterebbe qua e là in importanti discussioni, cui il senatore Saredo partecipò col suo caratteristico ligure accento, ma più colla sua scienza e senso di praticità.
 

Certo, egli non ebbe la magica e travolgente parola d'un tribuno, nè l'arte oratoria d'un Cicerone, ma i suoi discorsi sostanziosi e forbiti attraevano l'attenzione dei colleghi e dell'aula. Ai discorsi dal seggio senatoriale egli preferiva ordinariamente le conversazioni e le dispute nelle Commissioni, ove si compieva un lavoro più persuasivo e fecondo.

 

Sua Ecc. Boselli mi delineò il suo grande concittadino, come uno dei più abili manovratori di corridoio e dei più studiosi membri di Commissioni.

Tuttavia, come dissi, Saredo non si astenne dal prendere parte attiva alle sedute di Palazzo Madama: (1) e siccome di una di esse - nella quale fece e sostenne proposte - ne parla egli stesso, (2) così anch'io la citerò come prova e ricordo della sua combattività fra i «patres conscripti».
 

La seduta cui alludo si tenne nel 1898 e Saredo vi propugnò la necessità di rinnovare il Censimento nazionale.

Questo per l'art. 1 della legge 20 Giugno 1871 doveva farsi ogni 10 anni; ma, eseguito quello del 1881, la legge era rimasta lettera morta, nonostante le reiterate promesse e speranze, che dal 1891 al 1898 erano state a quando a quando affacciate di por mano a uno nuovo corrispondente al secondo decennio.
 

Al Senato, Saredo presentò le ragioni dimostranti l'urgenza di non procrastinare più oltre ad indire il censimento, che il paese e la legge reclamavano da circa 7 anni; diede risalto agli inconvenienti che di giorno in giorno si verificavano per l'applicazione di norme e regolamenti, che ordinati, in base al vecchio censimento contrastavano col numero della popolazione reale ; e lamentò che si dovesse ognora ricorrere a misure provvisorie nei rapporti dei Comuni; nella classifica delle scuole, licei, istituti; nelle facoltà delle amministrazioni locali ecc.

«Noi abbiamo - esclamò a un tratto - ventisei disposizioni di legge, che si fondano per la loro applicazione sulle risultanze del Censimento ufficiale e che rimangono inapplicate o male applicate, perchè il Regno d' Italia con un bilancio che cammina verso i due miliardi non ha ancora trovato la modesta somma necessaria per la spesa del Censimento che dovrebbe essere decennale...».
Questa campagna, ch'egli aperse d'accordo col Bodio (3) riscosse molte approvazioni in Senato e in Italia, specie negli ambienti amministrativi.

Al termine del discorso il Ministro delle Finanze, on. Carcano ed il Ministro dell' Agricoltura e Commercio, on. Fortis diedero ampie assicurazioni all'oratore che avrebbero affrettato l'esecuzione del Censimento. Ma, dopo alcuni mesi, quei Ministri caddero e con essi si seppellì anche il progetto del Censimento, il quale risorse e s'effettuò solamente nel 1901.

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NOTE

1) Egli manifestò più volte la sua avversione al parlamentarismo parolaio. Non condannò le discussioni, anche accese e irrequiete dirette a chiarificare e sviscerare le
    questioni, ma disapprovò lo spirito di opposizione sistematica, che fin dai suoi tempi si praticava da qualche parlamentare e che poi culminò nei famosi e deplorevoli
    ostruzionismi dell'immediato dopo-guerra a Montecitorio.

2) Ne parla in una lettera a Luigi Bodio, consigliere di Stato e direttore della statistica generale del Regno.

    La lettera, pubblicata nella rivista  «La Legge», anno 1898, tratta del Censimento decennale e dei suoi effetti giuridici secondo la legislazione italiana.

3) Il Bodio, amicissimo di Saredo, nacque a Milano nel 1840. Fu l'organizzatore sapiente dei servizi della statistica in Italia. S'acquistò benemerenze per i suoi lavori sugli stati
    civili e sulle popolazioni.

    Di lui così scrisse Paul Leroy Beaulieu nella «Revue des deux mondes» (15 ottobre 1897): «Le statistien qui a le plus complètement et méthodiquement réunit les
    documents relatifs aux mouvements de la population dans les contrées civilisées est M. Bodio le très savant chef de la statistique italienne; il les tient a jours; c' est a ses 

    tableaux qu' il faut se reporter»
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PUBBLICISTA IMPENITENTE 

 

Il titoletto, posto a capo di questo paragrafo, è quanto mai appropriato, perchè il giovane savonese che, abbandonata la casa paterna, incominciò a scrivere su giornali a Torino, continuò a pubblicare articoli ed opere in tutte le sue altre residenze e non cessò che all'avvicinarsi del proprio tramonto.

Gli si offersero prime palestre in giornalismo: il «Fischietto», l'«Ausonia», il «Goffredo Mameli», il «Satana», le «Scintille», la «Gazzetta del popolo» ed altri.

Il suo stile d'allora era vivo, mordace, satirico.

Pubblicò nella «Rivista contemporanea», nella «Rivista illustrata» e in volumetti, novelle, studi storici, letterari, filosofici e giuridici.

Diresse la notissima rivista «La Legge» e l'altra «Il Conciliatore».

Appartenne alla redazione del «Diritto» e de «L' Italie». Sul primo, giornale quotidiano, organo di De Pretis, collaborò lungamente con Bargoni (1) e Marraini e nell'«Italie», ebbe molta riputazione, a causa della sua grande conoscenza della lingua francese. E in qual conto fosse tenuto, come giornalista, lo provano le testimonianze di tre eminenti uomini pubblici.

Francesco Ferrara, che fu due volte ministro, gli raccomandava nel 1872 di iniziare, nel «Diritto», una campagna a favore di impianti ferroviari in Sicilia.

Paolo Onorato Vigliani, nel 1875, mentre reggeva il Ministero di Grazia e Giustizia, lo pregava di continuare la campagna diretta ad appoggiare il progetto di legge per l'istituzione d'una suprema Corte di giustizia.

Quintino Sella, a sua volta, dopo avergli chiesto: «Avete ancora qualche influenza nell' Italie?» l'incaricava di far inserire anche in questo giornale i sunti delle sedute dell' Accademia dei Lincei. (2)

Saredo scrisse inoltre sul «Fanfulla della Domenica» (3), sulla «Nuova antologia», sulla «Minerva» e su diversi altri giornali o periodici, nei quali riesce però oggi difficilissimo scoprire i suoi scritti perchè abitualmente li pubblicava senza apporvi la firma.

I suoi scritti dell'età matura, ossia quelli da Consigliere di Stato e da Senatore, dimettendo assai di vivacità e di stile mordace, non perdettero nulla in vigoria, sodezza di argomenti e maestria di ragionamento.

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NOTE

1) Angelo Bargoni, di cui si fece il nome altre volte in questo volume, nacque a Cremona nel 1829. Nel 1860 fu segretario di De Pretis, poi ministro con lui. Dal 1861 in poi
    diresse il giornale il «Diritto». Nominato senatore nel 1876, fu fatto ancora una volta ministro. Morì nel 1901.
2) Gli originali delle lettere con cui Ferrara, Vigliani e Sella si rivolgono a Saredo, sono conservati dalla Marchesa Marieni.

3) Il March. F. Crispolti afferma in una lettera alla Marchesa Marieni d'aver fatta la conoscenza di Ferdinando Martini, in seguito ad un articolo di Saredo, comparso sul
    «Fanfulla», e nel quale si trattava della proibizione del vino alle donne presso i romani.
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UN'OPERA MONUMENTALE E UN OPUSCOLO "DISCUSSO"
 

Elencherò, in appendice al presente libro, la serie dei volumi e volumetti usciti dalla mente e vergati dalla mano di Giuseppe Saredo.
Enumerandoli e riflettendo che l'uomo, che li compilò, viveva in continua febbrile tensione per la scuola o per gli altri gravissimi uffici, si è assaliti dal sospetto di trovarci dinanzi a un qualche prodigio.

Ma se rimando all'appendice suddetta i lettori vogliosi di formarsi un'idea della produzione libraria del nostro scrittore, non posso esimermi qui dal segnalar loro particolarmente due opere di Saredo: una colossale che gli meritò calorosissime lodi e l'altra di piccolissima mole che fu passionatamente discussa.
 

La prima racchiude il commento alla legge comunale e provinciale; la seconda contiene lo studio sul voto obbligatorio.

Nel Discorso del 16 novembre 1887, affermò «Vi sono riforme che il paese aspetta impaziente e che non potrebbero essere più a lungo indugiate. Il mio Governo vi presenterà quindi leggi atte a ridurre l’amministrazione centrale a più robusta unità, ad agevolarne l’azione con una maggiore suddivisione di lavoro, a rendere inoltre questo lavoro più diligente e spedito, mediante una equa determinazione dei diritti e dei doveri dei pubblici funzionari».

Nel 1887, pronunziando il discorso della Corona, il Re Umberto I annunziava la riforma della legge comunale e provinciale del 1865 e, nel novembre dello stesso anno, Francesco Crispi succeduto nella presidenza del Consiglio dei Ministri a De Pretis, presentava il progetto della riforma stessa, contenente 77 articoli. La promulgazione della detta riforma avvenne il 30 dicembre del 1888.

Saredo, che durante i ministeri di De Pretis aveva esaminato a fondo la materia e che aveva steso il progetto di legge, appena questa si promulgò, diede alla luce il commento di essa.

E chi avrebbe potuto farlo con più scienza e competenza di lui?
L'opera in 9 volumi apparve nel 1889 a Torino, coi tipi dell' Unione tipografica editrice torinese e porta il titolo: La nuova legge sull'amministrazione comunale e provinciale, commentata con la dottrina, la legislazione comparata e la giurisprudenza, da G. Saredo.

Attorno ad essa, ch'era un commento, sbocciarono i fiori di altri commenti, tutti di plauso ed encomio. Chi la definì «un'opera monumentale» chi il «commento più completo e perfetto che potesse sperarsi» chi «una pubblicazione di cui raramente sorse un'eguale» chi «più che un commento, una successione di trattati in materia di Comune e Provincia ecc.».
 

Anche ai dì nostri, essa è l'opera più completa su quell'argomento e viene quotidianamente consultata e gli autori specializzati in materia di amministrazioni locali, come il Mattirolo e il Presutti e i modernissimi D' Alessio e La Torre frequentemente la citano nei loro volumi.

Se Saredo non avesse fatto o scritto altro che il lavoro sulla legge comunale e provinciale si sarebbe cinto di grandissima gloria.

 

L'altra pubblicazione - sul voto obbligatorio - comparve prima sulle pagine de «La Legge» e poi si stampò in piccolo fascicolo; e se diventò famosa non lo dovette tanto alla sua grossezza, quanto al clamore e strascico che destò.

L'autore, tracciando quelle righe, aveva mirato ad uno scopo plausibile, ma nella scelta dei mezzi per raggiungerlo non aveva, forse, calcolato nella giusta misura i sentimenti e la suscettibilità della parte cattolica della Nazione.


Egli - come la maggioranza dei liberali e conservatori d'allora: eravamo al 1901 - fortemente impressionato dal costante progredire dell'organizzazione socialista delle masse operaie e dal numero dei deputati eletti da esse, aveva suggerito il voto obbligatorio come potente rimedio ad arginare e contro­bilanciare la montante marea rossa.

Quand'egli scrisse il suo studio, l'astensione elettorale stazionava sul 42 per cento e gli astenzionisti erano - secondo lui - nella quasi totalità elementi d'ordine. Occorreva quindi spronarli, anzi, obbligarli a recarsi alle urne.

NON EXPEDIT
(1874-1913). Formula latina (non conviene) con cui la Santa sede il 10 settembre 1874 espresse parere negativo sulla partecipazione dei cattolici italiani alle elezioni e in generale alla vita politica dello stato. Il divieto, attenuato dall'enciclica di Pio X Il fermo proposito (1905), che permise la partecipazione alle elezioni in speciali circostanze riconosciute dai vescovi e fu attuata col patto Gentiloni (1913), fu abolito nel 1919.

E, per obbligarli a votare, proponeva un complesso di pene più o meno gravi contro i disertori delle elezioni. (1)

Il votare non sarebbe stato più un diritto, ma un grave dovere: ed a provarlo, Saredo diceva che come lo Stato obbliga i cittadini a servire da testimoni e giurati o li costringe a pagare le tasse, così ha diritto di imporre ad essi il dovere del voto.

I cattolici insorsero, vedendo nel volumetto e nelle proposte del Senatore e Presidente del Consiglio di Stato, un attentato al «non expedit» ed alla loro libertà di mostrarsi ossequienti al Pontefice. S'accesero ed arsero accanite polemiche, fra cui memorande quelle sostenute dal foglio cattolico «La Voce della Verità» di Roma.

Saredo ebbe il consenso e l'approvazione di non poche tra le più spiccate personalità del campo liberale e conservatore, ma il suo studio e le sue proposte, col cessare delle polemiche, passarono alle biblioteche per servire di documento sulle lotte che si pugnavano all'aurora del ventesimo secolo; ed il voto obbligatorio restò un'aspirazione ideale. (2)

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NOTE
1) Eccone alcune: esporre in pubbliche tabelle i nomi dei non votanti; togliere ad essi il diritto d'essere eletti; privarli di pubblici uffici, anche dalle Congregazioni di Carità e
    Camere di commercio; esclusione anche dei figli e discendenti degli astenzionisti dal diritto di godere borse di studio, e da quello di esenzione di tasse scolastiche, ecc.

2) Saredo ispirò e diresse la pubblicazione del «Digesto italiano», che è una voluminosa enciclopedia di materia giuridica, amministrativa e legale.

    Esso fu definito ; «una biblioteca, un compendioso e ordinato repertorio della legislazione e della giurisprudenza e della dottrina, così riguardo all'adempimento dei pubblici
    uffici, come nella gestione degli interessi privati
».

    Il «Digesto» edito dall' U. T. E. T. iniziò le sue pubblicazioni nel 1884 e Saredo ne presiedette il Consiglio d' Amministrazione fino al 1902, anno in cui egli morì.
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SUA FAMA ALL'ESTERO
 

Concludendo questo capitolo, ove trattai di Saredo Consigliere di Stato e Senatore, aggiungerò che, come per la sua cultura, doti personali e posizione sociale aveva contratto amicizie e relazioni con una moltitudine di personalità di Roma e d' Italia, così per la sua fama, sparsasi anche fuori dei confini del Regno, aveva allacciato ottimi rapporti pure con personaggi stranieri non esclusi alcuni capi di Governo.

Carnot, presidente della Repubblica francese gli aveva scritto chiedendogli giudizi sulla istituzione d'una scuola di scienza amministrativa, ch'egli, Carnot, voleva fondare in Francia. Anche l'esigua repubblica di S. Marino si mise in comunicazione col nostro uomo politico, sollecitandone suggerimenti e norme per la riforma di Statuti e di Leggi.
 

Insignito inoltre di molte decorazioni, poteva indossarle con nobile orgoglio, senza timore che chicchessia potesse rinfacciargli: «Non le avete meritate». E se dal Re e dal Governo gli erano state affidate cariche ed uffici onerati di responsabilità (1) egli li coperse tutti degnamente, spiccandovi per senno, sapere e valore.

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NOTE

1) Fece pure parte del Tribunale supremo di guerra e del Contenzioso diplomatico
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FONTI e LINKS di approfondimento


 

1.  GIUSEPPE SAREDO - BIOGRAFIA

2.  L'INSEGNAMENTO SCOLASTICO E UNIVERSITARIO
 

3.  IL CREDO POLITICO - SAREDO LIBERALE E MONARCHICO
 

4. TEORIE FILOSOFICHE E RELIGIONE

 

5. L'INFUENZA POLITICA E  LA QUESTIONE ROMANA


6. IL COMMISSARIAMENTO E L'INCHIESTA DI NAPOLI

 

7. SCHEDE DEI LICEI DI SAVONA

 

 

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